domenica 26 luglio 2020

Nessuno sa che io sono qui

"Nessuno sa che io sono qui" (Nadie sabe que yo estoy aquí) di Gaspar Antillo. Con Jorge García, Millaray Lobos, Luís Gnecco, Nelson Brodt, Juan Falcón, Julio Fuentes. Cile 2020 
★★★½
Visto l'andazzo emergenziale da Covid-19, ma la tendenza era già in atto, toccherà adeguarsi a una fruizione prevalentemente casalinga del prodotto cinematografico: fino a qualche mese fa mi rifiutavo di recensire film visti in streaming sullo schermo della TV (Netflix finora mi pare la scelta migliore), ora tocca rassegnarmi, anche perché le poche sale che hanno riaperto continuano a offrire una programmazione alquanto scarsa, di qualità come di quantità. Non è un caso quindi che questo primo film del giovane regista cileno Gaspar Antillo, coprodotto dal connazionale Paulo Larraín e vincitore dell'ultima anomala edizione del Tribeca Film Festival nella categoria esordienti sia tra i migliori visti nella stagione. Memo ha sui trentacinque anni e si è nascosto dal mondo: vive su un'isola nella Patagonia cilena, nei pressi di Valdivia, e assieme a uno zio accudisce le pecore e ne concia le pelli: unico contatto con la terraferma un commerciante che, in motoscafo, le preleva in cambio di rifornimenti vari. Dotato da adolescente di una voce meravigliosa, ma non del physique du rôle per diventare una star, il padre l'aveva venduta, in cambio di un bel gruzzolo, per concederla ad Angel Casas, un coetaneo di bell'aspetto che cantava in playback, un personaggio costruito a tavolino che ne aveva usurpato i sogni; così Memo ha innalzato muri contro il resto del mondo, chiudendosi nei suoi sogni e in pochi svaghi: giocare a basket con lo zio e penetrare, di nascosto, nelle ville dei più abbienti, da cui però non ruba niente: solo per il piacere di guardare. Le cose cambiano quando, a sostituire il padre malato sul motoscafo, sull'isola, periodicamente, capita Marta, una giovane ragazza che ne riconosce la voce collegandola all'enorme successo goduto da Angel Cosas anni prima, e conquista pian piano la fiducia di Memo riuscendo alla fine a convincerlo a partecipare a una trasmissione con lo stesso Casas, ma da qui in poi non racconto oltre la trama: realtà e fantasia si confondono ma non è questo il punto, né interessante: quel che conta è il modo di raccontare la triste vicenda di questo infelice, l'artificiosità e l'ipocrisia del mondo dello Show Biz, l'avidità di certi genitori, il disvelamento, per gradi, dei retroscena. Suggestive le immagini, che mi hanno fatto tornare in luoghi che ho conosciuto piuttosto bene e mi sono rimasti nel cuore, essenziali ma precisi i dialoghi, atmosfera sospesa e giusti tempi. Grande interpretazione di Jorge García, volto noto di serie televisive di successo, di Gaspar Antillo sentiremo certamente parlare presto. Per il resto, il valore della cinematografia latino-americana e del Cono Sur in particolare non la si scopre adesso: dovrebbe accorgersene anche la distribuzione italiana, però. 

mercoledì 22 luglio 2020

Dio è donna e si chiama Petrunya

"Dio è donna e si chiama Petrunya" (Gospod postoj: imeto i' e Petrunija) di Teona Strugar Mitevska. Con Zorica Nusheva, Labina Mitevska, Simeon Moni Damevski, Suad Begovski, Stefan Vusijić, Violeta Sapkovska e altri. Macedonia, Belgio, Slovenia, Croazia e Francia 2019 
★★★★
La programmazione cinematografica estiva, se può definirsi tale in quest'anno bisestile particolarmente nefasto, ha di buono che consente il recupero di titoli che si erano persi nelle altre, più ricche, stagioni, com'è il caso di questo film della regista macedone Teona Mitevska, che del cliché balcanico ha ben poco pur dipingendo con rara efficacia un atteggiamento mentale che non è certo esclusiva della penisola a nostro fianco: il pregiudizio contro la donna in sé, quale minaccia su un superiorià maschile che pretende di definirne ruoli, estetica, qualità con la scusa di non precisati e giustificati "valori tradizionali", possibilmente suffragati dall'autorità religiosa. Ne viene fuori una storia esemplare, dove il lato ironico e grottesco emerge da una vicenda tanto verosimile da sembrare presa da un fatto di cronaca (e non è nemmeno escluso che sia così). Petrunya ha 32 anni (la madre, che la ossessione e la tormenta, le raccomanda di dichiararne almeno sei di meno quando si presenterà a un colloquio di lavoro) è sovrappeso, intelligente, colta, laureata in storia: titolo che non le serve, nella cittadina di Štipe, nemmeno per essere assunta quale segretaria del cafone che dirige una fabbrica tessile e che, quando si presenta, la tratta in maniera indecorosa. Tornando a casa, la ragazza, furiosa e avvilita, incappa in un una processione guidata dal pope locale il cui culmine è un rituale per cui Štipe è conosciuta nel resto del Paese: il lancio da un ponte di una piccola croce fra i flutti del fiume che attraversa la città e una folla di giovani che, in pieno inverno, si tuffa per recuperarla: chi ci riesce ha assicurato un anno di felicità è prosperità. Ed è questo il preciso e semplice motivo, e non un intento provocatorio o la volontà di esibirsi in un gesto "militante", che spinge Petrunya a buttarsi in acqua a sua volta, quando vede che nessuno dei baldi giovanotti è in grado di conquistare l'ambito trofeo; il branco, però, ché tale  si rivela, non accetta la sconfitta e si appella a supposte tradizioni e a regole che non stanno scritte da nessuna parte accusandola di averla "rubata": peccato che un video, girato da una televisione nazionale che ha seguito l'avvenimento, li smentisca. A cercare di convincerla a "restituire il maltolto" non ci si mette soltanto il clero, ma non sa quali pesci pigliare nemmeno l'autorità costituita, e Petrunya viene convocata per essere interrogata in commissariato e trattenuta fino a notte fonda pur non essendo in stato d'arresto e la stazione di polizia viene perfino assediata dal branco giovinastri esagitati fino all'arrivo di un magistrato. Petrunya, appoggiata dalla giornalista (la bravissima Labina Mitevska, sorella della regista) che dà rilievo nazionale alla vicenda (e viene per questo licenziata), tieme duro e trova sempre le argomentazioni giuste per difendere le sue ragioni che, come accennato, non sono revanchiste ma soltanto la ricerca di un minimo di felicità e pace, cosa di cui non gode nemmeno in famiglia, specie per colpa della madre, che è la sua prima nemica. Grande interpretazione di Zorica Nusheva, a cui si impara presto a voler bene e che riesce perfino a fare trapelare una certa bellezza anche in fattezze non esattamente canoniche. Ecco un esempio di come si possa fare un film politico e civile nel più alto senso del termine pur senza fare proclami ed esibire militanze di alcun tipo, raccontando, bene, per immagini e parole, una storia semplice ed esemplare. 

sabato 18 luglio 2020

L'hotel degli amori smarriti

"L'hotel degli amori smarriti" (Chambre 212) di Christophe Honoré. Con Chiara Mastroianni, Benjamin Biolay, Vincent Lacoste, Camille Cottin, Stéphane Roger e altri. Francia 2019 
★★½
Dopo il blocco delle proiezioni nelle sale per oltre tre mesi, è comprensibile che, tra paura di contagio, misure di "distanziamento" e stagione estiva l'attività cinematografica sia ripresa sottotono, ma a scoraggiare l'affluenza ci si mette anche l'offerta, invero miseranda e, non si capisce perché, costituita in gran parte da film francesi o francesoidi, sia come provenienza sia come stile, ossia verbosi, perlopiù all'eccesso, in cui le immagini contano davvero poco. Tra questi, incoraggiato dalla breve durata del film (85') e dalla promettente presenza di Chiara Mastroianni (sempre più impressionante quanto sia la versione femminile di cotanto padre) ho scelto, ammetto senza alcun entusiasmo, questa strana commedia surreale che ha come tema gli effetti del trascorrere del tempo sui rapporti sentimentali e la percezione dell'amore alle diverse età. Cosa rimane di sé stessi col passare degli anni? E cosa della persona di cui ci si è innamorati venti o più anni fa? Vallo a sapere, ma prima o poi arriva il momento in cui tocca trovare la risposta a queste domande, ed è ciò che accade a Marie e Richard quando costui scopre, da un messaggio Whatsapp giunto sul cellulare della moglie, una docente di storia del diritto penale, che lei lo tradisce con un suo studente. Ed è solo  l'ultimo di una lunga serie, tutti ragazzi più giovani, confessa la donna quando il marito la interroga, asserendo, a sua discolpa, che qualche scappatella sia implicita quale condizione tacita, ma necessaria, per la durata di un rapporto. Richard ne rimane sconvolto e lei decide dunque di trascorrere la notte nell'Hotel di fronte, il Lenox di Rue Delambre, a Montparnasse (piena di riferimenti cinephiles), per riflettere sulla situazione. La sua camera, significativamente la 212 (che è il numero dell'articolo del codice civile francese che stabilisce i diritti e i doveri dei coniugi), si affaccia sull' appartamento della coppia (che a sua volta si trova sopra una sala cinematografica) e quindi può spiare le reazioni del marito, mentre la stanza dove alloggia si trasforma nel palcoscenico di ciò che avviene nella sua mente, dove con salti temporali apparentemente incongrui ritrova Richard all'età che aveva ai tempi in cui si innamorò di lui, dialogando con lui come se questi avesse avuto sentore già allora di quel che sarebbe accaduto; in questo suo viaggio surreale, senza bisogno di alcun additivo chimico, incontra non solo la schiera dei giovani amanti, ma anche la madre e la nonna nonché una sorta di Charles Aznavour caricaturale che impersona la sua stessa coscienza, a cui chiede consiglio sul da farsi. Al contempo ricompare, nell'appartamento di fronte, anche il primo amore di Richard, che a sua volta era più anziana di lui: la sua insegnante di piano al Conservatorio, strumento che l'uomo si sarebbe rifiutato di proseguire a suonare dopo esserne stato lasciato perché sposasse, appunto Marie... Il film è d'impianto prettamente teatrale, bizzarro, ironico con un sottofondo amarognolo e per nulla stupido: la sceneggiatura sta in piedi e, affidata a una coppia di professionisti di livello, oltre che ben rodata da un matrimonio fallito (Mastroiannni e Biolay erano sposati), funziona. Qualcosa di diverso, che affronta temi seri in modo leggero ma non superficiale: una gradevole sorpresa. 

lunedì 13 luglio 2020

The Gangster, The Cop, The Devil

"The Gangster, The Cop, The Devil" di Won-Tale Lee. Con Ma Dong-Seok, Kim-Sung Kyung, Mu-Yeol Ki, Choi Min-Chul, Heo Dong-won, Yoo jae-Myung e altri. Corea del Sud 2019 
½
Benché sia un estimatore del cinema coreano, e in particolare del prolifico filone noir d'azione in cui si innestano sia venature comiche sia spunti di critica a un sistema marcio, il secondo lavoro di Won-Tale Lee mi ha parzialmente deluso, non tanto per la sceneggiatura e la trama (robuste) e nemmeno per le interpretazioni (strepitosa quella del gigantesco Ma Dong-Seok, icona del cinema locale) quanto per motivi tecnici: il doppiaggio era completamente fuori sincrono e scadente (sarebbe stato molto meglio lasciare il film coi sottotitoli in italiano) e le scene di violenza, specialmente le scazzottate, che risultano ancora meno credibili di una banale esibizione di wrestling: insomma chi apprezza il genere chiede non tanto verosimiglianza ma almeno le cose fatte per bene. Come accennavo la sceneggiatura ci sta tutta: Jung, un poliziotto un po' spaccone ma onesto in un commissariato diretto da un corrotto, vuole fare pulizia in città e chiudere l'attività di un gangster che produce slot machine oltre a essere coinvolto in mille altri traffici e che unge i suoi capi: tale Jang (interpretato dal Bud Spencer della situazione: Ma Dong-Seok, per l'appunto). Nel frattempo avvengono una serie di accoltellamenti mortali senza movente a seguito di misteriosi incidenti stradali: il detective è convinto che si tratti di un serial killer, ma i suoi superiori non lo prendono sul serio e ostacolano le sue indagini, finché ne rimane vittima proprio il boss Jang, che però scampa all'aggressione per un pelo e, soprattutto, è l'unico che finora ha visto in faccia lo psicopatico autore delle aggressioni, che usa sempre lo stesso coltello e lo stesso sistema: tamponare l'auto della vittima per costringerla a fermarsi per constatare il danno, e accade così che  si crei un'alleanza inedita fra Jung, Jang e altre gang interessate da un lato alla cattura dell'omicida seriale, dall'altra a una ridefinizione delle loro sfere di competenza. Alla fine di infinite vicissitudini e dopo mille colpi di scena, il detective Jung l'avrà vinta su tutto il fronte, ma non senza problemi, però a giganteggiare, e non solo fisicamente, sarà Jang, il vero artefice dell'arresto del pazzo criminale, che produrrà le prove in tribunale a costo di costituirsi. Non me la sento di dare una sufficienza piena, ma visto il poco che offre il mercato è comunque un film vedibile. 

domenica 5 luglio 2020

giovedì 2 luglio 2020

Terrazza a mare



                           
                                 
                                 Pianosa (Livorno)