mercoledì 22 luglio 2020

Dio è donna e si chiama Petrunya

"Dio è donna e si chiama Petrunya" (Gospod postoj: imeto i' e Petrunija) di Teona Strugar Mitevska. Con Zorica Nusheva, Labina Mitevska, Simeon Moni Damevski, Suad Begovski, Stefan Vusijić, Violeta Sapkovska e altri. Macedonia, Belgio, Slovenia, Croazia e Francia 2019 
★★★★
La programmazione cinematografica estiva, se può definirsi tale in quest'anno bisestile particolarmente nefasto, ha di buono che consente il recupero di titoli che si erano persi nelle altre, più ricche, stagioni, com'è il caso di questo film della regista macedone Teona Mitevska, che del cliché balcanico ha ben poco pur dipingendo con rara efficacia un atteggiamento mentale che non è certo esclusiva della penisola a nostro fianco: il pregiudizio contro la donna in sé, quale minaccia su un superiorià maschile che pretende di definirne ruoli, estetica, qualità con la scusa di non precisati e giustificati "valori tradizionali", possibilmente suffragati dall'autorità religiosa. Ne viene fuori una storia esemplare, dove il lato ironico e grottesco emerge da una vicenda tanto verosimile da sembrare presa da un fatto di cronaca (e non è nemmeno escluso che sia così). Petrunya ha 32 anni (la madre, che la ossessione e la tormenta, le raccomanda di dichiararne almeno sei di meno quando si presenterà a un colloquio di lavoro) è sovrappeso, intelligente, colta, laureata in storia: titolo che non le serve, nella cittadina di Štipe, nemmeno per essere assunta quale segretaria del cafone che dirige una fabbrica tessile e che, quando si presenta, la tratta in maniera indecorosa. Tornando a casa, la ragazza, furiosa e avvilita, incappa in un una processione guidata dal pope locale il cui culmine è un rituale per cui Štipe è conosciuta nel resto del Paese: il lancio da un ponte di una piccola croce fra i flutti del fiume che attraversa la città e una folla di giovani che, in pieno inverno, si tuffa per recuperarla: chi ci riesce ha assicurato un anno di felicità è prosperità. Ed è questo il preciso e semplice motivo, e non un intento provocatorio o la volontà di esibirsi in un gesto "militante", che spinge Petrunya a buttarsi in acqua a sua volta, quando vede che nessuno dei baldi giovanotti è in grado di conquistare l'ambito trofeo; il branco, però, ché tale  si rivela, non accetta la sconfitta e si appella a supposte tradizioni e a regole che non stanno scritte da nessuna parte accusandola di averla "rubata": peccato che un video, girato da una televisione nazionale che ha seguito l'avvenimento, li smentisca. A cercare di convincerla a "restituire il maltolto" non ci si mette soltanto il clero, ma non sa quali pesci pigliare nemmeno l'autorità costituita, e Petrunya viene convocata per essere interrogata in commissariato e trattenuta fino a notte fonda pur non essendo in stato d'arresto e la stazione di polizia viene perfino assediata dal branco giovinastri esagitati fino all'arrivo di un magistrato. Petrunya, appoggiata dalla giornalista (la bravissima Labina Mitevska, sorella della regista) che dà rilievo nazionale alla vicenda (e viene per questo licenziata), tieme duro e trova sempre le argomentazioni giuste per difendere le sue ragioni che, come accennato, non sono revanchiste ma soltanto la ricerca di un minimo di felicità e pace, cosa di cui non gode nemmeno in famiglia, specie per colpa della madre, che è la sua prima nemica. Grande interpretazione di Zorica Nusheva, a cui si impara presto a voler bene e che riesce perfino a fare trapelare una certa bellezza anche in fattezze non esattamente canoniche. Ecco un esempio di come si possa fare un film politico e civile nel più alto senso del termine pur senza fare proclami ed esibire militanze di alcun tipo, raccontando, bene, per immagini e parole, una storia semplice ed esemplare. 

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