domenica 31 marzo 2019

Kingdom / Agrupación Señor Serrano


"Kingdom" / Agrupación Señor Serrano di Àlex Serrano, Pau Palacios, Ferran Dordal. Con Diego Anido, Pablo Rosal, Wang Ping-Hsiang, David Muñiz, Nico Roig. Project Manager Barbara Bloin; musica Nico Roig; programmazione video Davi Muñiz; creazione video Vicenç Viaplana; modelli in scala Àlex Serrano e Silvia Delagneau; disegno luci Cube.bz; coreografia Diego Anido. Produzione Grec 2018 Festival de Barcelona, Teatros del Canal, Teatro Lliure, machester Home Theatre, Théâtre National Wallonie-Bruxelles, Groningen Grand Theatre, La Triennale di Milano/Teatro dell'Arte, CSS Teatro stabile d'innovazione del FVG, Teatro Stabile del Veneto, Romaeuropa Festival.
Al Teatro PalaMostre di Udine per CSS Teatro Contatto
Un felicissimo ritorno, quello del formidabile collettivo catalano a Udine, che pregustavo da due anni, quando il loro A House in Asia mi aveva folgorato: una rivelazione. Questo nuovo spettacolo, presentato la scorsa stagione, ne è all'altezza a conferma, se fosse stato necessario, dell'affiatamento, della coerenza e della creatività di questa vera e propria comune di eclettici artisti che ha la propria base d'azione a Barcellona. Stavolta è il turno della storia della banana come parabola per leggere il sistema capitalistico, una storia tutta americana che parte dal 1899 quando Minor Cooper Keith fondò la United Fruit Company: allora nessuno in quello che si definisce Occidente aveva mai visto una banana, mentre trent'anni dopo il frutto era già diventato quello che è ora, ossia il re de supermercati, quello che costa meno e si trova ovunque nell'orbe terracqueo. Cos'era accaduto, nel frattempo? Tante cose, oltre al controllo del Centro e Sud America dove le banane sono prodotte, ma soprattutto l'inizio della manipolazione sistematica delle menti e lo sviluppo del mito del continuo progresso e miglioramento da un lato, ma anche la propalazione di simboli macho dall'altro attraverso la pubblicità e la trasformazione finale dell'uomo in macchina da consumo e il racconto ossessivo che stiamo bene, nonostante qualche crisi "passeggera" (a scadenza regolare e con modalità che si ripetono identiche nel tempo, nel 1929 come nel 2008, e ci siamo ancora nel mezzo). Agrupación Señor Serrano riesce a comunicare il proprio messaggio dissacrante e lucido usando magistralmente ogni mezzo espressivo utile allo scopo, spaziando dall'artigianato d'autore per la creazione dei modellini in scala che poi vengono filmati con modernissime telecamerine per la produzione e il montaggio in presa diretta di video che vengono proiettati su un telo a fondo scena assieme a filmati di repertorio o tratti da pellicole d'epoca (in questo caso King Kong e le piantagioni della Chiquita in Costarica, laddove nello spettacolo precedente si trattava di Moby Dick e delle cariche del 7° Cavalleggeri, altri miti yankee) i quali si integrano con le esibizioni musicali e vocali degli interpreti: questa volta c'è anche un rapper cinese di cui non occorre capire la lingua, a prescindere dal fatto che la traduzione in italiano scorre sullo schermo, per comprendere il senso di ciò che dice e canta. Tutti bravissimi, comunque, compreso un gruppo di culturisti che si aggiunge ai cinque performer nel finale di 65' serrati, sincopati, colorati, irriverenti e una chiusura letteralmente scoppiettante: un successo trionfale. Ancora una volta, raccomando vivamente di non lasciarsi sfuggire questo spettacolo se si ha la fortuna che capiti nei propri paraggi. 

venerdì 29 marzo 2019

Ricordi?

"Ricordi?" di Valerio Mieli. Con Luca Marinelli, Linda Caridi, Gianni Anzaldo, Camilla Diana e altri. Italia, Francia 2018 ★★★½
Introverso ai limiti della depressione, lugubre, tormentato da un cattivo ricordo del passato  e incapace di intravedere un futuro lui; espansiva, empatica, solare nonché immersa nel presente e fiduciosa in un futuro tutto da costruire lei; entrambi insegnanti, lui assistente di storia all'università, professoressa al liceo lei, si attraggono per un gioco di compensazioni e complementarietà e vanno a convivere in una vecchia casa, già abitata da lui assieme ai genitori da ragazzino, e che tornerà d'attualità una terza volta quando, dopo essersi lasciati per crescenti sfasamenti e diverso modo di intendere la loro storia, si stanno nuovamente cercando e forse la loro relazione avrà un nuovo inizio. Detta così potrebbe sembrare una storia d'amore classica e il film una commedia romantica dallo svolgimento prevedibile, e invece il secondo film di Valerio Mieli, a distanza di quasi un decennio dal felicissimo esordio di Dieci inverni, è tutto fuorché lineare: un collage di immagini e frammenti di dialoghi avanti e indietro nel tempo che, ammetto, per la prima ventina di minuti mi ha lasciato perplesso, e a un certo punto irritato a chiedermi quando finisse l'introduzione e cominciasse non dico l'azione, ma la vicenda vera e propria fino a prendere in considerazione l'idea di abbandonare la sala e andarmene a casa a dormire. Eppure il senso era proprio quello: ricreare l'aura di sogno che accompagna l'emergere dei ricordi che sono personali anche quando condivisi e influenzati dal proprio stato d'animo e dalla condizione attuale, perché ognuno li elabora a modo suo, come è altrettanto vero che per quanto riguarda la maniera di vivere il momento o la stessa situazione. I due non hanno nome, i luoghi nemmeno, l'unico ad avercelo è il "terzo" incomodo, Marco, amico fin dall'infanzia di lui e nuovo amore, per un certo periodo, di lei. Fra i due protagonisti le parti a un certo punto si invertono: lei si sente fagocitata dal pessimismo e dalla mancanza di fiducia di lui e perde man mano la sua spensierata spontaneità; lui, dopo la fine del loro rapporto cerca di ricostruire cosa andava cercando nelle altre che aveva avuto, fino a tornare a far visita a una fidanzata dell'adolescenza, e man mano riscopre la possibilità e il senso di vivere appieno anche nell'attimo fuggente. Non vi è alcun ordine cronologico e il bello del film è di risultare una sorta di mosaico, peraltro ben assemblato sia per quanto riguarda le immagini, che verrebbe da definire impressioniste, grazie alla fotografia di altissimo livello di Daria D'Antonio, sia del racconto che, per quanto asincrono e frastagliato, rende davvero l'idea di come operi la memoria in ciascuno di noi, ed è questa, non la vicenda amorosa in sé, che è al centro del film e che lo rende un'esperienza in cui qualunque spettatore può ritrovarsi, basta che si lasci andare e coinvolgere, e nel mio caso è stato così nonostante le premesse. Pellicola dunque suggestiva quanto inconsueta, e azzeccata la scelta dei due interpreti: per Marinelli, molto misurato, non si tratta di una novità mentre nel caso di Linda Caridi una piacevole sorpresa. 

mercoledì 27 marzo 2019

Peterloo

"Peterloo" di Mike Leigh. Con Rory Kinnear, Maxine Peake, Pearce Quigley, David Moorst, Rachel Finnegan, Tom Meredith, David Bamber, Tim McInnerny, Teresa Mahoney, Nico Mirallegro, Karl Johnson, Leo Bill, Ben Thorpe, Philip Jackson e altri. GB 2018 ★★★½
Inverosimile uscire delusi dalla visione di due film britannici in fila, a meno di andarsi a cercare i flop col lanternino, e infatti Peterloo, che rievoca il massacro di St. Peter's Field a Manchester, in cui persero la vita 15 persone per le violenze con cui Guardia Nazionale e Cavalleria dell'Esercito Reale repressero una manifestazione di sessantamila persone, soprattutto operai, per chiedere il suffragio universale e il diritto di rappresentanza per ogni regione del Paese avvenuto il 16 luglio del 1819, è tutt'altra cosa rispetto a La conseguenza, anch'esso nella sale in questo periodo. Benché in maniera forse troppo prolissa (la pellicola dura quasi due ore e quaranta minuti), il regista racconta soprattutto gli antefatti di questa vicenda passata alla storia ma poco ricordata, ribattezzata dai giornali dell'epoca Peterloo ricordando la battaglia in cui le truppe guidate dal Duca di Wellington sconfissero definitivamente Napoleone quattro anni prima. E proprio dalla località vallone, ora in Belgio, prende le mosse il film, mostrando il trombettiere Joseph che si aggira stordito sul campo di battaglia fino al suo ritorno nella natìa Manchester, in seno alla sua famiglia di lavoratori nell'industria tessile, allora in pieno sviluppo, in una situazione di crisi per l'introduzione delle tasse sul grano d'importazione che sta riducendo i lavoratori alla fame e in cui stanno prendendo piede le prime rivendicazioni sindacali e politiche, mentre nel parlamento di Londra ci si limita a discutere delle ricche prebende da riconoscere al trionfatore, per l'appunto, di Waterloo. Scampato a quella battaglia, l'incolpevole Joseph perderà la vita in St. Peter's Field, ma Mike Leigh non racconta la sua vicenda, se non marginalmente in forma di parabola, bensì, in dettaglio, i preparativi dell'evento sia dal lato delle organizzazioni dei riformatori, più o meno radicali, alcuni anche piuttosto settari e ispirati a visioni religiose, sia da quello degli eterni detentori del potere, che non solo scrivono le leggi utilizzandole poi a loro vantaggio, ma arrivano al punto di eluderle (sospendendo, come un questo caso, lo habeas corpus, base del sistema costituzionale inglese). Quella di Leigh, però, non è soltanto una ricostruzione storica resa efficace e verosimile attraverso immagini suggestive e una recitazione corale di grande effetto e qualità, bensì, soprattutto, una riflessione sulla parola e l'uso della retorica ai propri fini, per spiegare, convincere, manipolare, condannare, nonché sull'informazione: non a caso la manifestazione fu organizzata da un giornale di Manchester, il termine Peterloo coniato dai giornalisti, anche di testate, come il Times, di altre città presenti e testimoni degli eventi, e una delle figure centrali è Henry Hunt, un proprietario terriero che però sta dalla parte dei riformisti, venuto appositamente da Londra, egocentrico e vanesio, celebre per i suoi discorsi infuocati e coinvolgenti, una specie di star che pretende e ottiene di essere l'unico oratore della manifestazione. Insomma, una questione quanto mai attuale, che ha che vedere con la rappresentanza, la democrazia e, soprattutto la comunicazione. Bravo anche, il regista, a scegliere e far lavorare in sintonia un cast straordinariamente numeroso, eterogeneo, formato da attori a noi per lo più del tutto sconosciuti, capaci di caratterizzare in maniera estremamente credibile e suggestiva i diversi personaggi. Consigliato.

lunedì 25 marzo 2019

Sogno di una notte di mezza estate "limited edition"


"Sogno di una notte di mezza estate" di William Shakespeare. Traduzione di Dario Del Corno, regia di Elio De Capitani. Con Corinna Agustoni, Giuseppe Amato, Marco Bonadei, Sara Borsarelli, Carolina Cametti, Enzo Curcurù, Loris Fabiani, Lorenzo Fontana, Vincenzo Giordano, Sarah Nicolucci, Emilia Scarpati Fanetti, Luca Torraca, Vincenzo Zampa. Scene di Carlo Sala, costumi di Ferdinando Bruni, musiche originali di Mario Arcari, coro nella Notte di Giovanna Marini, luci di Nando Frigerio, suono Giuseppe Marzoli. Produzione Teatro dell'Elfo. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 31 marzo

Il Sogno è senz'altro il marchio di fabbrica della compagnia milanese (e quale altra opera teatrale potrebbe essere, trattando la celebre commedia shakespeariana, per l'appunto, di elfi e fate?), il filo conduttore della loro attività più che quarantennale. Fin fin dal primo allestimento del 1981, a firma Gabriele Salvatores (quelli successivi, del 1988 e 1997, sono opera di Elio De Capitani), cerco di non perdermi ogni nuova riproposizione di questo capolavoro del Bardo, che è occasione da un lato per preziose sperimentazioni e reclutamento di nuovi interpreti; dall'altra di divertimento per gli spettatori e per il gruppo stesso, come si evince puntualmente assistendovi. Così è stato anche stavolta in cui, rispetto all'edizione del 2011, a cui rimando per quello che c'è da dire su questo spettacolo sempre entusiasmante e apprezzato da un pubblico di ogni età, le varianti sono costituite dal subentro di Enzo Curcurù al posto di Ferdinando Bruni nel ruolo di Oberon; di Marco Bonadei come Bottom, il cuoco dall'accento bergamasco allora interpretato da Elio De Capitani (mentre Sara Borsarelli aveva già sostituito Ida Marinelli), Vincenzo Amato nella parte del leone (di pezza) e il ritorno di Lorenzo Fontana nella parte di Tisbe che aveva già nel 1997. L'unicità di questa particolare rappresentazione di ieri pomeriggio l'ha spiegata lo stesso regista e condirettore artistico Elio De Capitani prima che si spegnessero le luci in sala e, virtualmente, s'aprisse il sipario: la replica della sera di sabato 23 era, infatti, stata annullata per indisposizione di uno degli attori, nella fattispecie Vincenzo Giordano, che si era infortunato piuttosto seriamente a un ginocchio rendendolo inutilizzabile per un'esibizione che, nella particolare versione dell'Elfo, consiste non soltanto in una prestazione artistica ma anche in una vera e propria maratona atletica e acrobatica che richiede agli interpreti un notevole sforzo fisico. Tra la sera di sabato e la mattina di ieri, dunque, era stato necessario un supplemento di prove per studiare soluzioni che permettessero di continuare le recite in modo da utilizzare l'infortunato nei limiti del possibile senza arrecargli ulteriori danni. Alcune di esse il regista e capotribù degli Elfi sperava fossero divertenti e si augurava che il pubblico le apprezzasse, in particolare quelli in sala (e si riferiva anche a me sorridendo, che mi trovavo in seconda fila) avevano già visto lo spettacolo per la sedicesima volta: per loro sarebbe stata, per l'appunto, una limited edition; detto questo, si era accomodato due poltrone distanti dalla mia, in prima fila, a seguire attentamente i movimenti sul palcoscenico. Ovviamente ha avuto ragione e il pubblico in sala aveva manifestato la sua approvazione con un paio di scroscianti applausi a scena aperta prima dell'intervallo. Durante il quale De Capitani si è fermato a chiacchierare con gli spettatori a lui vicini, in particolare con me, che avevo avuto occasione di incontrarlo tante volte quando era attiva la sede del Teatro di Porta Romana, situato a 50 metri da dove ho abitato per 2/3 della mia esistenza. "Forse ho fatto un errore a fare il nome del ferito, visto che nessuno sembra aver capito di chi si tratti", ha esordito, continuando a raccontare com'era avvenuto l'incidente (a causa di una scivolata era andato lungo è si era ferito ginocchio e gamba), le tribolazioni delle prove, le simulazioni con una carrozzina con scene che avevano fatto sganasciare dal ridere tutta la troupe durante le prove della mattina (e i cui filmati conta di pubblicare sul sito del teatro) e raccontando alcuni aneddoti su quante ne ha viste durante i vari Sogni a cui ha partecipato: uno me lo ricordo anch'io, quando andò in scena Luca Barbareschi con la gamba ingessata, nel 1981, causando, questo non lo sapevo, un incidente con Ida Marinelli. Certo di aver assistito a qualcosa di speciale, e felice dello scambio di battute col più voluminoso dei due capotribù degli Elfi (Ferdinando Bruni non l'ho avvistato), non mi sono pentito di essermi sottoposto all'ennesima andata-e-ritorno di 760 km in giornata: ne è sempre valsa la pena, ma questa volta di più.

sabato 23 marzo 2019

La conseguenza

"La conseguenza" (The Aftermath) di James Kent. Con John Clarke, Keira Knightley, Alexander Skarsgard, Flora Thiemann, Kate Phillips, Martin Compston, Jannik Schümann e altri. GB 2019 
Non ho idea se il bestseller di tale Rhidian Brook da cui è tratto questo film sia o meno un feuilleton del Terzo Millennio; sicuramente La conseguenza trasposta sullo schermo da James Kent, regista a tutta evidenza di formazione e gusto televisivi, è un polpettone ai limiti del sopportabile, eppure l'argomento, la relazione tra vincitori e vinti, e l'epoca, non molto scandagliata, per non dire rimossa, del primissimo dopoguerra, sarebbero di per sé interessanti, ma di questo la pellicola sostanzialmente non parla, concentrandosi sul lato sentimentale e melodrammatico della vicenda. Siamo ad Amburgo nell'autunno del 1945, cinque mesi dopo la fine delle ostilità, e Lewis Morgan (Clarke), un colonnello dell'esercito britannico incaricato della ricostruzione della città, viene raggiunto dalla moglie Rachel (Knightley) e la coppia si stabilisce nella lussuosa villa, rimasta miracolosamente intatta in tanto sfacelo (si sta ancora scavando fra le macerie e continuano a essere rinvenuti cadaveri carbonizzati), che viene requisita all'architetto Stefan Luber (Skarsgard), rimasto vedovo, che vi abita con la figlia Freda. L'uomo, raffinato ed elegante, ora è costretto a lavorare in fonderia: in realtà lo vediamo quasi sempre in ghingheri aggirarsi nei saloni descrivendo le particolarità dell'arredamento e magnificando il design del Bauhaus; in più Lewis che, essendo militare, la guerra l'ha fatta e vista da vicino e vuole superarne la logica, cerca di stabilire un rapporto civile coi vinti e gli concede di rimanere a vivere nella mansarda. Chi si trova a disagio sono Rachel, che odia tutti i tedeschi indiscriminatamente perché il loro figlio è rimasto ucciso nei bombardamenti di Londra (lei però non si è fatta manco un graffio senza sentirsi minimamente in colpa, anzi: rinfaccia ancora al marito, che stava combattendo, di non aver approfittato dei sei giorni di licenza che gli erano stati concessi per raggiungerla) e Freda, che finisce col fare comunella con un giovane nostalgico del Führer. Siccome è davvero un film del cazzo che non merita di essere visto, vi racconto che fra lei e il bell'architetto nasce una tresca e si arriva al punto che lei sta per partire con lui e la figlia verso la Baviera per iniziare una nuova vita, salvo pentirsi e tornare, con la valigia già sul treno, fra le braccia del marito (muovendosi non si sa come, se a piedi, sotto la neve, e arrivando alla villa perfettamente asciutta e con la messa in piega intatta). Tutto quanto è altamente improbabile, a cominciare dalle abilità pianistiche della gentile signora, per non parlare delle singole situazioni e delle tempistiche sballate, per quanto l'ambientazione sia attenta ai dettagli, almeno per quanto riguarda l'arredamento. La recitazione dei due fedifraghi è penosa: né la Knightley (a ben guardarla, e i primi piani abbondano, molto meno bella di quel che crede o le fanno credere) né l'altro bellone Skarsgard hanno la minima idea di cosa significhi recitare, in compenso riescono entrambi a far diventare i loro personaggi ancora più odiosi di quel che già sono da copione, non si capisce se volutamente o no; l'altra coppia di odiosi, l'uomo dei servizi segreti inglesi e la moglie, Compston e Phillips, almeno conoscono il mestiere di attore; l'unico a salvarsi e non meritarsi tanta miseria è il povero Clarke. Uno spettacolo sconfortante: raramente ho visto un film britannico così penoso: se volete farvi del male, accorrete in sala! 

giovedì 21 marzo 2019

Momenti di trascurabile felicità

"Momenti di trascurabile felicità" di Daniele Luchetti. Con Pif, Thoni, Renato Carpentieri, Francesca Alleruzzo, Francesco Giammanco e altri. Italia 2019 ★★★½
E così, nonostante le mie fosche previsioni dopo l'esito alquanto penoso del suo ultimo film Io sono tempesta Daniele Luchetti, che dietro alla macchina da presa è uno dei più in gamba in Italia, si è prontamente rifatto alla prima occasione, trasfondendo sul grande schermo, in collaborazione con l'autore, Francesco Piccolo, a sua volta sceneggiatore anche per Nanni Moretti, il contenuto di due libriccini di successo dello stesso, basati su una serie di frammenti e riflessioni su piccoli avvenimenti tratti dalla quotidianità che, nel film, sono stati ricomposti in un racconto che fluisce tra passato e presente, sogno e realtà nella forma di commedia aggraziata e surreale. A Paolo (Pif), un ingegnere sui quaranta che lavora in un cantiere navale di Palermo, marito felice della poco più giovane e "creativa" Agata, padre di due figli, l'emblema di una famiglia della sinistra progressista e bene inserita, al momento della morte per un incidente in motorino (ha sfidato come sempre la sorte di passare a un incrocio nel preciso istante in cui tutti i semafori sono sul rosso: questa volta non ce l'ha fatta per un quarto di secondo), al centro di smistamento-anime nel Purgatorio, una via di mezzo tra la cancelleria di un tribunale e un ufficio postale, viene concesso un supplemento di vita di un'ora e 32', la durata esatta del film, per un errore di calcolo, e a riaccompagnarlo sulla Terra è il suo angelo custode, il sempre bravissimo Renato Carpentieri, che gli dà alcuni opportuni suggerimenti (prontamente disattesi) su cosa fare e soprattutto evitare in questo breve lasso di tempo che il suo assistito vorrebbe utilizzare per sistemare "le ultime cose in sospeso". Cosa che non riuscirà, perché ripiomberà nei ritmi della vita di tutti i giorni che sono completamente diversi, facendovi da contrappunto, da quelli degli ultimi istanti di vita nei quali, cosa che "scopriremo solo vivendo" (e morendo), si ripercorrerebbe tutta la propria esistenza nei suoi momenti salienti e ricavandone, forse, il senso. Questi momenti sono appunto quelli del titolo, di trascurabile felicità o anche infelicità; le piccole ossessioni, le manie, gli infantilismi del personaggio principale, interpretato da un non-attore come Pif ma senza la conseguenza di farne un "film di Pif" (alcuni molto ben riusciti, altri un po' meno ma comunque gradevoli) ma in cui Pif funziona comunque dando a Paolo quell'aria tra lo stralunato e il fanciullesco che lo rende non solo simpatico ma vicino, in tanti suoi aspetti, a chiunque. Oltre a una sceneggiatura che scorre bene, alla riuscita della pellicola contribuiscono anche la brava Thoni (Agata), i due ragazzi che recitano la parte dei figli (più maturi e sensati dei genitori), i caratteristi di contorno e l'ambientazione in una Palermo autentica, non stereotipata, e per una volta non romanesca, milanese o torinese, con tanto di parlata che, essendo quella degli attori, quasi tutti indigeni, e quindi non caricaturale, soprattutto in bocca alle donne risulta estremamente orecchiabile e gradita. Divertente, con garbo e intelligenza, malinconico il giusto, Momenti di trascurabile felicità fa anche riflettere, ma senza menarla. Bentornato, Luchetti!

martedì 19 marzo 2019

Boy Erased - Vite cancellate

"Boy Erased - Vite cancellate" di Joel Edgerton. Con Lucas Hedges, Nicole Kidman, Russell Crowe, Joel Edgerton, Flea e altri. USA 2018 ★★
Il tema è serio: l'oscurantismo e la paranoia degli adepti di certe congreghe religiose cristiane molto diffuse negli USA; la storia da cui è tratto, vera; il cast, almeno in teoria, d'eccellenza, ma il risultato  è deludente e il film fiacco. Un peccato, perché mette il dito in una piaga: in 36 Stati del Paese delle Libertà è tuttora consentito che esistano delle strutture in mano a istituzioni religiose e dirette da invasati e ciarlatani che operano come centri di recupero per "deviati" di varia natura: omosessuali anche solo potenziali (col risultato di diventarlo del tutto, come in questo caso); ludopatici, alcolisti, drogati, maniaci sessuali (o presunti tali), dove durante la "cura" ai degenti viene impedito di comunicare all'esterno, e soprattutto, di divulgare i metodi con cui si provvede a riportarli sulla retta via, che vanno dalla violenza psicologica alle pene corporali. Un percorso che il protagonista, Jared, un diciottenne socievole e confusamente attratto dai coetanei, figlio di un predicatore battista e della sua improbabile moglie, intraprende volontariamente dopo che ha confessato le sue tendenze al padre e questi si è consultato con i maggiorenti della comunità battista di una città dell'Arkansas (The Land of Opportunities: così recita la targa automobilistica dello Stato: come no...), tutti convinti che l'omosessualità sia una patologia e non  frutto di una libera scelta. Ché poi, solo a vedere il quadretto di una famiglia in cui la comunicazione è forzatamente azzerata, col padre monomaniacale e una madre improbabile, che solo per come si concia spiega come mai un ragazzo normalissimo, avendola come modello femminile, reprima qualsiasi tentazione eterosessuale, tutto si spiega, meno che ne esca un ragazzo sensibile e intelligente. Che proprio per queste sue caratteristiche si ribellerà alle angherie cui il curandero, una specie di guru senza alcuna formazione scientifica la cui terapia consiste in demenziali citazioni dalla Bibbia, sottopone i "malati" e abbandonerà il programma "Rifugio" con l'appoggio della madre, affrontando finalmente il padre. Siccome siamo in Ammeriga, il Land of Opportunities più in grande e per definizione, Jared diventerà uno scrittore di una certa fama, il padre rivedrà i suoi preconcetti, la madre andrà avanti a vestirsi come la caricatura di un puttanone e poi tutti vissero felici e contenti. La cosa più divertente, e prevedibile, è che il terapeuta sadico, nella realtà, lascerà la congregazione e si sposerà, in un altro Stato, con un uomo. Spiace per gli sforzi di Joel Edgerton, attore australiano alla sua seconda regia, che in questa occasione si è anche cimentato nel ruolo del cattivo cavandosela egregiamente come del resto Lucas Hedges (già apprezzato in Grand Hotel Budapest e Manchester by the Sea) nella parte di Jared, ma il film risulta poco convincente e questo proprio per colpa della prestazione delle due star, provenienti dall'Oceania come lui, chiamate a fare da specchietto per le allodole: Nicole Kidman sempre più plastificata e irrigidita al punto che il suo volto non è più in grado di comunicare alcuna espressione, nel ruolo di una madre quarantenne agghindata in maniera ridicola perfino per certe pensionate settantenni a Miami, e un Russell Crowe imbolsito come non mai a farle da degno consorte, entrambi deprimenti se non fossero ridicoli. Quando la scelta di ingaggiare due stelle di Hollywood trasforma una pellicola altrimenti dignitosa e pure istruttiva in un flop

domenica 17 marzo 2019

Eclipse / Chiara Civello Trio in concerto


Per essere una città di provincia, la vita artistica, culturale, musicale e, diciamolo, anche sportiva di Pordenone, che raramente a Sud del Po qualcuno è in grado di collocare correttamente su una cartina geografica, è particolarmente frizzante: in un periodo di generale "stanca" come questo, a conclusione della 25ª edizione di DedicaFestival, incentrato quest'anno sull'opera della la scrittrice e poetessa nicaraguense Gioconda Belli, l'Associazione Culturale Thesis ha organizzato per un degno finale un concerto col Trio di Chiara Civello che prende il titolo dall'ultimo lavoro della poliedrica ed eccellente pianista e chitarrista d'ispirazione jazz che si è esibita per la prima volta su questa piazza nelle rinnovate sale dell'ex cinema Capitol. Seguo questa raffinata artista, unica nel panorama italiano, fin dall'inizio della sua carriera, dal primo album Last Quarter Moon, registrato, prodotto e uscito negli USA per la Verve (la casa per cui peraltro incide la collega Diana Krall, e a mio parere come livello siamo lì), a cui mi accomuna la passione per la musica brasiliana e il segno zodiacale (gemelli): da qui l'irrequietezza, ma anche la curiosità e l'amore per i viaggi, regolarmente intrapresi nei momenti in cui si sente la necessità di svoltare ("La tesi è: l'arte della ripetizione...", dice lei); purtroppo non l'età (lei ha giusto vent'anni in meno) e il talento musicale per cui, rendendomi conto dei miei limiti, ho lasciato perdere sia il pianoforte sia la chitarra, però di musica di tutti i generi, anche per tradizione famigliare, ne ho ascoltata tanta e vado avanti a farlo, e sono in grado di riconoscere subito quella buona e chi sa suonarla e interpretarla: Chiara Civello, in questo senso, è una rara avis. Nel concerto di ieri sera (sala colma, successo travolgente), accompagnata da Seby Burgio alle tastiere e al basso elettronico e dal giovane fresco neolaureato Francesco Aprili alla batteria e all'elettronica, ha eseguito sia i pezzi di Eclipse, album uscito due anni fa, un lavoro in between fra luci e ombre, pittorico, cinematografico, come l'ha definito, ma anche fatto un riassunto del suo percorso artistico, dal suo soggiorno di studio a Boston e la gavetta a New York (di quel periodo Trouble, pezzo scritto a quattro mani niente meno che con Burt Bacharach) al viaggio in Brasile nel 2008, in un momento particolare della sua vita, in occasione del quale ha avuto modo di conoscere e frequentare  di persona, dopo averli apprezzati musicalmente, i massimi esponenti del tropicalismo e della bossa nova, da Chico Buarque a Caetano Veloso a Gilberto Gil (di cui fu anche ospite speciale nelle tre date del Refavela Tour 40 che l'ex ministro della Cultura brasiliano tenne in Italia l'estate scorsa, e che purtroppo mi sono perso) ed è cominciata una fertile collaborazione con alcuni di essi, in particolare Ana Carolina e Dudu Falcão, oltre che con il chitarrista Pedro Sá, con cui ha firmato Um día, il pezzo "inno dei gemelli" con il quale ha terminato la serie di bis in chiusura di un concerto trascinante, durato poco meno di due ore, in cui con la sua voce calda e avvolgente non ha mancato di cantare e suonare cover di classici come Moon River o interpretare, da autentica crooner al femminile, numerosi pezzi scritti da lei stessa nonché rinverdire, con efficaci ed essenziali arrangiamenti elettronici bene amalgamati con gli strumenti suonati dal trio, alcuni classici della musica leggera italiana migliore, da Parole, parole a Io che amo solo te a Va bene così. Chiara Civello ha presentato uno show elegante, senza fronzoli, con grande personalità, calore, comunicativa, così come del resto è lei, qualcosa di più che una semplice cantante, interprete e musicista: un'artista a tutto tondo e una affascinante giovane donna alla mano, senza mai cedere alla ruffianeria, una cosa rara.

sabato 16 marzo 2019

The Day After / Greta dice...


Non mi stupisce che, con il gigantesco battage pubblicitario che l'ha preceduto, il primo Sciopero mondiale per il clima tenutosi ieri, e che ha interessato giovani studenti a tutte le latitudini, in buon numero bambini delle elementari e adolescenti delle medie, estensione a livello planetario dei venerdì di protesta della sedicenne svedese Greta Thunberg (da notare l'originalità del giorno prescelto, guarda caso quello che precede il fine settimana consacrato al tempo libero, da trascorrere possibilmente a fare shopping nei centri commerciali o in pellegrinaggio su quattro ruote o perfino in pullman organizzati in remoti outlet di provincia) abbia avuto un notevole successo di partecipazione ovunque, tranne, pare, che in Grecia: lì, come ha notato qualcuno, a rendere tutti austeri ed ecologisti ha provveduto la Troika. Così come non è stato per nulla inaspettato scorgere ieri mattina solerti madamine intente a dirigere le operazioni perfino nella piazza principale di una cittadina di 12 mila abitanti come quella in cui risiedo. Detto questo, non ho nulla contro una presa di coscienza in senso ecologico da parte dei più giovani, del resto è su di loro e i loro figli che si scateneranno gli effetti del disastro ambientale innescato dalla generazione di cui faccio parte in nome di un presunto progresso basato sull'aumento della produzione di merci spesso inutili e impossibili da smaltire se non con processi fortemente inquinanti e misurato in termini di PIL (che fosse una follia perversa l'aveva già detto 50 anni fa Robert Kennedy, che tre mesi dopo aver pronunciato un famoso discorso al riguardo fu assassinato). Però alcune domande credo sia il caso di porsele. Per cominciare, da dove spunta il personaggio, al centro di una campagna mediatica con pochi precedenti, dall'aspetto vagamente inquietante, fra le gemelle di Shining e Pippi Calzelunghe? Di cui si sottolinea, furbescamente, che sia affetta dalla Sindrome di Asperger, così da renderla inattaccabile pena l'accusa di discriminazione già pronta all'uso. Com'è che quando, quasi una ventina di anni fa, tra Seattle e Genova un movimento internazionale diceva le stesse cose, ma in maniera più strutturata e radicalmente critica nei confronti del mantra della Globalizzazione presentata come un approdo inevitabile e perfino auspicato, il Sistema e i suoi scagnozzi si sono scatenati a reprimerlo con una brutalità senza precedenti dal 1945, almeno qui in Italia, mentre adesso ascoltiamo i peana dell'informazione pressoché all'unisono e Greta Thunberg viene invitata alle sedute della Conferenza sul Clima dell'ONU di Katovice (qui tenne il discorso che ha dato il via alla sua notorietà su scala mondiale); a quelle dell'altrimenti blindato Forum Economico di Davos (amena località dei Grigioni da cui bisogna stare alla larga per un raggio di una quindicina di chilometri nei giorni in cui si svolge); ossequiata perfino con il baciamano

dalla più alta carica dell'UE a Bruxelles e, da ultimo, proposta come candidata al Premio Nobel per la Pace, invero alquanto sputtanato (e qui viene in mente Malala, sulla cui figura è stato montato a suo tempo un caso mediatico che costituisce un istruttivo precedente)? Com'è che ha già pronto un libro scritto a otto mani in famiglia con mamma, papà e sorella, che in Italia uscirà in maggio e verrà pubblicato, ma guarda un po', da Mondadori (leggi Berlusconi, noto ecologista)? Infine, come non pensare male quando politici come Zingaretti dedicano alla ragazzina svedese la propria elezione a segretario di partito e al contempo, come tale, il primo discorso pubblico lo tiene davanti ai cantieri del TAV a sostegno di un'opera inutile quanto disastrosa per il territorio e altamente inquinante, accodandosi al resto dell'establishment sostenuto dagli stessi trombettieri dell'informazione (Stampubblica e CorSera in testa) che ora inneggiano a Greta? Anche qui abbiamo il precedente di Bersani, che si intestò la vittoria al referendum sull'Acqua Bene Comune del 2011 che il suo partito aveva osteggiato fino al giorno prima (gli esiti del quale, peraltro, i governi che appoggiò e di cui fece parte affossarono sistematicamente), o quelli dei due Mattei, Salvini e Renzi, entrambi prima contro il TAV e poi a favore, stessa identica posizione che tennero sugli inceneritori, il cui numero venne incrementato fino al punto di definire "strategico" lo smaltimento dei rifiuti con questa modalità fortemente nociva proprio dal  decreto SbloccaItalia del 2014 di renziana memoria (e che il governo attuale, nonostante le promesse in proposito, non ha a sua volta ancora provveduto a revocare). Insomma: a pensar male (del prossimo) si fa peccato, ma si indovina. Non lo dico io ma nemmeno Andreotti, come pensano i più: la citazione è di Papa Ratti, Pio XI. Attualissima. Specie quando la manipolazione e la strumentalizzazione sono in agguato e stanno già operando. 

giovedì 14 marzo 2019

Diabolik sono io

"Diabolik sono io" di Giancarlo Soldi. Con Luciano Scarpa, Manuela Parodi, Stefania Casini, Francesca Fiorentini, Paolo Buglioni. Italia 2019 S.V.
Mah. Un altro prodotto italiano che reputo ingiudicabile, come già il recente Domani è un altro giorno: quello perché una copia francamente inutile, e al limite del plagio di un altro film; questo perché non si capisce cosa voglia essere, se non un omaggio di questo eroe a fumetti del tutto italiano, passato da una generazione all'altra a partire dagli inizi degli anni Sessanta,  al culmine del boom economico che trasformò completamente il Paese e questo nella città simbolo di quell'epoca aurea: Milano. Non perché una pellicola debba per forza appartenere a un genere ben preciso: in questo caso tra il documentario e la sua parodia, mockumentary come si usa dire con un orripilante termine preso dall'inglese, ibridato da una parte di finzione a sua volta innestata su una finta inchiesta: scoprire dove sia finito Angelo Zarcone, colui che disegnò la prima storia del personaggio inventato dalle sorelle Angela e Luciana Giussani e che vide la luce nell'autunno del 1962, e poi sparito chissà dove. La parte fiction se lo immagina vittima di una perdita di memoria, da cui riemergono elementi che risalgono al re del crimine, in seguito a un incidente, vagare alla ricerca della propria identità, fra edifici abbandonati divenuti rifugio di clochard; l'incontro con una ragazza munita di tablet che lo aiuta nella ricerca di sé stesso e le cui sembianze gli ricordano quelle di Eva Kant; una visita nelle stanze della casa editrice del fumetto, l'Astorina, in Via Boccaccio a Milano, il tutto inframmezzato da interviste a personaggi più o meno noti che dicono la loro su Diabolik: e 'sti cazzi, verrebbe da dire. Le uniche cose davvero interessanti sono alcuni frammenti di filmati in Superotto delle due mitiche sorelle Giussani e il recupero dagli archivi della RAI di un'intervista alle due geniali autrici mai andata in onda per problemi tecnici e restaurata per l'occasione. Il tutto fatto passare per evento speciale (a prezzo altrettanto speciale e per soli tre giorni) al cinema, della durata di poco più di un'ora, e che avrebbe trovato la sua dimensione più appropriata in seconda serata sul piccolo schermo. Insomma, un'altra iniziativa balenga, fatta passare per cinema, che lascia il tempo che trova. 

lunedì 11 marzo 2019

La solitudine del ramarro in vetta alla classifica


E' dalla stagione 2011/2012, l'ultima in cui sono stato titolare di un abbonamento alla Beneamata, con relativi avanti-e-indré da 760 km a botta ogni due settimane tra la Furlanìa e San Siro a Milano, che non mi occupo, se non sporadicamente, di cose calcistiche su questo blog: l'ultima volta è stata una vignetta in occasione dello storico incontro, proprio al Meazza il 12 dicembre di due anni fa, tra Inter e Pordenone, due squadre che hanno in comune il fatto di non essere "mai state in B" e di spartirsi il mio cuore di tifoso. Già: i ramarri, saliti agli onori delle cronache nazionali proprio in quell'occasione quando, per i quarti di finale di Coppa Italia, costrinsero al pareggio nei tempi regolamentari la blasonata squadra nerazzurra e furono eliminati soltanto ai rigori: decisivo fu quello calciato da Yuto Nagatomo (un giocatore giapponese tecnicamente non eccelso però intelligente ed esemplare dal punto di vista dell'impegno e della serietà in campo e fuori: uno così di Icardi ne vale dieci, tanto per chiarire come la penso sulla pietosa e imbarazzante telenovela in atto in casa Inter). E' dall'anno successivo al Triplete che la Beneamata non mi dà soddisfazioni che non siano occasionali; d'altro canto, saltando gli impegni meneghini allo stadio, mi era venuto meno anche il contatto col campo: per chi ha frequentato le gradinate fin dalla più tenera età, a maggior ragione nella Scala del calcio, e praticato il gioco del balùn per quanto a livelli infimi e puramente amatoriali ma con passione, l'atmosfera di una partita dal vivo, con l'odore del prato, l'imprevedibilità degli agenti atmosferici; le voci, la visuale completamente diversa da quella televisiva, sono tutti elementi alla fine imprescindibili. E così ecco il Pordenone. Ma perché? Perché proprio lui? E non l'Udinese, che è la squadra del Friûl per definizione? E quindi della Piciule Patrie di cui è originaria la mia famiglia paterna, e dove mi sono trasferito ormai da 18 anni? Il tifo segue percorsi misteriosi, ma anche una sua logica e alcune costanti. Da piccolo, in età d'asilo, quando risalgono i miei primi ricordi, anche per condizionamenti famigliari, tra le due squadre della città in cui sono nato e vivevo, simpatizzavo per il Milan, ma già allora non "antipatizzavo" per l'Inter, anzi: mi incuriosiva, perché per i nerazzurri tifavano sia i miei parenti più giovani, sia le persone più "strane" (e simpatiche, francamente) che gravitavano attorno al mio ambiente, in particolare persone legate a quello artistico e dello spettacolo. Allo stesso modo, in Argentina, sono sempre stato del Boca e avverso al River. Chi non reggevo era la Juventus: il primo episodio di cui ho memoria fu il 9-1 che la squadra degli Agnelli inflisse maramaldescamente il 10 giugno del 1961 a un'Inter che schierava per protesta una rappresentativa giovanile in un "recupero": il gol della bandiera lo segnò Sandro Mazzola, figlio di Valentino (il Capitano del Grande Torino). Un predestinato, che iniziò e finì una carriera formidabile con la Beneamata. Il secondo che fu decisivo a spostarmi sul lato baùscia, fu lo spareggio per lo scudetto del 1964 che si giocò contro il Bologna a Roma, sempre in giugno il giorno 7, con l'Inter fresca vincitrice della Coppa dei Campioni 10 giorni prima a Vienna col Real Madrid. In entrambi i casi si trattava di una situazione poco chiara, che nella mia dimensione infantile già percepivo come sopruso, una prepotenza, e che aveva a che fare con la correttezza sportiva. Diventai definitivamente interista allora. Non da vincente, troppo facile: così fan tutti, a cominciare dagli juventini; ma da perdente. Una vita di sofferenze ma anche di gioie inenarrabili: alti e bassi, come si presentano nella vita di tutti i giorni, ma sempre certi di fare la cosa giusta e, soprattutto, di trovare conforto nel tuo compagno di fede, sicuro di stabilire con lui una sintonia impossibile da trovare con altri. Perché l'interismo è una condizione mentale: un modo di vedere il calcio ma non solo. Lo dico per spiegare il mio avvicinamento al Pordenone, e non ad altri. E c'entra solo fino a un certo punto l'origine pordenonese di un lato della mia famiglia paterna. Innanzitutto i colori sociali: il nero e i verde che ripropongono pari pari quelli del glorioso AC Venezia 1907, che era la squadra (città dov'è nata mia nonna paterna e in cui a lungo ha vissuto mio padre) per cui sarei stato perfino in grado di tradire l'Inter, e una volta lo feci, nel 1967, il 16 di aprile, quando la Beneamata uscì dal Sant'Elena con un 3-2 indecoroso perpetrando un furto quasi in stile sabaudo. Con disappunto avevo visto la fusione della gloriosa società con la Mestrina, che portò all'aggiunta dell'arancione alle sue maglie. Bon: il Pordenone, squadra di serie inferiori, veleggiante tra le D e la C, e decisivo è stato assistere dal vivo, al Franchi di Firenze, all'autentico furto perpetrato a favore del Parma nella semifinale dei playoff di Lega Pro del 13 giugno del 2017, e che rappresenta una città con Venezia ha un legame speciale, così come Sacile, e che la rende un'enclave di lingua veneta in terra friulana, ne ha conservato il colori. Che avranno pure una ragion d'essere, nelle scelte del tifoso: non sarà mica un caso che abbia un'avversione per le divise bianconere, che peraltro evocano già da sé, al di là di una discutibile estetica optical,  una visione semplicistica e binaria della realtà. Avrei potuto dirottare su Udine, dalle parti della Dacia Arena, le mie elucubrazioni e attenzioni calcistiche: una squadra in Serie A da decenni, appartenente comunque all'élite del calcio. E invece no; non solo le sue maglie a righe bianconere mi risultano repulsive, ma anche la sua tifoseria riesce a essere mediamente sullo stampo di quella juventina. Piuttosto la Triestina, squadra di una città cosmopolita improvvidamente eletta a capoluogo di una Regione, il Friuli-Venezia Giulia, inesistente. Che con Pordenone ha più affinità che motivi di contrasto. A cominciare dalla parlata, che è una variazione del veneziano. Checché ne pensi un certo numero, fortunatamente minoritario, di infiltrati udinisti nelle file della tifoseria neroverde. Ieri sera allo Stadio Nereo Rocco del capoluogo giuliano, scontro al vertice e una dimostrazione: applausi e considerazione sincera da parte della tifoseria locale che di calcio ne capisce, davanti a una squadra che, sconfiggendo i paroni de casa, secondi in classifica con dieci punti di distacco, protagonisti comunque di una prestazione orgogliosa, si avvia a salire per la prima volta nella sua storia in Serie B. Il mio augurio è che, da ora in poi, a seguire i Ramarri e le loro eccellenze giovanili, ci siano una città e una provincia che ne abbiano captato il messaggio: si può fare, ed essere presi sul serio. 

domenica 10 marzo 2019

Il colpevole - The Guilty

"Il colpevole - The Guilty" di Gustav Möller. Con Jakob Cedergren, Jessica Dinnage, Omar Shargawi, Johan Olsen, Jakob Lohman. Danimarca 2018 ★★★★
Il tema non è nuovo (la colpa, l'espiazione e il possibile riscatto, come da titolo, che tra l'altro è da intendersi al plurale e non al singolare), e nemmeno il modo di raccontarlo, vedi di recente l'ottimo Locke di Steven Knight, più in là nel tempo La vita corre sul filo di Sidney Pollack: l'azione si svolge in tempo reale, al telefono di un centralino della polizia danese dove l'agente Asger Holm, protagonista di un episodio oscuro (l'omicidio di un ragazzo di 19 anni fatto passare per legittima difesa, come si apprenderà verso la fine del film) è stato relegato in attesa dell'udienza in tribunale che l'indomani mattina deciderà sul suo caso; ciò non toglie che questa pellicola, essenziale quanto intensa, che dimostra il buono stato di salute del noir scandinavo (che del malessere esistenziale fa il suo nucleo), sia una delle cose migliori che abbia avuto modo di vedere in questo periodo di prolungata fiacca per quanto riguarda le proposte sul grande schermo. Tutto ha inizio quando una sera, verso la fine del suo turno di lavoro, Asger riceve la confusa telefonata di una donna terrorizzata che, farfugliando, riesce a far capire di essere stata rapita e di trovarsi su un furgone. La linea cade più volte, l'agente è soltanto in grado di localizzare la cella da cui avviene la chiamata, e cerca di gestire il caso contattando stazione di polizia competente per territorio, sia la donna, sia la figlia di sei anni di questa che l'attende disperata a casa, sia il collega con cui faceva coppia prima dell'incidente che ha causato il suo accantonamento dall'impiego operativo a cui chiede di scoprire qualsiasi indizio utile per capire chi sia la donna, quali le sue relazioni e dove potrebbe essere diretto chi l'ha sequestrata. Ovviamente non vado oltre con la trama, posso però assicurare che per 85', tanti sono bastati al giovane regista svedese Gustav Möller per raccontare la vicenda, si rimane aggrappati alla poltrona in attesa dell'epilogo, e non mancano i colpi di scena. Alla fine si capisce che colpevoli sono tutti i personaggi, in qualche modo, e meno di tutti, alla fine, coloro che apparentemente sono responsabili delle azioni peggiori. Difficile credere che un film unicamente parlato possa essere avvincente quanto un film d'azione, ma Möller c'è riuscito, e la pellicola, diretta con mano sicura e senza sbavature deve molto, se non tutto, alla ottima prova del protagonista, Jacob Cedergren, che riesce a trasmettere una vasta gamma di sentimenti: dal disagio in cui si trova per la distanza a cui lo tengono i colleghi che non si fidano di lui, all'impegno che mette nel cercare di risolvere l'ingarbugliata vicenda che si trova fra le mani, intravedendo anche una possibilità di riscatto dalla vicenda in cui era rimasto coinvolto e che lo tormenta. Vivamente  consigliato. 

giovedì 7 marzo 2019

Congiuntivite / La Buona Scuola


Da Repubblica, organo ufficiale del Partito Pro-TAV e di quello sedicente Democratico in particolare di lunedì scorso: La prima mossa di Nicola Zingaretti, da neo segretario del Partito democratico, è quella di andare a Torino "per dare una mano a Sergio Chiamparino sulla Tav". Del resto aveva già annunciato ieri che tra i primi impegni in agenda ci sarebbe stata la visita ai cantieri dell'Alta velocità Torino-Lione, uno tra i principali temi di scontro all'interno del governo gialloverde. E ha da tempo fatto capire quale sia il suo orientamento: la Tav si deve fare. Dove il madamino di rinforzo giunto da Roma, appena uscito vittorioso con un plebiscitario 66% dalle primarie, che nonostante il trionfalismo dei mezzi di informazione nostrani hanno pure hanno registrato il record negativo di votanti da quando questo metodo demenziale di scegliersi un segretario è stato introdotto, tanto per scopiazzare (male) i caucus americani (che sono tutt'altra cosa), è incappato in un primo incidente grammaticale che ha fatto scompisciare dal ridere, ma anche scuotere la testa rassegnata, quella parte, minoritaria in questo Paese, che è ancora grado di usare correttamente il congiuntivo e mettersi così all'altezza di quell'altro massacratore recidivo della lingua italiana che è il vicepresidente del Consiglio Di Maio, confermando così la scarsa confidenza con l'idioma natìo, che già aveva dimostrato in un'altra recente occasione. E questo benché l'uomo sia uno "studiato", come direbbe lui. Questo il PD Nuovo del Nuovo Segretario: non che mi aspettassi qualcosa di diverso dal Governatore del Lazio, da sempre un ma-anchista indecisionista di scuola veltroniana, che ciancia di lavoro come urgenza nazionale chiedendo di sbloccare i cantieri in Val Susa per far passare il TAV (che è acronimo maschile e non femminile, cosa che i pennivendoli di regime per lo più ignorano), con decine di impianti di ogni genere che chiudono o trasferiscono le produzioni all'estero mentre quelli notoriamente nocivi che andrebbero fermati una volta per tutte, come l'ILVA di Taranto e decine di inceneritori inquinanti restano tranquillamente in funzione continuando a far danni; una sua presenza sarebbe stata per esempio significativa nella Piana di Gioia Tauro, dove da decenni sgobbano come schiavi migliaia di lavoratori immigrati "neri e al nero" e dove stanno attualmente sgomberando la vergognosa baraccopoli-ghetto di San Ferdinando (e al suo posto ne sta immediatamente sorgendo un'altra), o nel Ragusano, o in Puglia, ma pure nella progredita e progressista Emilia ex rossa o nelle campagne lombarde; però fra i tre candidati mi sembrava l'unico accettabile, considerando il livello degli altri due concorrenti, sempre ad avere lo stomaco di recarsi ai gazebi a votare. Cosa che mi ripugnerebbe, a meno di non recarmi, come ero tentato di fare già nel 2012 alle "Primarie di coalizione" e sostenere Renzi, con la certezza che fosse la garanzia per una definitiva deflagrazione di questo partito inutile e nocivo.

domenica 3 marzo 2019

sabato 2 marzo 2019

Domani è un altro giorno

"Domani è un altro giorno" di Simone Spada. Con Marco Giallini, Valerio Mastandrea, Anna Ferzetti, Andrea Arcangeli, Barbara Ronchi, Jessica Cressy, Stefano Fregni e altri. Italia 2019 S.V.
Il film in sé sarebbe anche buono, se nascesse da un'idea personale del regista (al suo secondo lungometraggio dopo l'incoraggiante esordio di Hotel Gagarin), o degli sceneggiatori: e invece è il remake assolutamente pedissequo di un bellissimo, commovente film spagnolo-argentino uscito, con discreto successo, anche nella Terra dei Cachi: Truman - Un amico è per sempre. A cui rinvio per le mie considerazioni sulla vicenda che racconta. Che nella scheda tecnica vengano accreditati due sceneggiatori nostrani anziché i due catalani Cesc Gay e Tomás Algaray, lo ritengo disdicevole e ai limiti del plagio, perché non solo i dialoghi sono pressoché identici, ma perfino i nomi di tutti i personaggi: solo che vengono italianizzati; le uniche differenze sono il nome e la razza del cane dell'attore malato di cancro, un Bullmastif che si chiama Truman nell'originale e un Bovaro del Bernese di nome Pato nella copia, e che suo figlio studia a Barcellona anziché ad Amsterdam; perfino la storia si svolge nelle capitali dei rispettivi Paesi, ossia Madrid e Roma. Anche il titolo viene stravolto, come al solito in Italia, e invece di riferirsi al cane, attorno a cui ruota in fondo questa commedia malinconica ma profondamente umana, è una scusa per rimettere in pista un altro remake, peraltro urlato sguaiatamente, quello del brano reso celebre da Ornella Vanoni il cui testo era stato scritto da Giorgio Calabrese e che era a sua volta la versione italiana di un pezzo del cantante USA Tammy Wynette. Le due note positive sono le interpretazioni di due attori che apprezzo molto, Giallini e Mastandrea, i quali si vede che sono amici anche nella vita, e la misura con cui Simone Spada dirige il tutto e tratta la materia, senza cadere nel melodramma e nel patetico. Non si capisce dunque la necessità di rifare un film identico all'originale, peraltro uscito poco tempo fa, a meno che non lo si faccia per dare lavoro a due attori italiani, che però non risulta siano a corto di proposte. Poi uno legge che il film è prodotto e distribuito da Medusa, una creazione di Silvio Berlusconi, il re del farlocco, e si capisce tutto, perfino la presa per il culo che la casa di produzione associata si chiami Baires Film: il colmo.