"Empire of Light" di Sam Mendes. Con Olivia Colman, Michael Ward (II), Colin Firth, Toby Jones, Tania Moodie, Crystal Clarke, Tom Brooke, Hannah Onslow, Monica Dolan, Ron Cooke e altri. GB, USA 2022 ★★★★
Siccome non sono il critico di professione, nel senso che non mi pagano per farlo e che in questo spazio posso parlare di quel che ho visto come mi pare, a differenza dell'orientamento prevalente dei recensori più o meno prezzolati ho molto apprezzato questo ultimo film di Sam Mendes che, raccontando di cinema, e di un cinema in particolare, in senso fisico, l'Empire, situato in un imponente edificio risalente agli anni Trenta, che tenta invano di far rivivere i fasti del passato, va controcorrente pure lui, non mettendo al centro se stesso e la sua vocazione registica come ha invece preferito fare nel suo parossismo solipsistico il suo collega americano Steven Spielberg con The Fabelmans, trattando con molto pudore e discrezione i riferimenti autobiografici che pure sono presenti. Siamo a Margate, nel Kent, sulla costa Sud Occidentale dell'Inghilterra, tra il 1980 e il 1981, all'inizio dell'era thatcheriana che avrebbe cambiato la faccia del Paese, va da sé in peggio, svendendolo e demolendo le ultime tracce di una convivenza fondata sulla solidarietà: il maestoso e lussuoso cinema Empire è già stato costretto a chiudere due sale su quattro e il suo direttore, Mr. Ellis (Colin Firth, i cui camei sempre preziosi), tira a campare cercando di confezionare qualche evento che possa rilanciarlo, per esempio organizzando delle "prime" di film di richiamo alla presenza dei politici e della crème locale; ma a tenere in piedi la baracca è Hilary, una donna di mezza età cui dà corpo una Olivia Colman con un'interpretazione irreprensibile e di rara intensità, che si è appena ripresa da un pesante esaurimento nervoso e sempre sull'orlo di una ricaduta, la quale dirige il personale con attenzione e competenza. Tira aria nuova quando a fare parte dello staff arriva Stephen (Michael Ward, in un ruolo meno arduo ma non banale), un giovane di colore la cui famiglia è originaria di Trinidad, e che vive con la madre infermiera: vorrebbe studiare architettura e andarsene dalla cittadina di provincia, ma il razzismo che prende sempre più piede proprio in quell'epoca non è d'aiuto, e intanto si guadagna da vivere lavorando all'Empire. Il film si impernia sulla relazione che nasce tra lui e Hilary, che al di là dell'attrazione fisica si fonda su un affetto e una comprensione profonda, a differenza dei quella umiliante che la donna aveva in corso, clandestinamente, col suo principale, basata su ipocrisia, sesso e sudditanza psicologica. Ma non è solo la storia di un amore che il film, girato magnificamente, con una fotografia potente, racconta, ma anche e soprattutto un'epoca e un'atmosfera; il rapporto tra i componenti di questa sorta di famiglia cinematografica capitata lì da percorsi diversi, che non vengono esplicitati ma si possono intuire, personaggi ben caratterizzati e tra i quali spicca il proiezionista, interpretato dal par suo da Toby Jones, a cui bastano poche battute per pennellare un tipo indimenticabile; certo, c'è anche l'elogio della "settima arte", l'amore ddi Sam Mendes, visto metaforicamente come un rifugio, o una via di fuga da un mondo reale sempre più nefando e imbarbarito: disumanizzato. Gran bel film, elegante, sensibile, intelligente e per niente scontato.