lunedì 30 luglio 2018

Ocean's 8

"Ocean's 8" di Gary Ross. Con Sandra Bullock, Cate Blanchett, Anne Hathaway, Mindy Kaling, Sarah Paulson, Awkwafina, Rihanna, Helena Bonham Carter, Dakota Fanning, Richard Armitage, James Corden e altri. USA 2018 ★★★+
Versione tutta al femminile derivata dalla collaudata serie Ocean's che aveva come protagonista assoluto George Clooney nei panni di Danny Ocean, a capo di una banda di truffatori e ladri che prendeva di mira i casinò e, a quel che risulta, scomparso (ma qualche dubbio rimane), al suo posto vediamo in azione la sorella Debbie (Sandra Bullock, che nelle commedie brillanti dà il suo meglio:che non è molto ma ce lo facciamo bastare) la quale, emulando il fratello, dopo 5 anni trascorsi in carcere riesce a convincere la commissione di sorveglianza a rilasciarla sulla parola dietro all'impegno di non frequentare le vecchie conoscenze e di condurre una vita irreprensibile. Uscita con 45 dollari in tasca e fiondatasi in taxi a Manhattan, nel giro di una mattinata si rifà il guardaroba e trova alloggio in un albergo di lusso e naturalmente ha già in mente un piano, elaborato durante il lungo periodo di detenzione, il clamoroso furto di una collana di diamanti di Cartier del valore di 150 milioni di dollari da sfilare dal collo della star Daphne Kruger (Anne Hathaway: di un'ampia spanna sopra le altre) durante il galà annuale del Metropolitan Museum. Per attuarlo contatta e convince l'amica e sodale Lou (Cate Blanchett), che al momento gestisce un locale in cui spaccia vodka annacquata, e con lei mette assieme una banda tutta al femminile che comprende un'esperta in diamanti, una hacker, una borseggiatrice, una ricettatrice, una stilista. Ovviamente la prima metà del film ha per oggetto i meticolosi preparativi del furto del secolo e l'altra la sua realizzazione: in realtà il "colpo" risulterà doppio, perché Debbie non si accontenterà della collana e alleggerirà, già che c'è, oltre a Cartier, anche il Met, al contempo vendicandosi dell'ex fidanzato, un gallerista di fama che l'aveva tradita consegnandola, di fatto, alla polizia. Ben fatto, divertente, disimpegnato, rilassante, frizzante: l'ideale per una serata al fresco di una sala cinematografica ben climatizzata: ogni tanto ci vuole qualcosa che non dia pensieri e che sia puro intrattenimento. Questo film lo garantisce e tanto basta. 

sabato 28 luglio 2018

The Disaster Artist

"The Disaster Artist" di James Franco. Con James Franco, Dave Franco, Seth Rogen, Alison Brie, Ari Graynor, Jackie Weaver, Josh Hutcherson, Zac Efron e altri. USA 2017 ★★★★½
Un film esilarante, una chicca imperdibile per chi, come me, lo aveva mancato quando era apparso sui nostri schermi, alla fine dello scorso inverno, che racconta l'antefatto, la realizzazione a l'accoglienza di quello che è stato giudicato come il film più brutto mai girato dalle parti di Hollywood, che è anche la storia di una singolare amicizia fra i due personaggi principali, interpretati dai due fratelli Franco: a James si deve anche la geniale idea di girare e produrre The Disaster Artist, ulteriore dimostrazione che la realtà supera spesso l'immaginazione. Siamo A San Francisco negli ultimi anni del secolo scorso quando Greg, un giovane aspirante attore che non riesce ancora a "lasciarsi andare", durante una prova a teatro rimane fulminato dall'esibizione muscolare e straordinariamente spontanea ed espressiva di un collega di corso, uno strano ed enigmatico personaggio di nome Tommy Wiseau, che si esprime con un forte accento dell'Europa Orientale pur dicendosi originario di New Orleans, e ne diventa amico, l'unico che questi sembra avere mai avuto, e sodale. I due stringono un patto: sostenersi a vicenda allo scopo di non abbandonare mai il loro sogno di diventare delle star. A questo scopo Greg, che già era andato a vivere con Tommy, si lascia convincere da quest'ultimo a trasferirsi a Los Angeles, sulle tracce e sull'esempio di James Dean, e ad affidarsi a un'agenzia, mentre Tommy, che dispone anche là di un appartamento oltre che di fondi che sembrano inesauribili e di provenienza misteriosa quanto il loro proprietario, si butta a scrivere la sceneggiatura del film della sua vita: The Room, un dramma sentimentale fortemente autobiografico, che decide di produrre, dirigere e interpretare pur non avendone, come dimostrerà ampiamente durante le riprese durate molto più del previsto, la benché minima competenza. La parte centrale del racconto si concentra sulle peripezie che hanno caratterizzato la realizzazione del progetto, in particolare sulle sconcertanti e paradossali vicende avvenute sul set, tratte dal libro pubblicato nel 2013 in cui Greg Sestero (il vero amico di Tommy Wiseau) racconta la sua esperienza durante le riprese, e poi sulla sua accoglienza alla sfarzosa presentazione ufficiale del film: un trionfo all'incontrario, con il pubblico in sala, a cominciare da interpreti, tecnici e assistenti, prima sconcertato e poi a scompisciarsi dalle risate (salvo l'autore) per l'effetto irresistibilmente comico del montaggio, l'inconsistenza della trama e l'improbabilità della recitazione. Sul finire del film compaiono spezzoni del film oggetto del film, ossia The Room e i suoi personaggi originali, e non si può non apprezzare il lavoro fatto da James Franco e dai suoi compari, che ha anche il merito di raccontare come pochi altri il "dietro le quinte" del sogno hollywoodiano e l'Ammeriga per quello che è. Da notare che, a dispetto del colossale fiasco: 1800 dollari di incasso a fronte di un budget di oltre sei milioni, The Room sia diventato un cult movie anche fuori dagli USA diventando un best seller in home video. Insomma anche Tommy Wiseau ha avuto una forma di giustizia. 

giovedì 26 luglio 2018

Il ruggito del Leone

E con oggi sono 75. E non è finita qui...
Blues e Rock fanno bene alla salute e all'anima...

mercoledì 25 luglio 2018

Dove non ho mai abitato

"Dove non ho mai abitato" di Paolo Franchi. Con Emmanuelle Devos, Fabrizio Gifuni, Giulio Brogi, Hippolyte Girardot, Isabella Briganti, Giulia Michelini, Fausto Cabra e altri. Italia 2017 ★★★★
Quarto lavoro di Paolo Franchi, autore che centellina le sue regie, che mi non mi aveva ispirato quand'era uscito nelle sale, nell'autunno dell'anno scorso, paventando una caduta nel più scontato mélo di ambientazione borghese, sono contento di aver cambiato idea e rimediato con la  riproposizione estiva, perché se è vero che la storia si dipana nel milieu dell'architettura di alto livello (vedi le case, sia quelle d'abitazione dei personaggi principali, sia la villa in ristrutturazione fuori Torino a cui lavorano i due protagonisti) e la vicenda quella di  un amore che nasce per attrazione e affinità elettive ma che non riesce a realizzarsi del tutto, il film innesca riflessioni sulle scelte di vita che sono universali e fa leva su sentimenti e situazioni che travalicano l'appartenenza sociale. Massimo (Gifuni) e Francesca (Devos) sono due architetti cinquantenni, il primo allievo prediletto ed erede professionale nonché socio di studio di Manfredi (Brogi: un monumento), professionista di fama internazionale 84 enne, la seconda è la figlia del Maestro, talentuosa anche lei ma che ha scelto di abbandonare la professione venti anni prima e trasferirsi a Parigi per sposare un ricco finanziere francese che il padre disprezza, ma soprattutto non le perdona di aver sprecato, con una scelta così pavida, a suo avviso, le sue doti. I due si conoscono quando Francesca torna per un certo periodo a Torino ad assistere il genitore che si è fratturato il femore e questi si industria perché lo sostituisca e affianchi Massimo nei lavori di completamento della villa di cui sopra, con la speranza che la figlia riscopra la sua vera vocazione e intuendone la compatibilità col suo erede professionale: entrambi introversi, sensibili, a cui manca qualcosa. E infatti la scintilla scocca, ma in maniera non scontata e attraverso un percorso graduale che il regista illustra facendo emergere man mano dai due interpreti, bravissimi entrambi (Gifuni senz'altro fra i più sensibili e versatili che abbiamo in Italia), tutte le sfaccettature più nascoste dei loro caratteri e le loro insicurezze, facendo trasparire come il diverso rapporto con i genitori abbia determinato le rispettive scelte. E' anche e soprattutto un film sulle occasioni mancate e l'amara coscienza che se ne ha una volta raggiunta la mezza età: quella di seguire fino in fondo le proprie passioni per Francesca, che ha preferito rinunciarvi anche per le eccessive pressioni paterne; quella di instaurare un rapporto d'amore vero e di formare una famiglia per Massimo che, parafrasando il titolo, costruisce case che non abita, tant'è vero che nel suo appartamento stazionano ancora gli scatoloni dall'ultimo trasloco avvenuto due anni prima e la relazione con la donna che frequenta rimane in una situazione congelata e sospesa senza evolversi. Fotografia eccellente, misura, grazia, tempi giusti, interpretazioni tutte di alto livello, una sceneggiatura solida: un ottimo film, altamente consigliato alle signore, ma non solo; e che ricorda per qualche verso non secondario Antonioni. 

domenica 22 luglio 2018

Una luna chiamata Europa

"Una luna chiamata Europa" (Jupiter holdja) di Kornél Mundruczó. Con Merab Ninidze, Zsombor Jéger, György Cserhalmi, Mónika Balsai, Andras Balint e altri. Ungheria, Germania 2017 ★★★★
Credo che il motivo per cui questo film sorprendente e magnetico sia stato accolto con scetticismo quando non con aperta ostlità da gran parte della critica istituzionale sia il fatto che, partendo da un episodio verosimile, ossia l'uccisione di un profugo siriano nel tentativo di varcare la frontiera tra Serbia e Ungheria, il Paese del regista, parta da questo non per fare l'ennesimo pippone politicamente corretto, o uno spottone per l'accoglienza sempre e comunque e una condanna aprioristica del governo Orban, ma per indurre a una riflessione più vasta sul malessere profondo della società attuale: non solo quella ungherese oppure occidentale in generale, ma quella moderna e globalizzata, egoista, atomizzata, incapace non solo di coltivare una qualsiasi fede, ma di vedere oltre al contingente e all'interessa immediato e d  fissare lo sguardo "più in alto", migranti compresi. Lo fa attraverso una fiaba moderna ambientata in un luogo reale (un campo profughi, la città di Budapest) ma comunque distopico e inquietante, li meccanismi del noir e del film d'azione pur partendo da un evento soprannaturale: il giovane Aryan, fuggito assieme al padre carpentiere da Homs, colpito a morte da un vecchio e sadico poliziotto a caccia di immigrati clandestini, per motivi inesplicabili sopravvive e scopre di avere la capacità di levitare. Se ne accorge Gabor Stern, un medico caduto in disgrazia perché, da ubriaco, ha somministrato una dose letale di anestetico a un giovane atleta, che lavora in un campo profughi e vive di traffici e favori a pagamento con gli ospiti del campo, il quale vede l'opportunità di sfruttare la situazione e prende sotto la sua protezione Aryan, accogliendolo a casa sua e diventando l'impresario che gestisce le sue esibizioni, per accumulare i quattrini sufficienti per comprare dalla famiglia del paziente deceduto il ritiro della denuncia, mentre al ragazzo promette di fargli ritrovare il genitore. In questo si avvale dell'aiuto dell'amante, Vera, medico del pronto soccorso, che però verrà convinta a tradirlo dal poliziotto assassino, che a sua volta ha scoperto il miracolo della sopravvivenza dei ragazzo e dei suoi nuovi poter,i e dai servizi segreti, che lo ricercano assieme al padre perché convinti che siano coinvolti in un attentato terroristico alla metropolitana della città. L'atmosfera degradata ma non troppo, senza tempo ma comunque attuale, gli ambienti (l'appartamento desolante di Stern, le strade, le tende dei "campi", l'ospedale, il grande albergo, la metropolitana) quanto mai realistici, una scena d'inseguimento mozzafiato a bordo macchina per le strade di Pest alla caccia di Stern e Aryan, sono efficaci e coinvolgenti, seminando un che di angoscioso e disturbante, perfettamente in linea con le riflessioni che il regista intende sollecitare e, a mio parere, ci riesce, con un film che mi ha pienamente soddisfatto.  

venerdì 20 luglio 2018

Trieste, Yugoslavia

"Trieste, Yugoslavia" di Alessio Bozzer. Italia 2017 ★★★★
Altra chicca degna di nota nell'annuale traversata del deserto costituita dalla stagione cinematografica estiva, questa volta un vero e proprio documenario, nello stile di quelli che trasmetteva la RAI quando era ancora un'azienda seria e che si trovano qualche volta nei canali tematici o nelle teche, prodotto da VideoEst di Trieste in coproduzione con Missart (Zagabria) e Al Jazeera Balkans (Sarajevo), che racconta attraverso interviste e filmati d'epoca gli anni, a partire dalla metà degli anni Sessanta, "quando Ponterosso era il più grande centro commerciale dei Balcan)". La piazza, nel cuore del Borgo Teresiano, ossia nel pieno centro della città, era diventata la Mecca per i cittadini della ex-Jugoslavia che ogni fine settimana, grazie a quella che era la frontiera più aperta tra Est e Ovest, e in particolare dopo il Trattato di Osimo del 1976, vi arrivavano a migliaia con ogni mezzo: treni, corriere che invadevano le Rive, quelli da più vicino a bordo delle mitiche Zastava. Il mercato della frutta e verdura che vi si teneva abitualmente veniva sfrattato in un angolo della piazza e al suo posto venivano montate decine di bancarelle che vendevano soprattutto vestiti e, curiosamente, bambole; poi, negli anni Settanta e Ottanta, scoppiò il fenomeno dei blue jeans, chiamati cowbojka dai nostri vicini orientali presso i quali erano assurti a status symbol, e tutta la zona circostante si riempì di negozi, empori, magazzini di cui oggi rimane qualche malinconica traccia in qualche esercizio a gestione cinese tra la stazione ferroviaria e il Canal Grande. Un affare colossale per la città e i suoi commercanti (anche se molti non vedevano di buon occhio l'arrivo de tuti 'sti s-ciàvi), con almeno 8 milioni di paia di jeans venduti all'anno, difficile stimare quanti in nero, e centinaia di migliaia di cittadini jugoslavi che arrivavano e compravano di tutto, una manna finita all'improvviso con l'implosione della RSFJ e le successive, dolorose guerre balcaniche. Contribuiscono al documentario le testimonianzie di artisti come Željko Senečić, attori Rade Šerbedžija, scrittori come Dragan Velikić e Slavenka Draculić, giornalisti come Denis Kuljiš, Claudio Ernè, e Pierluigi Sabatti, antropologi e storici come Ivo Banac, Saša Mišić, Bojan Mitrović, musicisti come Goran Bregović, ma anche molti negozianti locali e semplici compratori del periodo che raccontano la loro esperienza, le peripezie dei loro viaggi in pullman, treno e macchina per raggiungere Trieste, nonché i doganieri che illustrano i trucchi utilizzati per contrabbandare la merce e gli episodi più curiosi. Rispetto a oggi, lasciatemelo dire, bei tempi, e non è solo la nostalgia che me lo fa dire e dei ricordi che per me sono ancora molto vivi. Come lo era la città, più di ora, e come lo era la Jugoslavia unita, con tutti i suoi difetti. Avercene...

mercoledì 18 luglio 2018

Chuck Norris VS Communism

"Chuck Norris vs Communism" di Ilinca Calugareanu. Con Irina Nistor, Ana Maria Moldovan, Toader Zamfir, Dan Chiorean e altri. GB 2015 ★★★★
Anche quest'anno la stagione estiva, pressoché morta per quanto riguarda le uscite in sala, risulta invece fruttuosa per il doveroso recupero o riproposizione di alcune chicche cinematografiche, tra cui è senz'altro da annoverare questa della giovane regista romena Ilinca Calugareanu, a metà tra il documentario e il noir, che racconta come negli ultimi anni della dittatura di Nicolae Ceausescu, quando il controllo su ogni aspetto della vita dei suoi "sudditi" era diventato particolarmente ossessivo (il Conducator presentiva la propria fine e, dopo aver demolito chiese, raso al suolo decine di villaggi, letteralmente "spostato" interi palazzi nonché ridotto i canali televisivi da due a uno, che trasmetteva per due sole ore al giorno oltre a lasciare l'intero Paese praticamente al buio dopo il tramonto nell'intento di risparmiare sulla bolletta energetica, dopo essersi inimicato perfino Mosca), e in particolare su qualsiasi contaminazione giungesse dall'estero per preservare la purezza ideologica dell'Uomo Nuovo, l'unico "assaggio" di mondo esterno che avessero i cittadini romeni fosse costituito  dal cinema per mezzo delle videocassete che venivano contrabbandate dall'Occidente attraverso la frontiera ungherese, una delle più "porose", specie in direzione Austria, dall'ingegnoso e intraprendente Toader Zamfir (che appare come sé stesso nel finale del film) che le faceva doppiare da Irina Nistor (anche lei appare nel finale) la quale, per colmo, ufficialmente lavorava alla Commissione Censura del regime, come traduttrice. La quale interpretava tutte le voci, fossero maschili o femminili, e aveva il vezzo di non pronunciare espressioni triviali sostituendole locuzioni che finivano per avere un effetto spiazzante e spesso comico, ma il cui tono era conosciuto e benvoluto in tutto il Paese: le poche volte in cui fu sostituita da un altro, il pubblico, in continua espansione, non ne voleva sapere. Già, perché gli affari del signor Zamfir andavano a gonfie vele: lui procedeva all'importazione, traduzione e in parte alla duplicazione delle videocassette, altri le smistavano, infine finivano nelle mani di chi provvedeva a organizzare le proiezioni clandestine nei propri salotti ai condomini degli orridi falansteri in stile staliniano che hanno sfregiato il panorama umiliando la pregevole architettura locale dietro modico compenso: così ognuno ci guadagnava qualcosa e in più poteva farsi un'idea, per quanto distorta dalla lente hollywoodiana, di cosa succedesse nel mondo capitalista. Come accennato, il film consta del racconto di come avvenissero traffico e proiezioni fino alla loro scoperta da parte della famigerata Securitate (la polizia segreta, che chiudeva un occhio e non riferiva nulla al Grande Capo perché i suoi stessi funzionari appartenevano alla rete di Zamfir o comunque erano fruitori della sua attività) e delle testimonianze degli spettatori di allora, i quali rievocano l'incanto e le impressioni che ricevevano da quelle immagini spesso sfocate e mal riprodotte, e l'atmosfera di quelle serate che per alcuni, già allora adulti, avevano un significato di resistenza e di sfida, e per chi allora era bambino o ragazzo una sorta di educazione sentimentale. Interessante, simpatico, intelligente, autentico. Una storia vera e ben narrata: qualcosa più di un film o, meglio, qualcosa di diverso. 

domenica 15 luglio 2018

Il sacrificio del cervo sacro

"Il sacrificio del cervo sacro" (The Killing of a Sacret Deer) di Yorgos Lanthimos. Con Colin Farrell, Nicole Kidman, Barry Keoghan, Raffey Kassidy, Sunny Suljić, Bill Camp, Alicia Silverstone e altri. GB, USA 2017 ★★★★-
Se The Lobster, il precedente film di Yorgos Lanthimos, l'avevo definito spiazzante, questo, stilisticamente e tecnicamente altrettanto impeccabile, vi aggiunge una serie di elementi che lo rendono decisamente disturbante e, a tratti, perfino repulsivo. Che il regista greco intenda provocare lo spettatore, coinvolgerlo e turbarlo lo si intuisce fin dalla prima scena, la ripresa di un intervento di angioplastica a cuore aperto, dopo un paio di minuti di buio assoluto accompagnati da un brano di Schubert, già angosciante di suo. Ma questo non è ancora niente rispetto a quel che segue, una sorta di horror psicologico che scava nell'inconfessabile senso di colpa del personaggio principale, nell'ereditarietà di essa e nell'ineluttabilità di una sorta di giustizia, che può avverarsi soltanto attraverso il sacrificio di un innocente: il riferimento è molto lontano nel tempo, e risale all'Ifigenia in Aulide di Euripide, non a caso conterraneo del regista, ma anche, e non solo per il tocco e le inquadrature, a Kubrick. La vicenda riguarda Stephen, uno stimato cardiochirurgo che, da qualche tempo, frequenta sempre più spesso Martin, un sedicenne rimasto orfano di padre, impegnandosi a rappresentare per lui la figura di riferimento maschile venutagli a mancare, fino al punto di presentargli la propria famiglia: ovviamente perfetta, a cominciare dalla moglie Anna, anche lei dottoressa (la Kidman: capace di rendersi estremamente sgradevole), la figlia adolescente Kim, che si innamorerà di Martin, e il piccolo Bob di otto anni, che abitano in una casa altrettanto perfetta, praticamente glaciale: perfino gli ambienti dell'ospedale in cui lavora Stephen esprimono maggior calore umano. Martin marcherà sempre più da vicino Stephen, che vorrebbe anche accoppiare alla madre, fino a quando il medico cerca di prendere le distanze da Martin dopo che quest'ultimo ha lanciato la sua profezia-maledizione (l'ammalarsi di tutta la famiglia uno dopo l'altro, a cominciare dal più giovane, in una degenerazione progressiva finché uno di loro verrà sacrificato, e ucciso, da Stephen) ma non può più farlo: il motivo è che è stato lui il responsabile della morte del padre del ragazzo, per averlo operato dopo aver bevuto. La discesa negli inferi è graduale e ha un qualcosa di ineluttabile, e l'effetto è senz'altro straniante e ambiguo, un misto tra repulsione e attrazione, tra sconcerto e curiosità di vedere come va a finire: chi non decide di abbandonare la sala prima delle fine rimane suo malgrado avvinghiato alla sedia, anche se si chiede, come ammetto di avere fatto, se sia il caso di dare corda ai deliri psicotici di un elemento certamente disturbato come Lanthimos, ma d'altro canto rimane affascinato dall'orrido. E bisogna ammettere, a denti stretti, che il regista riesce nel suo intento, che è proprio quello di stupire e sconcertare, e vi riesce anche attraverso la "felice", nel senso di appropriata, scelta degli interpreti, in particolare di alcuni personaggi, decisamente inquietanti per l'aspetto e le espressioni (permane il dubbio se "ci siano" o "ci facciano": in quest'ultimo caso si tratta di fenomeni): mi riferisco a Barry Keoghan e Sunny Suljić, rispettivamente nei panni di Martin, il ragazzo senza ciglia, e Bob, che sembra nato vecchio. Non me la sento di consigliarne la visione, perché non solo è un film sgradevole ma pure una notevola mazzata, però sinceramente non posso nemmeno dire che sia un film brutto o senza interesse, anzi: ome The Lobster, ha il suo perché. 

martedì 10 luglio 2018

Vacanza



Vacanza; dal latino vacantia, sostantivo del participio presente del verbo vacare (essere vuoto, libero). La vera beatitudine di due settimane stravaccato in riva al mare su un'isola della Dalmazia non sta tanto e solo nell'abbandonarsi all'ozio rigenerante e alla fjaka locale, quanto nello sgombrare le orecchie e la mente dall'incessante, molesto e inutile chiacchiericcio che avviene nella Penisola sull'altra sponda dell'Adriatico, senza un attimo di tregua; un grottesco e avvilente spettacolo di macachi esagitati ed esibizionisti che si scatena principalmente sui sòscial e viene doviziosamente riportato e amplificato dai media, che poi ormai si riducono a esserne il megafono: più che diffondere notizie, il loro compito è diventato quello di amplificare l’eco che se ne ha in rete e dar conto delle reazioni isteriche dei due schieramenti che invariabilmente si formano a proposito di qualsiasi argomento, dalle faccende più serie all’ultima stronzata, con l’inevitabile risultato di banalizzare ogni cosa e buttarla in vacca, salvo ricominciare il giorno dopo con un nuovo “caso”. L’ultimo su cui si è scatenata la bagarre è stato quello delle magliette rosse per gli immigranti, campagna lanciata da Don Ciotti e dall'immancabile Saviano (a proposito del prossimo leader del PD: nessuno che abbia pensato a lui? Così avremmo risolto anche il problema della sua scorta) e che è stato la scusa di mettersi in posa per decine di migliaia di selfie da pubblicare su Facebook, Twitter e Instagram per ribadire la propria idea di accoglienza “senza se e senza ma”, completamente aprioristica, marcando, attraverso un indumento con un dato colore,  che li identifichi e accomuni, la propria diversità e distanza dagli “altri”: i mostri, gli “odiatori”, tutti fassisti e rassisti per definizione. A chi ha all’incirca la mia età non dovrebbe essere difficile ricordare gli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta quando ci si metteva in divisa gli uni (io stesso, lo ammetto: ma almeno avevo la scusante di essere un adolescente) con gli orridi e ingombranti eschimo e gli altri con stivaletti e Ray-Ban d’ordinanza, i primi anche d’estate e i secondi pure in inverno e al buio e, ancor prima, rammento che erano stati i seguaci di Mussolini, Franco e Hitler a indossare, rispettivamente, camicie nere, azzurre e marroni, emulati, qualche decennio dopo e in verde, dai leghisti da cui proviene il tipo in felpa che attualmente è ministro dell’Interno. Tutti quanti con un tratto in comune: la convinzione di essere depositari, ovviamente esclusivi, del Verbo. Riguardo al caso specifico, faccio mie, parola per parola, le considerazioni di Rosanna Spadini pubblicate su CDC, però aggiungerei una riflessione sul perché i sòscial, e in particolare il falso dibattito che vi si svolge, poco più che un generalizzato starnazzare, abbiano trovato nella Terra dei Cachi un terreno particolarmente fertile in cui prosperare accentuandone gli aspetti perniciosi e trasformandoli da luogo di semplice cazzeggio e mezzo per tenersi in contatto tra persone che sono lontane, come suggerirebbe un loro utilizzo ragionevole, ad ambito ormai pressoché esclusivo in cui avviene il confronto (si fa per dire) politico tra gli italiani. E questo in modo particolare ad opera della parte centrosinistrata dello schieramento politico, in  questo in concorrenza diretta con Salvini e i suoi, ossia proprio coloro che avevano accusato i loro veri concorrenti diretti, e per questo detestati pentastellati, di essere non solo nati in rete ma di utilizzarla per fare politica. Il risultato è che perfino a livello locale, in una piccola città di 12 mila abitanti come quella dove vivo io e ci si conosce tutti e ci si incrocia più o meno tutti i giorni tra piazza e osteria, il confronto su qualsiasi questione riguardi l’amministrazione avviene attraverso gli stramaledetti sòscial. Che evidentemente, in un Paese di tifosi, abituati a dividersi per partito preso tra guelfi e ghibellini, rossi e neri, salvo correre in soccorso al vincitore al momento opportuno scurdandose ‘o passato e non prendere mai nulla davvero sul serio senza pagare dazio, e dove sparare affermazioni a vanvera e giudizi senza assumersene la responsabilità è uno sport nazionale, hanno trovato il loro habitat d’elezione.