"Una luna chiamata Europa" (Jupiter holdja) di Kornél Mundruczó. Con Merab Ninidze, Zsombor Jéger, György Cserhalmi, Mónika Balsai, Andras Balint e altri. Ungheria, Germania 2017 ★★★★
Credo che il motivo per cui questo film sorprendente e magnetico sia stato accolto con scetticismo quando non con aperta ostlità da gran parte della critica istituzionale sia il fatto che, partendo da un episodio verosimile, ossia l'uccisione di un profugo siriano nel tentativo di varcare la frontiera tra Serbia e Ungheria, il Paese del regista, parta da questo non per fare l'ennesimo pippone politicamente corretto, o uno spottone per l'accoglienza sempre e comunque e una condanna aprioristica del governo Orban, ma per indurre a una riflessione più vasta sul malessere profondo della società attuale: non solo quella ungherese oppure occidentale in generale, ma quella moderna e globalizzata, egoista, atomizzata, incapace non solo di coltivare una qualsiasi fede, ma di vedere oltre al contingente e all'interessa immediato e d fissare lo sguardo "più in alto", migranti compresi. Lo fa attraverso una fiaba moderna ambientata in un luogo reale (un campo profughi, la città di Budapest) ma comunque distopico e inquietante, li meccanismi del noir e del film d'azione pur partendo da un evento soprannaturale: il giovane Aryan, fuggito assieme al padre carpentiere da Homs, colpito a morte da un vecchio e sadico poliziotto a caccia di immigrati clandestini, per motivi inesplicabili sopravvive e scopre di avere la capacità di levitare. Se ne accorge Gabor Stern, un medico caduto in disgrazia perché, da ubriaco, ha somministrato una dose letale di anestetico a un giovane atleta, che lavora in un campo profughi e vive di traffici e favori a pagamento con gli ospiti del campo, il quale vede l'opportunità di sfruttare la situazione e prende sotto la sua protezione Aryan, accogliendolo a casa sua e diventando l'impresario che gestisce le sue esibizioni, per accumulare i quattrini sufficienti per comprare dalla famiglia del paziente deceduto il ritiro della denuncia, mentre al ragazzo promette di fargli ritrovare il genitore. In questo si avvale dell'aiuto dell'amante, Vera, medico del pronto soccorso, che però verrà convinta a tradirlo dal poliziotto assassino, che a sua volta ha scoperto il miracolo della sopravvivenza dei ragazzo e dei suoi nuovi poter,i e dai servizi segreti, che lo ricercano assieme al padre perché convinti che siano coinvolti in un attentato terroristico alla metropolitana della città. L'atmosfera degradata ma non troppo, senza tempo ma comunque attuale, gli ambienti (l'appartamento desolante di Stern, le strade, le tende dei "campi", l'ospedale, il grande albergo, la metropolitana) quanto mai realistici, una scena d'inseguimento mozzafiato a bordo macchina per le strade di Pest alla caccia di Stern e Aryan, sono efficaci e coinvolgenti, seminando un che di angoscioso e disturbante, perfettamente in linea con le riflessioni che il regista intende sollecitare e, a mio parere, ci riesce, con un film che mi ha pienamente soddisfatto.
Credo che il motivo per cui questo film sorprendente e magnetico sia stato accolto con scetticismo quando non con aperta ostlità da gran parte della critica istituzionale sia il fatto che, partendo da un episodio verosimile, ossia l'uccisione di un profugo siriano nel tentativo di varcare la frontiera tra Serbia e Ungheria, il Paese del regista, parta da questo non per fare l'ennesimo pippone politicamente corretto, o uno spottone per l'accoglienza sempre e comunque e una condanna aprioristica del governo Orban, ma per indurre a una riflessione più vasta sul malessere profondo della società attuale: non solo quella ungherese oppure occidentale in generale, ma quella moderna e globalizzata, egoista, atomizzata, incapace non solo di coltivare una qualsiasi fede, ma di vedere oltre al contingente e all'interessa immediato e d fissare lo sguardo "più in alto", migranti compresi. Lo fa attraverso una fiaba moderna ambientata in un luogo reale (un campo profughi, la città di Budapest) ma comunque distopico e inquietante, li meccanismi del noir e del film d'azione pur partendo da un evento soprannaturale: il giovane Aryan, fuggito assieme al padre carpentiere da Homs, colpito a morte da un vecchio e sadico poliziotto a caccia di immigrati clandestini, per motivi inesplicabili sopravvive e scopre di avere la capacità di levitare. Se ne accorge Gabor Stern, un medico caduto in disgrazia perché, da ubriaco, ha somministrato una dose letale di anestetico a un giovane atleta, che lavora in un campo profughi e vive di traffici e favori a pagamento con gli ospiti del campo, il quale vede l'opportunità di sfruttare la situazione e prende sotto la sua protezione Aryan, accogliendolo a casa sua e diventando l'impresario che gestisce le sue esibizioni, per accumulare i quattrini sufficienti per comprare dalla famiglia del paziente deceduto il ritiro della denuncia, mentre al ragazzo promette di fargli ritrovare il genitore. In questo si avvale dell'aiuto dell'amante, Vera, medico del pronto soccorso, che però verrà convinta a tradirlo dal poliziotto assassino, che a sua volta ha scoperto il miracolo della sopravvivenza dei ragazzo e dei suoi nuovi poter,i e dai servizi segreti, che lo ricercano assieme al padre perché convinti che siano coinvolti in un attentato terroristico alla metropolitana della città. L'atmosfera degradata ma non troppo, senza tempo ma comunque attuale, gli ambienti (l'appartamento desolante di Stern, le strade, le tende dei "campi", l'ospedale, il grande albergo, la metropolitana) quanto mai realistici, una scena d'inseguimento mozzafiato a bordo macchina per le strade di Pest alla caccia di Stern e Aryan, sono efficaci e coinvolgenti, seminando un che di angoscioso e disturbante, perfettamente in linea con le riflessioni che il regista intende sollecitare e, a mio parere, ci riesce, con un film che mi ha pienamente soddisfatto.
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