"Il sacrificio del cervo sacro" (The Killing of a Sacret Deer) di Yorgos Lanthimos. Con Colin Farrell, Nicole Kidman, Barry Keoghan, Raffey Kassidy, Sunny Suljić, Bill Camp, Alicia Silverstone e altri. GB, USA 2017 ★★★★-
Se The Lobster, il precedente film di Yorgos Lanthimos, l'avevo definito spiazzante, questo, stilisticamente e tecnicamente altrettanto impeccabile, vi aggiunge una serie di elementi che lo rendono decisamente disturbante e, a tratti, perfino repulsivo. Che il regista greco intenda provocare lo spettatore, coinvolgerlo e turbarlo lo si intuisce fin dalla prima scena, la ripresa di un intervento di angioplastica a cuore aperto, dopo un paio di minuti di buio assoluto accompagnati da un brano di Schubert, già angosciante di suo. Ma questo non è ancora niente rispetto a quel che segue, una sorta di horror psicologico che scava nell'inconfessabile senso di colpa del personaggio principale, nell'ereditarietà di essa e nell'ineluttabilità di una sorta di giustizia, che può avverarsi soltanto attraverso il sacrificio di un innocente: il riferimento è molto lontano nel tempo, e risale all'Ifigenia in Aulide di Euripide, non a caso conterraneo del regista, ma anche, e non solo per il tocco e le inquadrature, a Kubrick. La vicenda riguarda Stephen, uno stimato cardiochirurgo che, da qualche tempo, frequenta sempre più spesso Martin, un sedicenne rimasto orfano di padre, impegnandosi a rappresentare per lui la figura di riferimento maschile venutagli a mancare, fino al punto di presentargli la propria famiglia: ovviamente perfetta, a cominciare dalla moglie Anna, anche lei dottoressa (la Kidman: capace di rendersi estremamente sgradevole), la figlia adolescente Kim, che si innamorerà di Martin, e il piccolo Bob di otto anni, che abitano in una casa altrettanto perfetta, praticamente glaciale: perfino gli ambienti dell'ospedale in cui lavora Stephen esprimono maggior calore umano. Martin marcherà sempre più da vicino Stephen, che vorrebbe anche accoppiare alla madre, fino a quando il medico cerca di prendere le distanze da Martin dopo che quest'ultimo ha lanciato la sua profezia-maledizione (l'ammalarsi di tutta la famiglia uno dopo l'altro, a cominciare dal più giovane, in una degenerazione progressiva finché uno di loro verrà sacrificato, e ucciso, da Stephen) ma non può più farlo: il motivo è che è stato lui il responsabile della morte del padre del ragazzo, per averlo operato dopo aver bevuto. La discesa negli inferi è graduale e ha un qualcosa di ineluttabile, e l'effetto è senz'altro straniante e ambiguo, un misto tra repulsione e attrazione, tra sconcerto e curiosità di vedere come va a finire: chi non decide di abbandonare la sala prima delle fine rimane suo malgrado avvinghiato alla sedia, anche se si chiede, come ammetto di avere fatto, se sia il caso di dare corda ai deliri psicotici di un elemento certamente disturbato come Lanthimos, ma d'altro canto rimane affascinato dall'orrido. E bisogna ammettere, a denti stretti, che il regista riesce nel suo intento, che è proprio quello di stupire e sconcertare, e vi riesce anche attraverso la "felice", nel senso di appropriata, scelta degli interpreti, in particolare di alcuni personaggi, decisamente inquietanti per l'aspetto e le espressioni (permane il dubbio se "ci siano" o "ci facciano": in quest'ultimo caso si tratta di fenomeni): mi riferisco a Barry Keoghan e Sunny Suljić, rispettivamente nei panni di Martin, il ragazzo senza ciglia, e Bob, che sembra nato vecchio. Non me la sento di consigliarne la visione, perché non solo è un film sgradevole ma pure una notevola mazzata, però sinceramente non posso nemmeno dire che sia un film brutto o senza interesse, anzi: ome The Lobster, ha il suo perché.
Se The Lobster, il precedente film di Yorgos Lanthimos, l'avevo definito spiazzante, questo, stilisticamente e tecnicamente altrettanto impeccabile, vi aggiunge una serie di elementi che lo rendono decisamente disturbante e, a tratti, perfino repulsivo. Che il regista greco intenda provocare lo spettatore, coinvolgerlo e turbarlo lo si intuisce fin dalla prima scena, la ripresa di un intervento di angioplastica a cuore aperto, dopo un paio di minuti di buio assoluto accompagnati da un brano di Schubert, già angosciante di suo. Ma questo non è ancora niente rispetto a quel che segue, una sorta di horror psicologico che scava nell'inconfessabile senso di colpa del personaggio principale, nell'ereditarietà di essa e nell'ineluttabilità di una sorta di giustizia, che può avverarsi soltanto attraverso il sacrificio di un innocente: il riferimento è molto lontano nel tempo, e risale all'Ifigenia in Aulide di Euripide, non a caso conterraneo del regista, ma anche, e non solo per il tocco e le inquadrature, a Kubrick. La vicenda riguarda Stephen, uno stimato cardiochirurgo che, da qualche tempo, frequenta sempre più spesso Martin, un sedicenne rimasto orfano di padre, impegnandosi a rappresentare per lui la figura di riferimento maschile venutagli a mancare, fino al punto di presentargli la propria famiglia: ovviamente perfetta, a cominciare dalla moglie Anna, anche lei dottoressa (la Kidman: capace di rendersi estremamente sgradevole), la figlia adolescente Kim, che si innamorerà di Martin, e il piccolo Bob di otto anni, che abitano in una casa altrettanto perfetta, praticamente glaciale: perfino gli ambienti dell'ospedale in cui lavora Stephen esprimono maggior calore umano. Martin marcherà sempre più da vicino Stephen, che vorrebbe anche accoppiare alla madre, fino a quando il medico cerca di prendere le distanze da Martin dopo che quest'ultimo ha lanciato la sua profezia-maledizione (l'ammalarsi di tutta la famiglia uno dopo l'altro, a cominciare dal più giovane, in una degenerazione progressiva finché uno di loro verrà sacrificato, e ucciso, da Stephen) ma non può più farlo: il motivo è che è stato lui il responsabile della morte del padre del ragazzo, per averlo operato dopo aver bevuto. La discesa negli inferi è graduale e ha un qualcosa di ineluttabile, e l'effetto è senz'altro straniante e ambiguo, un misto tra repulsione e attrazione, tra sconcerto e curiosità di vedere come va a finire: chi non decide di abbandonare la sala prima delle fine rimane suo malgrado avvinghiato alla sedia, anche se si chiede, come ammetto di avere fatto, se sia il caso di dare corda ai deliri psicotici di un elemento certamente disturbato come Lanthimos, ma d'altro canto rimane affascinato dall'orrido. E bisogna ammettere, a denti stretti, che il regista riesce nel suo intento, che è proprio quello di stupire e sconcertare, e vi riesce anche attraverso la "felice", nel senso di appropriata, scelta degli interpreti, in particolare di alcuni personaggi, decisamente inquietanti per l'aspetto e le espressioni (permane il dubbio se "ci siano" o "ci facciano": in quest'ultimo caso si tratta di fenomeni): mi riferisco a Barry Keoghan e Sunny Suljić, rispettivamente nei panni di Martin, il ragazzo senza ciglia, e Bob, che sembra nato vecchio. Non me la sento di consigliarne la visione, perché non solo è un film sgradevole ma pure una notevola mazzata, però sinceramente non posso nemmeno dire che sia un film brutto o senza interesse, anzi: ome The Lobster, ha il suo perché.
Bel film, tutto sommato. La tragedia greca classica rivisitata, con tanto di possessione malefica.
RispondiEliminaMi spiace solo per il piccolo Bob, come sempre pagano i più deboli.
Kim addirittura trova il posseduto (Martin) attraente... ma è così sgraziato (ma bravo nella parte, un tipo felliniano direi)
La casa non è nei miei gusti ma non è così male, l'esterno è più bello dell'interno.