"Re Granchio" di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis. Con Gabriele Silli, Maria Alexandra Longu, Dario Levy, Mariano Arce, Daniel Tur, Ercole Colnago, Jorge Pardo, Severino Sperandio, Bruno di Giovanni e altri. Italia, Francia, Argentina 2021 ★★★★1/2
I due giovani registi, che lavorano da tempo in coppia, dopo una serie di corti e documentari (Belva nera, Il solengo, molto apprezzati dalla critica specializzata) esordiscono nel lungometraggio con un lavoro sorprendente e inconsueto, quanto è lontano dai canoni vigenti, che si rifà alla tradizione orale, un tempo predominante se non unica in ambito popolare e, cinematograficamente, non può che ricordare il rigoroso realismo di un Ermanno Olmi, anche nell'aspetto per certi aspetti fiabesco della storia. Che sono andati a pescare frequentando un gruppo di anziani cacciatori della Tuscia che ricostruiscono, in base ai ricordi di ciascuno, la vicenda avventurosa di un conterraneo che, a cavallo di Otto e Novecento, resosi colpevole di un crimine in reazione alle prepotenze del signorotto locale, il "Principe", fu costretto a emigrare in Argentina per salvarsi da conseguenze peggiori, dove finì per diventare cercatore d'oro "in culo al mondo", ossia nella Terra del Fuoco. Il film inizia dai loro racconti, in parte anche cantati, al giorno d'oggi: Luciano era un emarginato, bevitore, ribelle, insomma un anarchico, tollerato perché figlio del medico locale, innamorato corrisposto di una bella villana nonostante l'opposizione del padre di lei, pastore, che vuole salvaguardarla per il principe che nutre un certo interesse perla fanciulla. In più, quest'ultimo, ha all'improvviso impedito il passaggio delle greggi sui suoi terreni chiudendo una porta fino ad allora sempre aperta, costringendo uomini a animali a una lunga e faticosa deviazione, e il giovane reagisce come non dovrebbe, e questa è la prima parte del film. La seconda vede lo stesso personaggio ali antipodi, dove è fuggito per rifarsi una vita grazie ai documenti d'emigrazione fornitigl dal padre, e per cinque anni ha vagato per lo sterminato Paese che l'ha accolto finendo in un gruppo male assortito di ex pirati, avventurieri, delinquenti, pronti a tradirsi l'un l'latro pur di arraffarsi l'intero bottino, alla ricerca di un fantomatico tesoro che il comandante di una bastimento spagnolo naufragato aveva nascosto in un luogo sconosciuto: se lo tengono buono perché solo lui sa che esso sarà indicato dal luogo in cui si dirigerà il Re Granchio, la gigantesca (e prelibata) centolla di cui sono ricchi in quei mari, che si porta appresso in un barilotto pieno di acqua salata. Sembra di ritrovarsi, visivamente, in uno dei racconti o romanzi di Francisco Coloane o di Luís Sepúlveda, oltre che nelle righe di Bruce Chatwin. La pellicola, prologo attuale a parte, è suddivisa in due episodi distinti sia per luogo sia per tempo: nella prima, i cacciatori contemporanei sono anche per buona parte gli interpreti del borgo di cent'anni fa, coi loro volti espressivi e la loro parlata che tuttavia si fa intendere; nella seconda, dove l'atmosfera selvaggia sottolineata dalla ottima fotografia contribuisce a rendere l'atmosfera ancora più simile a un western, vengono utilizzati degli attori locali altrettanto credibili, mentre Luciano è interpretato con grande intensità da Gabriele Silli, artista a tutto tondo, ma prevalentemente scultore e pittore, all'occasione anche attore. Occasioni mancate, identità che cambiano sotto cieli e costellazioni diversi ma non il destino di questo uomo ribelle e sofferente, fedele all'amore della sua vita, che ritroverà nel ricordo, in riva a un lago nascosto e dalla luce particolare, dove lo porterà il Re Granchio. Decisamente una sorpresa, di quelle belle.
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