"Dovlatov / I libri invisibili" (Dovlatov) di Alexey German Jr. Con Milan Marić, Danila Kozlovsky, Helena Sujecka, Svetlana Khodchenkova, Anton Shaghin, Elena Lyadova e altri. Russia, Polonia, Serbia 2017 ★★★★+
Un film davvero prezioso, oltre che ben girato e magnificamente interpretato dal serbo Milan Marić nella parte di Sergej Donatović Dovlatov, giornalista e aspirante scrittore, che viene seguito passo passo nella sua vita quotidiana durante sei giorni del novembre già precocemente invernale del 1971, nel pieno dell'Era Brezneviana, in una Leningrado, come si chiamava allora San Pietroburgo, dove fervevano i preparativi per l'allestimento della consueta faraonica scenografia per celebrare i fasti di quella rivoluzione che, giunta al 54° anniversario, aveva conferito il potere a un regime sempre più imbalsamato, ottuso, completamente distaccato dalla realtà se non per reprimere qualsiasi espressione che potesse anche lontanamente metterlo in discussione. Dovlatov lo faceva con la sua arguzia, l'ironia inesauribile con cui affrontava le traversie della sua stessa esistenza: dotato di una stazza notevole, fascino, simpatia, mezzo armeno e mezzo ebreo, già per questo malvisto, lo era ancora di più per come scriveva i suoi pezzi: qui lo vediamo alle prese con un articolo su un film con dei portuali nei panni degli improbabili sosia dei grandi della letteratura russa, poi con un intervista a un poeta-lavoratore che scava tunnel per la metropolitana, il quale ha perso l'ispirazione dopo aver trovato la sua musa, la moglie, a letto con un altro; tra una vodka e una birra con gli amici artisti, fra cui Josif Brodski, che come lui si arrabattano per sbarcare il lunario tra mercato nero (particolarmente fiorente in una città così vicina alla Finlandia) e lavoretti vari; le serate di discussioni interminabili con performance, declamazioni di poesie, accompagnamento musicale (preferibilmente jazz) negli affollati appartamenti dell'uno o dell'altro, o performance in locali semiclandestini; la relazione con la madre sceneggiatrice che lo ospita dopo che si è separato dalla moglie Helena; le diatribe con quest'ultima e il rapporto con la loro figlia, che spesso si addormenta durante le serate errabonde del nostro eroe, che cerca di trovare la maniera, facendo leva su una o l'altra conoscenza, per essere ammesso alla Società degli scrittori: solo facendone parte, e dopo aver ottenuto la patente di adeguata "sovieticità", le sue opere avrebbero potuto ottenere il permesso di essere stampate. Ovviamente ogni suo tentativo fu vano: troppo scomodo e incontrollabile il personaggio, soprattutto la sua lingua e la sua penna. Così andavano le cose anche per gli altri artisti, pittori, scultori, teatranti, musicisti ma esisteva, per l'appunto, un mondo parallelo, sotterraneo, estraneo alle logiche di partito e di potere, che sopravviva ai margini di esso, ed è questo che descrive il film, quell'ambiente intellettuale che non si omologava, la cui aria l'autore, Alexej German junior, figlio dell'omonimo regista, coetaneo di Dovlatov e come lui leningradese, ha respirato fin dalla più tenera infanzia, nonché ricevuto dal padre e da chi aveva vissuto quel periodo testimonianza diretta su vicende e personaggi. Dovlatov, come già l'amico Brodsky prima di lui, fu costretto all'esilio nel 1978, prima in Austria, poi negli USA, a New York, dove morì nel 1990: fino ad allora solo alcuni suoi scritti circolarono in Russia sotto forma di samizdat, mentre dopo il crollo del regime comunista diventò uno degli autori più amati nel suo Paese e lo è tuttora: il film è tratto da I libri invisibili, e le sue opere edite da Sellerio. Vale la pena conoscerlo, Dovlatov, e questo bel film riesce nell'intento di darcene un gustoso quanto credibile assaggio.
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