"Something Good" di Luca Barbareschi. Con Luca Barbareschi, Zhang Jingchu, Gary Lewis, Kenneth Tsang, Michael Wong, Carl Long Ng, Frank Crudele e altri. Italia 2013 ★⅓
A dispetto dei suoi trascorsi da parlamentare del PDL, reputo Barbareschi, qui al suo terzo lavoro come regista, un uomo intelligente e un buon attore, così mi sono fatto irretire da una critica letta non so dove e dall'argomento del film, il traffico internazionale di cibi adulterati, e sono andato a vedermi "Something Good". Girato professionalmente, non c'è che dire, con un cast all'altezza del genere noir a cavallo tra quello di stile francese e quello asiatico (grazie anche all'ambientazione ad Hong Kong, forse la cosa migliore della pellicola, insieme alle buone intenzioni), fotografia patinata, colonna sonora adeguata, ma è e rimane un polpettone televisivo troppo rabborracciato e compresso nei tempi per poter funzionare come film. Compressione che rende poco credibile la vicenda che vede al centro Matteo Mercury, un italiano abilissimo nel piazzare alimenti contraffatti o scaduti non solo a mense di vario tipo ma anche, e qui sta un colpo veramente grosso, derrate come il latte in polvere, oltretutto adulterato, alle organizzazioni, internazionali o non governative, che si occupano dei bambini affamati nel mondo, e in Africa in particolare. Un vero figlio di puttana, insomma, tanto bravo da meritarsi il posto di amministratore delegato di una ditta cinese specializzata nella produzione e nello smercio di simili prodotti. Ben conoscendo il mondo dei prodotti alimentari lui si guarda bene dal consumare quelli di uso comune e così, portato una sera a cena da un amico in un ristorante alla mano ma rinomato per la freschezza dei suoi prodotti, non fidandosi va a ispezionare la cucina dove fa il suo incontro con Xiwen, la cuoca e proprietaria, giovane, bella e affascinante, che ha fatto della qualità degli ingredienti la sua missione dopo che suo figlio di 4 anni, come si vede nella scena d'apertura del film, muore fulminato a causa di un'intossicazione alimentare. Da qui un tracciato scritto: diffidenza reciproca iniziale, poi lui si innamora di lei ed entra in crisi di coscienza; lei si innamora di lui; lui salva lei, o meglio il suo ristorante, dal rischio di chiusura (colpa delle banche ciniche e bare, e giù un'altra frecciata buonista e luogocomunista); lei salva lui, dalla galera, fornendogli un alibi (fasullo) per un omicidio che non ha commesso: tutto questo nell'arco di un paio di giornate, mentre l'intrigo monta e la vicenda si complica di conseguenza in maniera sempre più inverosimile, la polizia è (in parte) corrotta, i cadaveri si moltiplicano e la storia d'amore, appena cominciata, è già finita, perché il nostro eroe alla fine tira le cuoia: svelo il finale cosicché chi ha avuto la pazienza e la bontà di leggermi fin qui eviti di andare a vedere questa brodaglia che, adeguatamente dilatata, poteva funzionare come serial TV in due puntate da 90-100' ciascuna, il format ideale per il pubblico di bocca buona di RaiSet, ma non sul grande schermo. Non ci siamo proprio.
A dispetto dei suoi trascorsi da parlamentare del PDL, reputo Barbareschi, qui al suo terzo lavoro come regista, un uomo intelligente e un buon attore, così mi sono fatto irretire da una critica letta non so dove e dall'argomento del film, il traffico internazionale di cibi adulterati, e sono andato a vedermi "Something Good". Girato professionalmente, non c'è che dire, con un cast all'altezza del genere noir a cavallo tra quello di stile francese e quello asiatico (grazie anche all'ambientazione ad Hong Kong, forse la cosa migliore della pellicola, insieme alle buone intenzioni), fotografia patinata, colonna sonora adeguata, ma è e rimane un polpettone televisivo troppo rabborracciato e compresso nei tempi per poter funzionare come film. Compressione che rende poco credibile la vicenda che vede al centro Matteo Mercury, un italiano abilissimo nel piazzare alimenti contraffatti o scaduti non solo a mense di vario tipo ma anche, e qui sta un colpo veramente grosso, derrate come il latte in polvere, oltretutto adulterato, alle organizzazioni, internazionali o non governative, che si occupano dei bambini affamati nel mondo, e in Africa in particolare. Un vero figlio di puttana, insomma, tanto bravo da meritarsi il posto di amministratore delegato di una ditta cinese specializzata nella produzione e nello smercio di simili prodotti. Ben conoscendo il mondo dei prodotti alimentari lui si guarda bene dal consumare quelli di uso comune e così, portato una sera a cena da un amico in un ristorante alla mano ma rinomato per la freschezza dei suoi prodotti, non fidandosi va a ispezionare la cucina dove fa il suo incontro con Xiwen, la cuoca e proprietaria, giovane, bella e affascinante, che ha fatto della qualità degli ingredienti la sua missione dopo che suo figlio di 4 anni, come si vede nella scena d'apertura del film, muore fulminato a causa di un'intossicazione alimentare. Da qui un tracciato scritto: diffidenza reciproca iniziale, poi lui si innamora di lei ed entra in crisi di coscienza; lei si innamora di lui; lui salva lei, o meglio il suo ristorante, dal rischio di chiusura (colpa delle banche ciniche e bare, e giù un'altra frecciata buonista e luogocomunista); lei salva lui, dalla galera, fornendogli un alibi (fasullo) per un omicidio che non ha commesso: tutto questo nell'arco di un paio di giornate, mentre l'intrigo monta e la vicenda si complica di conseguenza in maniera sempre più inverosimile, la polizia è (in parte) corrotta, i cadaveri si moltiplicano e la storia d'amore, appena cominciata, è già finita, perché il nostro eroe alla fine tira le cuoia: svelo il finale cosicché chi ha avuto la pazienza e la bontà di leggermi fin qui eviti di andare a vedere questa brodaglia che, adeguatamente dilatata, poteva funzionare come serial TV in due puntate da 90-100' ciascuna, il format ideale per il pubblico di bocca buona di RaiSet, ma non sul grande schermo. Non ci siamo proprio.
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