Yangon – Quattro settimane trascorse nel Myanmar, lungo un
itinerario classico e procedendo senza fretta, non sono certo sufficienti per
conoscere un Paese, a maggior ragione complesso come questo e con l’ostacolo
della lingua, ma sufficienti per farsene un’idea, suscitare delle sensazioni e
perfino spingersi a fare alcune previsioni. Da 50 anni esatti il Myanmar vive
sotto la cappa di un regime militare che non ha esitato a usare metodi brutali
per reprimere le manifestazioni di dissenso, che pure ci sono state, a ondate,
come nel 1974, nel 1988 e, più di recente, nel settembre del 2007 quando arrivò
a usare violenza contro le decine di migliaia di monaci che in tutto il Paese
avevano guidato la protesta, alienandosi definitivamente ogni possibile residuo
di rispetto da parte di una popolazione che vede nei clero buddhista l’unica
vera autorità riconosciuta. Della situazione si è venuto a sapere, e qualcuno
ha cominciato a interessarsene, dopo il conferimento del premio Nobel per la
pace ad Aung San Suu Kyi nel 1991. Questa donna, dall’aspetto dolce e fragile ma dotata di una determinazione e
coerenza d’acciaio, è da più di vent’anni la spina nel fianco della giunta, da
quando, dopo i moti dell’88, attorno a lei l’opposizione si è coagulata nella
NLD (Lega nazionale per la democrazia),
partito che ottenne alle elezioni del 1990 qualcosa come 392 dei 485 seggi
disponibili in Parlamento e ai cui deputati fu impedito di assumere la carica.
Figlia del generale Bogyoke Aung San, che guidò la Birmania all’indipendenza
dagli inglesi, ottenuta nel 1947, ed è considerato un eroe nonché padre della
patria dagli stessi militari (fu ucciso pochi mesi dopo a soli 32 anni in un
complotto probabilmente organizzato dagli stessi perché intendeva
smilitarizzare il governo al più presto),
e chiamata perlopiù semplicemente The
Lady, la sua immagine, assieme a quella del padre, campeggia in quasi tutte
le case e botteghe del Paese, così come nelle beer station e nelle sale da tè, spesso su calendari: una specie di
santino laico, o di nat protettivo,
un po’ come accadeva nella ex Jugoslavia col ritratto di Tito, che era riuscito
a tenere insieme un Paese che si sarebbe disgregato, alla sua morte, in preda
alla demenza etnica e separatista (ed ecco un altro aspetto in comune con la
Birmania e i suoi conflitti con le minoranze, in buona parte indotti proprio
dal regime militare). In ogni caso, la stima e l’affetto di cui è circondata
Aung San Suu Kyi non hanno nulla a che fare con una cieca devozione da parte di
fedeli acriticamentemente adoranti, ma sono ancor più commoventi per come sono
autentici. Le recenti aperture da parte della giunta, simboleggiate della
visita del segretario di Stato USA Hillary Clinton avvenuta qualche mese fa; la
maggiore integrazione del Paese nell’ASEAN; la stessa estensione del visto
turistico a 28 giorni (erano 14 l’ultima volta che avevo provato, inutilmente,
a ottenerlo, qualche anno fa) hanno contribuito a rasserenare il clima e a
prima vista non si direbbe che il Paese sia governato da una dittatura, anche
perché, come ho già notato, la gente (e non solo i monaci) tende a parlare di
politica, lo fa volentieri e non ha alcuna remora a dicuterne anche con gli
stranieri. Poi ci si accorge di alcuni particolari: le stazioni di polizia,
soprattutto a Yangon, sono circondate, a protezione, da sacchetti di sabbia,
filo spinato e cavalli di frisia; le caserme e basi militari protette da occhi
indiscreti e ove possibile mimetizzate: lungo il percorso della Circle Line ne avevo notate parecchie
nella cinta esterna della città, e il primo pensiero era stato di gente
asserragliata, pronta a decretare e mettere in atto uno stato d’assedio perché
si sente a sua volta sotto assedio da parte di una popolazione che la ignora e
cerca di vivere come se non esistesse, e che nutre disprezzo non tanto per
l’esercito in sé quanto per chi ne è a capo. Un esempio lampante l’ho avuto a
Mandalay, dove nel pieno centro della città, circondata da un fossato lungo 2
chilometri per lato, si erge la fortezza circondata da mura del Mandalay Palace, ricostruita negli anni
Novanta utilizzando il lavoro forzato dei detenuti, spesso politici. Su una
delle quattro entrate campeggia un cartello con la scritta: “Il Tatmadaw
(l’esercito) è sempre stato e sempre sarà al servizio del popolo birmano”. Il Mandalay Palace non lo visita nessuno, a
parte i gruppi di turisti dei viaggi organizzati (da agenzie controllate dal
governo). La gente ci passa davanti e lo ignora. Se si chiede com’è, ne
sconsiglia la visita, specificando il perché. In quattro settimane, oltre ai 25
€ per il visto, ho calcolato di essermi limitato a versare nelle tasse statali
al massimo 50 dollari USA, tra ingressi ad aree archeologiche e musei e
compresi due viaggi in battello con compagnie pubbliche (quantomeno il prezzo
del biglietto è destinato in parte a coprire lo stipendio degli addetti),
incoraggiato e indotto dagli stessi locali, prodighi di consigli su come
evitare le gabelle, e dal personale stesso, che spesso evita di controllare i
biglietti. Un regime, per quanto brutale, non può sopravvivere in eterno
circondato da un discredito così generalizzato, e gli scricchiolii si percepiscono
eccome. Sembra che sia intenzionato a consentire finalmente delle elezioni
regolari il prossimo aprile: foto della “Lady” e il simbolo della NLD nel
frattempo si moltiplicano. E il Paese non può rimanere isolato, e difatti lo è
sempre di meno: quantomeno il corridoio verso la Cina è sempre più aperto, e
non soltanto alle merci. A questo proposito, negli ultimi anni ho notato un
numero sempre crescente di giovani cinesi (e sudcoreani), appartenenti a quella
che si può definire “generazione internet”, viaggiare, cominciando naturalmente
dai Paesi più vicini, come per l’appunto il Myanmar, e farlo alla maniera dei
loro omologhi occidentali, anche se in modo più timido e impacciato. Ragazzi
normali, non i figli degli alti papaveri di partito o dei dirigenti delle
imprese turbocapitaliste, che sono di casa nelle migliori università USA ed
europee: giovani che si aprono al mondo, curiosi di conoscere situazioni
diverse da quelle in cui si trovano a vivere, e come già da tempo fanno quelli
giapponesi. A differenza dei loro coetanei russi o indiani. E qui vengo al
contributo che a uno sbocco positivo delle aperture che si intravedono in
questa fase politica, e allo sviluppo in generale del Myanmar, possono dare i
Paesi che hanno i maggiori contatti commerciali, e non solo, con esso. Come
avevo già accennato, a essere decisiva è la Cina. Il Myanmar è un Paese ricco.
Potenzialmente è un esportatore netto, autosufficiente dal punto di vista
alimentare, che abbonda di materie prime ambite, comprese le fonti energetiche.
Un Paese ricco che vive in povertà; con una immensa dignità, l’arretratezza a
cui l’ha costretto una classe dirigente ingorda, paranoica e irrimediabilmente
stupida. E anche un Paese terribilmente arretrato a livello di infrastrutture,
se si pensa alla rete stradale, a quella idrica, a quella delle
telecomunicazioni (funziona meglio la neonata rete mobile che quella fissa). Stando così le cose, la
Russia, che è potenziale concorrente del Myanmar per quanto riguarda l’export
di gas e petrolio, non ha niente da offrire, se non armi; l’India forse nel
campo delle telecomunicazioni: ma sconta
la diffidenza e la scarsa simpatia che gli indiani, visti come trafficatori
inaffidabili e spesso truffaldini, suscitano nella popolazione. Non che i
thailandesi (nemici storici dei birmani)
e i cinesi, che sono i maggiori investitori nel Paese, siano particolarmente
amati, ma certamente sono considerati più affidabili ed efficienti, soprattutto
i figli del Celeste Impero, che a mio parere hanno l’asso nella manica ora che
il Myanmar non è più uno Stato socialista. Perché, dal 1964 al 1988, ha seguito
anche questa utopia, che la storia ha dimostrato non percorribile (e la cosa
non mi stupisce, dato che prende il via dalle medesime premesse del sistema che
vorrebbe contestare e che, a mio parere, è entrato a sua volta in una crisi
irreversibile: quello capitalista, in preda a un’agonia che durerà ancora a
lungo, almeno svariati decenni, salvo un collasso improvviso e attualmente non
prevedibile a breve termine ma a mio parere pienamente in atto) e in seguito ha
provato a seguire lo schema cinese. Con esiti penosi. Perché la Cina è il più
grande mercato, sempre meno potenziale e più effettivo, al mondo, nella duplice
veste di cliente e di venditore, e questo in un sistema globalizzato: pur di
farci affari insieme, anche chi si autoproclama portatore di valori a suo dire universali, passa allegramente
sopra ogni questione etico-politica, sempre ammesso e non concesso che i Paesi
occidentali, a cominciare dagli USA, abbiano alcunché da insegnare a chicchessia.
La Birmania non è certo in queste condizioni, tanto è vero che da essi è
oggetto di un embargo piuttosto stretto. E mentre in Cina è stato il governo,
nelle salde mani di quel complesso comitato d’affari e di potere che è il
Partito comunista, a creare, attraverso una forzata e rapida accumulazione
primitiva del capitale e la costruzione a ritmo serrato di infrastrutture
finanziate dallo Stato, le condizioni per uno sviluppo vorticoso, in Birmania
un regime al potere da troppo tempo e con inclinazioni psicopatiche, oltre che
avido nei suoi esponenti di più alto livello, i mezzi per una “start up” in
termini di sviluppo capitalistico se li è divorati a causa della sua stessa
voracia e corruzione senza fondo. Un esempio da manuale è stato l’improvviso
spostamento, nel 2005, della capitale da Yangon a Nay Pyi Taw, una città
perfettamente inutile, creata dal nulla e abitata soltanto da funzionari governativi
e statali, iniziativa delirante che ha suscitato perplessità perfino da parte dei
cinesi. Che comunque sentitamente ringraziano, innanzitutto perché le loro
imprese costruttrici, a cui si deve la costosa opera, hanno fatto affari d’oro
e poi perché ancora una volta “tengono per le palle” un Myanmar indebitato. E
comunque legato mani e piedi alle potenze confinanti con cui ha rapporti
commerciali, fornendo loro materie prime a prezzi competitivi: Cina
innanzitutto e poi Thailandia, India e, sul versante delle forniture militari,
Russia e Corea del Nord. Un panorama di soci alquanto inquietanti. Eppure sono
abbastanza fiducioso nell’evoluzione della situazione. Non prevedo un passaggio
immediato del potere nelle mani dei civili, ma uno graduale, alla cui base sono
le trattative in corso da mesi tra la giunta e Aung San Su Kyi, propiziato da
una vittoria dei candidati della NLD alle elezioni di aprile, sempre che
si tengano come previsto. Col rientro in
gioco anche di altri possibili partner commerciali, tra cui vedo con ottime chance il Giappone, a cui nel 1941 si
rivolse con fiducia e successo suo padre Bogyoke per liberarsi dagli inglesi,
salvo combatterli non appena si accorse
che da parte loro ai birmani toccava subire un trattamento anche peggiore che dagli
antichi padroni coloniali. Ma quello era l’Impero del Sol Levante in piena
espansione e al massimo della sua capacità bellica, e non il Giappone di oggi. Un
tempo era la Thailandia, l’antico SIAM, a essere chiamata la “terra del sorriso”.
Aggredita da uno sviluppo, se così vogliamo definirlo, tumultuoso e
irrefrenabile; spesso deturpata e violentata da una corsa alla modernità senza
limiti e da un turismo in buona parte invasivo e corrotto, non è più tale . Trovo che la stessa lusinghiera
espressione di terra del sorriso,
oltre che Paese dell’oro, spetti oggi a pieno titolo alla Birmania, con l’augurio
che un progresso auspicato da tutti e necessario venga tenuto sotto controllo
nei suoi aspetti perversi e che non stravolga il carattere dei suoi abitanti.
L’indole caparbia e orgogliosa della sua gente, la cui mitezza è l‘opposto
della rassegnazione, la più amichevole, gentile e aperta che abbia trovato in
tutto l’Oriente, ancora più che nel Laos, mi fa ben sperare.
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