"Taxi Teheran" (Taksojuth) di Jafar Panahi. Con Jafar Panahi, Omid, Hana Saedi, Nasrin Sotoudeh e altri (inconsapevoli). Iran 2014 ★★★★★
Condannato a sei anni di reclusione e rilasciato col divieto di uscire dal Paese e soprattutto con quello di esprimersi in "opere di ingegno artistico e intellettuale" e dunque di scrivere sceneggiature e girare dei veri e propri film, Jafar Panahi aveva già aggirato il divieto con due lungometraggi in interni, This is not a Film del 2011 e Closed Courtain del 2013, ma questa volta è uscito di casa e ha usato l'espediente di trasformarsi in tassista riprendendo l'interno dell'automezzo (e quindi una sua pertinenza e non in esterni) grazie a una telecamera fissa montata sul cruscotto e l'ausilio di smartphone azionati dai "clienti" durante una giornata di lavoro nelle vie di Teheran, in sostanza una docu-fiction tanto apparentemente realistica quanto studiata nei minimi dettagli per farsi beffe dell'occhiuta e ottusa censura del regime islamico. Il regista, dal volto bonario e sempre sorridente, ironico (ricorda un Romano Prodi più giovane nei momenti di buonumore) e imbranato nel suo ruolo di autista (non conosce una delle strade che gira abbastanza a caso nella capitale) accoglie man mano per brevi percorsi una varia umanità con cui conversa in (vigilata) libertà e riesce a rendere con poche pennellate tutta l'assurda situazione che vive l'Iran, stretto fra un regime oscurantista e integralista e una vitalità intellettuale fuori dal comune, che fa il paio con la contraddizione tra le norme e i divieti più assurdi in nome della religione e la fame di libertà e modernità: ossia tra costumi (imposti) e consumi (spesso altrettanto imposti). Tra le varie figure un borsaiolo che discute di lotta alla criminalità con una giovane insegnate progressista; Omid, uno "spacciatore" di DVD pirata che riconosce immediatamente il regista (e che naturalmente possiede i suoi film nel proprio catalogo); due anziane sorelle superstiziose con una boccia contenente pesci rossi; un uomo vittima di un incidente motociclistico che, credendosi in fin di vita, si fa riprendere da un cellulare mentre detta le sue ultime volontà in modo che i suoi averi vadano alla moglie e non finiscano nelle grinfie dei fratelli; la deliziosa, saputella e linguacciuta nipote di Panahi, un'attrice nata (Hana, la stessa che ha ritirato l'Orso d'Oro a Berlino in febbraio), che ha ambizioni cinematografiche e facendogli domande consente al regista un excursus sull'argomento; infine la radiosa e sorridente avvocata e attivista per i diritti civili Nasrin Satoudeh, anch'essa detenuta dal 2010 al 2013 nelle carceri iraniane, interdetta all'esercizio pubblico della sua professione come Panahi. Il tutto apparentemente per caso, ma così ovviamente non è. Il risultato, in 82 soli minuti, è un film poetico quanto spassoso, realistico e surreale insieme, una dichiarazione d'amore al cinema e alla libertà. E' un grande film, e la vittoria a Berlino per una volta non è adeguamento al "politicamente corretto" ma omaggio a un grande artista e uomo coraggioso e saggio.
Condannato a sei anni di reclusione e rilasciato col divieto di uscire dal Paese e soprattutto con quello di esprimersi in "opere di ingegno artistico e intellettuale" e dunque di scrivere sceneggiature e girare dei veri e propri film, Jafar Panahi aveva già aggirato il divieto con due lungometraggi in interni, This is not a Film del 2011 e Closed Courtain del 2013, ma questa volta è uscito di casa e ha usato l'espediente di trasformarsi in tassista riprendendo l'interno dell'automezzo (e quindi una sua pertinenza e non in esterni) grazie a una telecamera fissa montata sul cruscotto e l'ausilio di smartphone azionati dai "clienti" durante una giornata di lavoro nelle vie di Teheran, in sostanza una docu-fiction tanto apparentemente realistica quanto studiata nei minimi dettagli per farsi beffe dell'occhiuta e ottusa censura del regime islamico. Il regista, dal volto bonario e sempre sorridente, ironico (ricorda un Romano Prodi più giovane nei momenti di buonumore) e imbranato nel suo ruolo di autista (non conosce una delle strade che gira abbastanza a caso nella capitale) accoglie man mano per brevi percorsi una varia umanità con cui conversa in (vigilata) libertà e riesce a rendere con poche pennellate tutta l'assurda situazione che vive l'Iran, stretto fra un regime oscurantista e integralista e una vitalità intellettuale fuori dal comune, che fa il paio con la contraddizione tra le norme e i divieti più assurdi in nome della religione e la fame di libertà e modernità: ossia tra costumi (imposti) e consumi (spesso altrettanto imposti). Tra le varie figure un borsaiolo che discute di lotta alla criminalità con una giovane insegnate progressista; Omid, uno "spacciatore" di DVD pirata che riconosce immediatamente il regista (e che naturalmente possiede i suoi film nel proprio catalogo); due anziane sorelle superstiziose con una boccia contenente pesci rossi; un uomo vittima di un incidente motociclistico che, credendosi in fin di vita, si fa riprendere da un cellulare mentre detta le sue ultime volontà in modo che i suoi averi vadano alla moglie e non finiscano nelle grinfie dei fratelli; la deliziosa, saputella e linguacciuta nipote di Panahi, un'attrice nata (Hana, la stessa che ha ritirato l'Orso d'Oro a Berlino in febbraio), che ha ambizioni cinematografiche e facendogli domande consente al regista un excursus sull'argomento; infine la radiosa e sorridente avvocata e attivista per i diritti civili Nasrin Satoudeh, anch'essa detenuta dal 2010 al 2013 nelle carceri iraniane, interdetta all'esercizio pubblico della sua professione come Panahi. Il tutto apparentemente per caso, ma così ovviamente non è. Il risultato, in 82 soli minuti, è un film poetico quanto spassoso, realistico e surreale insieme, una dichiarazione d'amore al cinema e alla libertà. E' un grande film, e la vittoria a Berlino per una volta non è adeguamento al "politicamente corretto" ma omaggio a un grande artista e uomo coraggioso e saggio.
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