"Il capitale umano" di Paolo Virzì. Con Fabrizio Bentivoglio, Valeria Bruni Tedeschi, Fabrizio Gifuni, Valeria Golino, Matilde Gioli, Guglielmo Pinelli, Giovanni Anzaldo, Luigi Lo Cascio, Bebo Storti, Gigio Alberti e altri. Italia, Francia 2014 ★★★★+
Posso immaginare che per Paolo Virzì non sia il massimo dei complimenti, ma se ne avessi ignorato l'autore, mai avrei detto che "Il capitale umano" l'avesse diretto lui: piuttosto mi sarebbe venuto in mente un Gabriele Salvatores in grande forma, anche per la presenza di Bentivoglio e Storti, due tra i suoi attori preferiti. Invece non solo ne ha curato la regìa ma ne ha pure scritto la sceneggiatura assieme a Francesco Piccolo e a Francesco Bruni, traendola dal thriller dell'americano Stephen Amidon, ambientato nel Connecticut e trasponendolo nell'immaginaria Ornate, paese di una ben più reale Brianza. Reale, non verosimile: e lo dico con cognizione di causa, da milanese nativo, perché nonostante parecchi indigeni, leghisti e berlusconidi, che lì abbondano, si siano indignati e abbiano elevato alti lai, il regista livornese l'ha proprio ritratta, e senza nemmeno calcare la mano, per quello che è. Le proteste, anzi, dimostrano quanto abbia centrato il bersaglio. Così come reale è la Milano abbrutita che si intravede sullo fondo, immanente. Tutto parte dall'incidente accaduto a un cameriere di un'impresa di catering, padre di famiglia che, rientrando a casa in bicicletta in una gelida serata invernale, viene travolto da un SUV e non soccorso, e rimane agonizzante sul ciglio della strada. Da qui si dipana tutta la vicenda, che coinvolge due tipiche famiglie della borghesia brianzola: quella "alta", che vive abbarbicata in una villa in cima alla collina, e quella piccola, dei "gru-bru", meschini e invidiosi, che la guardano adoranti dal basso, e pur di entrarvi in contatto e raccoglierne le briciole sono disposti a qualsiasi bassezza, compresa quella di vendere i propri figli, se non fisicamente quantomeno i loro sentimenti e le loro speranze. Virzì racconta la storia dal punto di vista di quattro personaggi: Dino Ossola (un Bentivoglio coi fiocchi) piccolo immobiliarista che si indebita per cifre che non possiede pur di entrare nel fondo finanziario gestito da Giovanni Bernaschi (Gifuni, superlativo); Carla, la moglie di quest'ultimo, ex attrice frustrata, una Valeria Bruni Tedeschi perfetta per il ruolo; la figlia di Giovanni, Serena, una brava ed espressiva Matilde Gioli, attrice non professionista, che si finge ancora fidanzata di Maxi Bernaschi, il maggiore indiziato per l'incidente perché così ubriaco da non ricordarsi come sia rientrato a casa quella notte; infine il "capitale umano", espressione anodina che i periti assicurativi utilizzano per indicare il "valore" della vittima su cui basare il rimborso ai famigliari superstiti, ossia il povero cameriere che alla fine decede. A pagare sarà, con la galera, la più vittima di tutti, Luca (Giovanni Anzaldo) un giovane e sensibile ragazzo, lo "sbandato" del paese, maltrattato dal destino, perseguitato da una serie di disgrazie, ultima delle quali essere, per pura casualità, il vero responsabile dell'incidente, e già in trattamento presso Roberta, una psicologa di una struttura pubblica (una ottima Golino), moglie di Dino e matrigna di Serena, che col ragazzo ha dato vita a un legame che si capisce forte e duraturo. Un thriller incalzante, ben girato, e ben scelto per farne una parabola azzeccatissima. Consiglierei a Virzì, di cui in precedenza avevo pienamente apprezzato soltanto "La prima cosa bella", di varcare definitivamente la "Linea Gotica", lasciare Roma ma anche la natìa Toscana, e trasferirsi a Nord del Po perché qui le sue indubbie capacità, che ha dimostrato una volta per tutte, si esprimono al massimo, forse proprio perché è uscito dai suoi cliché abituali, e soprattutto perché un occhio esterno vede meglio e con più obiettività come stanno le cose. Da vedere.
Posso immaginare che per Paolo Virzì non sia il massimo dei complimenti, ma se ne avessi ignorato l'autore, mai avrei detto che "Il capitale umano" l'avesse diretto lui: piuttosto mi sarebbe venuto in mente un Gabriele Salvatores in grande forma, anche per la presenza di Bentivoglio e Storti, due tra i suoi attori preferiti. Invece non solo ne ha curato la regìa ma ne ha pure scritto la sceneggiatura assieme a Francesco Piccolo e a Francesco Bruni, traendola dal thriller dell'americano Stephen Amidon, ambientato nel Connecticut e trasponendolo nell'immaginaria Ornate, paese di una ben più reale Brianza. Reale, non verosimile: e lo dico con cognizione di causa, da milanese nativo, perché nonostante parecchi indigeni, leghisti e berlusconidi, che lì abbondano, si siano indignati e abbiano elevato alti lai, il regista livornese l'ha proprio ritratta, e senza nemmeno calcare la mano, per quello che è. Le proteste, anzi, dimostrano quanto abbia centrato il bersaglio. Così come reale è la Milano abbrutita che si intravede sullo fondo, immanente. Tutto parte dall'incidente accaduto a un cameriere di un'impresa di catering, padre di famiglia che, rientrando a casa in bicicletta in una gelida serata invernale, viene travolto da un SUV e non soccorso, e rimane agonizzante sul ciglio della strada. Da qui si dipana tutta la vicenda, che coinvolge due tipiche famiglie della borghesia brianzola: quella "alta", che vive abbarbicata in una villa in cima alla collina, e quella piccola, dei "gru-bru", meschini e invidiosi, che la guardano adoranti dal basso, e pur di entrarvi in contatto e raccoglierne le briciole sono disposti a qualsiasi bassezza, compresa quella di vendere i propri figli, se non fisicamente quantomeno i loro sentimenti e le loro speranze. Virzì racconta la storia dal punto di vista di quattro personaggi: Dino Ossola (un Bentivoglio coi fiocchi) piccolo immobiliarista che si indebita per cifre che non possiede pur di entrare nel fondo finanziario gestito da Giovanni Bernaschi (Gifuni, superlativo); Carla, la moglie di quest'ultimo, ex attrice frustrata, una Valeria Bruni Tedeschi perfetta per il ruolo; la figlia di Giovanni, Serena, una brava ed espressiva Matilde Gioli, attrice non professionista, che si finge ancora fidanzata di Maxi Bernaschi, il maggiore indiziato per l'incidente perché così ubriaco da non ricordarsi come sia rientrato a casa quella notte; infine il "capitale umano", espressione anodina che i periti assicurativi utilizzano per indicare il "valore" della vittima su cui basare il rimborso ai famigliari superstiti, ossia il povero cameriere che alla fine decede. A pagare sarà, con la galera, la più vittima di tutti, Luca (Giovanni Anzaldo) un giovane e sensibile ragazzo, lo "sbandato" del paese, maltrattato dal destino, perseguitato da una serie di disgrazie, ultima delle quali essere, per pura casualità, il vero responsabile dell'incidente, e già in trattamento presso Roberta, una psicologa di una struttura pubblica (una ottima Golino), moglie di Dino e matrigna di Serena, che col ragazzo ha dato vita a un legame che si capisce forte e duraturo. Un thriller incalzante, ben girato, e ben scelto per farne una parabola azzeccatissima. Consiglierei a Virzì, di cui in precedenza avevo pienamente apprezzato soltanto "La prima cosa bella", di varcare definitivamente la "Linea Gotica", lasciare Roma ma anche la natìa Toscana, e trasferirsi a Nord del Po perché qui le sue indubbie capacità, che ha dimostrato una volta per tutte, si esprimono al massimo, forse proprio perché è uscito dai suoi cliché abituali, e soprattutto perché un occhio esterno vede meglio e con più obiettività come stanno le cose. Da vedere.
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