"C'era una volta a New York" (The Immigrant) di James Gray. Con Marion Cotillard, Joaquin Phoenix, Jeremy Renner, Tamara Dominczyc, Angela Sarafyan e altri. USA 2013 ☠
Polpettone indecoroso, melenso e sciatto, ho fatto l'errore di andare a vederlo non certo attirato dagli occhioni bovini, alquanto strabici ed eternamente lacrimanti di Marion Coccodrillard, un'attrice senza alcun talento la cui presenza sul grande schermo per motivi imperscrutabili è frequente quanto quella del prezzemolo in cucina, esattamente come accade per Sandra Bullock, ma in ricordo dell'esordio col botto alla regia di James Gray con "Little Odessa" giusto vent'anni fa: ma tutte le sue promettenti qualità sembrano essersi dissolte nel nulla da allora a oggi. Questo meló immigratorio racconta una storia scontata di amore e redenzione, incentrata su un'immigrata polacca, Ewa, che all'arrivo negli USA viene separata dalla sorella, malata di tubercolosi, la quale viene isolata e ricoverata in un ospedale di quella specie di ghetto che era Ellis Island, l'equivalente di allora dei CIE, mentre la bella Ewa viene adocchiata e "salvata" da un trafficone ebreo, impersonato dal lombrosiano più che ombroso Joaquin Phoenix, una specie di imbonitore che organizza spettacoli di infimo livello a base di poveracce che poi fa prostituire. Ewa diventa la star di questa specie di circo al femminile ma per lei il pappone nutre un sentimento "speciale", combattuto ma forse autentico, contrastato dalla regolare apparizione, misirizzi in carne e ossa, sul più bello, del cugino Orlando, un illusionista, interpretato da un buffonesco ed irritante Jeremy Renner, la cui funzione nell'esistenza sembra essere quella di rompere le uova nel paniere al parente. L'unico chiodo fisso di Ewa è ottenere di ricongiungersi alla sorella e guadagnare denaro abbastanza per comprarle la libertà e sparire in California per rifarsi una vita: per questo si prostituisce ma con tanto di pentimento al confessionale. Il feuilleton non ci fa mancare nulla: il polacco cattolico, l'ebreo errante e meschino (incredibile che non sia ancora insorta la Anti Defamation League), la puttana redenta, il proibizionismo, l'American Dream, le infide strade di Broccolino (stranamente non appare un paisà in tutto il film, come se New York nel 1921 non pullulasse di immigrati italiani, esattamente come non appaiono neri nella Manhattan di Woody Allen), la corruzione, il pentimento e il riscatto, il tutto su sfondi di cartapesta e un'ambientazione trascurata e posticcia. In tre parole: una cagata pazzesca. E come se non bastasse, la traduzione, come al solito a cazzo, del titolo in italiano, è una parafrasi insultante del capolavoro di Sergio Leone e pertanto un'indecente tentativo di persuasione occulta in cui sono colpevolmente cascato.
Polpettone indecoroso, melenso e sciatto, ho fatto l'errore di andare a vederlo non certo attirato dagli occhioni bovini, alquanto strabici ed eternamente lacrimanti di Marion Coccodrillard, un'attrice senza alcun talento la cui presenza sul grande schermo per motivi imperscrutabili è frequente quanto quella del prezzemolo in cucina, esattamente come accade per Sandra Bullock, ma in ricordo dell'esordio col botto alla regia di James Gray con "Little Odessa" giusto vent'anni fa: ma tutte le sue promettenti qualità sembrano essersi dissolte nel nulla da allora a oggi. Questo meló immigratorio racconta una storia scontata di amore e redenzione, incentrata su un'immigrata polacca, Ewa, che all'arrivo negli USA viene separata dalla sorella, malata di tubercolosi, la quale viene isolata e ricoverata in un ospedale di quella specie di ghetto che era Ellis Island, l'equivalente di allora dei CIE, mentre la bella Ewa viene adocchiata e "salvata" da un trafficone ebreo, impersonato dal lombrosiano più che ombroso Joaquin Phoenix, una specie di imbonitore che organizza spettacoli di infimo livello a base di poveracce che poi fa prostituire. Ewa diventa la star di questa specie di circo al femminile ma per lei il pappone nutre un sentimento "speciale", combattuto ma forse autentico, contrastato dalla regolare apparizione, misirizzi in carne e ossa, sul più bello, del cugino Orlando, un illusionista, interpretato da un buffonesco ed irritante Jeremy Renner, la cui funzione nell'esistenza sembra essere quella di rompere le uova nel paniere al parente. L'unico chiodo fisso di Ewa è ottenere di ricongiungersi alla sorella e guadagnare denaro abbastanza per comprarle la libertà e sparire in California per rifarsi una vita: per questo si prostituisce ma con tanto di pentimento al confessionale. Il feuilleton non ci fa mancare nulla: il polacco cattolico, l'ebreo errante e meschino (incredibile che non sia ancora insorta la Anti Defamation League), la puttana redenta, il proibizionismo, l'American Dream, le infide strade di Broccolino (stranamente non appare un paisà in tutto il film, come se New York nel 1921 non pullulasse di immigrati italiani, esattamente come non appaiono neri nella Manhattan di Woody Allen), la corruzione, il pentimento e il riscatto, il tutto su sfondi di cartapesta e un'ambientazione trascurata e posticcia. In tre parole: una cagata pazzesca. E come se non bastasse, la traduzione, come al solito a cazzo, del titolo in italiano, è una parafrasi insultante del capolavoro di Sergio Leone e pertanto un'indecente tentativo di persuasione occulta in cui sono colpevolmente cascato.
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