"La pazza gioia" di Paolo Virzì. Con Micaela Ramazzotti, Valeria Bruni Tedeschi, Valentina Cantarutti, Tommaso Ragno, Bob Messini, Sergio Abelli, Anna Galiena, Marisa Borini, Marco Messeri, Bobo Rondelli. Italia 2016 ★★★★+
Non sono un grande estimatore della commedia come genere cinematografico (l'apprezzo di più a teatro), e di quella italiana in particolare, forse perché un po' mi vergogno di come ci rappresentiamo, ma devo dare atto a Paolo Virzì di migliorare film dopo film, dopo le perplessità iniziali: le pellicole d'esordio, come Ovosodo o Baci e abbracci, le avevo trovate gradevoli ma non mi avevano entusiasmato più di tanto, e l'avevo considerato come un buon mestierante, al livello di Carlo Verdone, per intenderci. Con La prima cosa bella ho cominciato a ricredermi e dopo Il capitale umano ho avuto la conferma che abbiamo a che fare con un artigiano del racconto di valore assoluto e sono felice di dovermi smentire. Con "La pazza gioia" il regista torna in Toscana, non nella natìa ma tra Montecatini e Viareggio, dove in cima a una collina si trova Villa Biondi, una struttura di recupero privata per persone con problemi mentali, tra cui due donne che più diverse non potrebbero essere, speditevi su disposizione del tribunale: una, Beatrice, una contessa mitomane dalla loquela irrefrenabile, quasi renziana ma fortunatamente con accento nordico e senza aspirate, condannata per plurime bancarotte fraudolente, una Valeria Bruni Tedeschi sempre più convincente (in un gustoso cameo, nella parte della madre, la sua madre vera, Marisa Borini); l'altra Donatella, fragile, ragazza-madre tatuata, ex "cubista" in una discoteca, sedotta e abbandonata con un figlio avuto dal fetentissimo datore di lavoro, figlia a sua volta dell'ex pianista di Gino Paoli, un padre totalmente assente, e con una madre-megera che fa la governante a un vecchio generale nell'illusione di ereditarne le sostanze (Anna Galiena, che non guasta mai) e condannata per sequestro e tentativo di omicidio, secondo l'accusa, del figlio dato in adozione, nonché reduce da molteplici tentativi di suicidio, una Micaela Ramazzotti commovente per bravura, che conferma la prestazione de La prima cosa bella, di cui questo film segue in qualche modo le orme. Le due donne, che finiscono per fare amicizia completandosi a vicenda, approfittando di una lacuna nella sorveglianza, invecedi attendere il pullmino che dovrebbe riportarle alla "residenza" prendono al volo un autobus e da lì, non riuscendo a tornare alla base con altri mezzi, si concedono una piccola vacanza dandosi "alla pazza gioia", in una sorta di Thelma & Luoise" in chiave soft, dove vengono svelati i loro trascorsi e i retroscena dei loro cosiddetti disturbi, che altro non sono che la risposta adattativa a realtà troppo dure e volgari per due animi profondamente sensibili come quelli di Beatrice e Donatella, il cui unico vero problema e di essere "nate tristi" in un'Italia radiosamente stupida ed eternamente berlusconiana, come giustamente rileva Goffredo Fofi nella sua recensione. Che condivido in in due punti: l'invito a Virzì di sfrondare e di avere una punta di cattiveria in più magari rinunciando, aggiungo io, alla collaborazione con la cosceneggtaitrice Francesca Archibugi, il cui tocco si vede in alcune derive buoniste che si scorgono qua e là nei dettagli e in alcune scene fortunatamente secondarie, le quali si potrebbero, per l'appunto, tranquillamente tagliare. E ispirandosi a un altro grande toscano, Mario Monicelli. Comunque complimenti per la capacità di Paolo Virzì di unire dramma, farsa, osservazione attenta delle tipologie umane e di come queste si muovono nella realtà, e nella scelta degli interpreti, di cui una ce l'ha in casa ed è sua moglie, Micaela Ramazzotti. Finché si ispira a lei, non sbaglia.
Non sono un grande estimatore della commedia come genere cinematografico (l'apprezzo di più a teatro), e di quella italiana in particolare, forse perché un po' mi vergogno di come ci rappresentiamo, ma devo dare atto a Paolo Virzì di migliorare film dopo film, dopo le perplessità iniziali: le pellicole d'esordio, come Ovosodo o Baci e abbracci, le avevo trovate gradevoli ma non mi avevano entusiasmato più di tanto, e l'avevo considerato come un buon mestierante, al livello di Carlo Verdone, per intenderci. Con La prima cosa bella ho cominciato a ricredermi e dopo Il capitale umano ho avuto la conferma che abbiamo a che fare con un artigiano del racconto di valore assoluto e sono felice di dovermi smentire. Con "La pazza gioia" il regista torna in Toscana, non nella natìa ma tra Montecatini e Viareggio, dove in cima a una collina si trova Villa Biondi, una struttura di recupero privata per persone con problemi mentali, tra cui due donne che più diverse non potrebbero essere, speditevi su disposizione del tribunale: una, Beatrice, una contessa mitomane dalla loquela irrefrenabile, quasi renziana ma fortunatamente con accento nordico e senza aspirate, condannata per plurime bancarotte fraudolente, una Valeria Bruni Tedeschi sempre più convincente (in un gustoso cameo, nella parte della madre, la sua madre vera, Marisa Borini); l'altra Donatella, fragile, ragazza-madre tatuata, ex "cubista" in una discoteca, sedotta e abbandonata con un figlio avuto dal fetentissimo datore di lavoro, figlia a sua volta dell'ex pianista di Gino Paoli, un padre totalmente assente, e con una madre-megera che fa la governante a un vecchio generale nell'illusione di ereditarne le sostanze (Anna Galiena, che non guasta mai) e condannata per sequestro e tentativo di omicidio, secondo l'accusa, del figlio dato in adozione, nonché reduce da molteplici tentativi di suicidio, una Micaela Ramazzotti commovente per bravura, che conferma la prestazione de La prima cosa bella, di cui questo film segue in qualche modo le orme. Le due donne, che finiscono per fare amicizia completandosi a vicenda, approfittando di una lacuna nella sorveglianza, invecedi attendere il pullmino che dovrebbe riportarle alla "residenza" prendono al volo un autobus e da lì, non riuscendo a tornare alla base con altri mezzi, si concedono una piccola vacanza dandosi "alla pazza gioia", in una sorta di Thelma & Luoise" in chiave soft, dove vengono svelati i loro trascorsi e i retroscena dei loro cosiddetti disturbi, che altro non sono che la risposta adattativa a realtà troppo dure e volgari per due animi profondamente sensibili come quelli di Beatrice e Donatella, il cui unico vero problema e di essere "nate tristi" in un'Italia radiosamente stupida ed eternamente berlusconiana, come giustamente rileva Goffredo Fofi nella sua recensione. Che condivido in in due punti: l'invito a Virzì di sfrondare e di avere una punta di cattiveria in più magari rinunciando, aggiungo io, alla collaborazione con la cosceneggtaitrice Francesca Archibugi, il cui tocco si vede in alcune derive buoniste che si scorgono qua e là nei dettagli e in alcune scene fortunatamente secondarie, le quali si potrebbero, per l'appunto, tranquillamente tagliare. E ispirandosi a un altro grande toscano, Mario Monicelli. Comunque complimenti per la capacità di Paolo Virzì di unire dramma, farsa, osservazione attenta delle tipologie umane e di come queste si muovono nella realtà, e nella scelta degli interpreti, di cui una ce l'ha in casa ed è sua moglie, Micaela Ramazzotti. Finché si ispira a lei, non sbaglia.
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