"Il piano di Maggie - A cosa servono gli uomini" (Maggie's Plan) di Rebecca Miller. Con Greta Gerwig, Julianne Moore, Ethan Hawke, Bill Hader, Maya Rudolph, Travis Fimmel, Wallace Shawn, Alex Morf. USA 2015 ★★★
Avevo assegnato 4 delle mie stelline a Frances Ha, primo film in cui avevo visto all'opera Greta Gerwig, un sicuro talento di cui però comincia sorgermi il dubbio che sia in grado di interpretare (magnificamente, questo sì) un unico tipo di personaggio, quello della ragazza per bene, intelligente e un po' goffa (e vestita da cani), ingenua e furbetta al contempo, tipica provinciale di buoni studi alle prese con l'autoreferenziale ambiente intellettuale newyorkese. Per questa pellicola le stelline scendono a tre, perché la commedia della Miller è comunque gradevole e il cast molto ben assortito e affiatato, e vedendola mi sono sì divertito, ma con un sottofondo di crescente irritazione e potrei ripetere le stesse considerazioni fatte per Frances Ha a suo tempo: identica l'ambientazione, urbana e umana, di un film che potrebbe essere di Woody Allen, con ancora più marcata la tendenza alla psicanalizzazione di ogni aspetto dell'esistenza: l'unico vero pregio, al di là delle singole prestazioni attoriali, è di aver messo al centro l'attitudine manipolatoria di Maggie (Gerwig), una giovane insegnante di "arte e management" (qualsiasi cosa questo significhi) che, sentendo attivarsi l'orologio biologico all'alba dei trent'anni, decide di avere un figlio ma ricorrendo all'inseminazione artificiale, conscia di non essere in grado di reggere un rapporto per oltre sei mesi: il donatore è un ex compagno di liceo conosciuto alla lontana, che ora si dedica alla produzione di cetrioli sott'aceto artigianali, ma proprio mentre sta per procedere, fa la conoscenza casuale di un antropologo, collega di facoltà con ambizioni di scrittore, un gigionesco Ethan Hawke, alle prese con un romanzo in eterna elaborazione, padre di due figli e sposato con un'altra antropologa, femminista e pure in carriera, una donna volitiva, cioè quella "che in famiglia porta i pantaloni": una autoironica e strepitosa, lei sì, Julianne. Moore. Scocca la scintilla e Maggie ha un figlio alla maniera naturale da lui, che divorzia dalla moglie e va a vivere con lei. Senonché passano tre anni e Maggie si accorge di non essere più innamorata del partner: abituata com'è, per superare le proprie insicurezze (in più è di origine quacchera e si abbiglia in maniera improbabile di conseguenza), a pianificare nei dettagli la vita propria e altrui, ha finito per diventare lei il punto fermo della famigliola, quella che risolve i problemi ed è sempre disponibile, ma vede uno spiraglio per risolvere la situazione senza assumersi le responsabilità di una scelta, ed elabora un piano, come da titolo, per riportare il marito tra le braccia dell'ex moglie. Non aggiungo altro, perché è la parte divertente del film, salvo avvertire che, trattandosi di una pellicola di stampo talmente Indie (tendenza Sundance Festival, per intenderci), buonista e politicamente corretta che lo Happy End in salsa newyorchese, o meglio ancora broccoliniana, ché è il nuovo quartiere alla moda della intellighentsja locale, è assicurato e tutti vissero felici e contenti. Accattivante la colonna sonora un po' rétro, di rigore in una commedia di questo genere, in una New York magicamente liberata dalla presenza non solo di afroamericani, ma in questo caso perfino di asiatici e latinos come si confà a un film di Woody Allen, pardon: Rebecca Miller, che prevede solo WASP, ebrei e forse qualche cattolico di contorno. Spero per lei che Greta Gerwig si fermi a questo due senza fare il tre e di allontanarsi al più presto dalla "Grande Mela", perché rischia di diventare stucchevole e non solo una simpatica macchietta, per quanto brava.
Avevo assegnato 4 delle mie stelline a Frances Ha, primo film in cui avevo visto all'opera Greta Gerwig, un sicuro talento di cui però comincia sorgermi il dubbio che sia in grado di interpretare (magnificamente, questo sì) un unico tipo di personaggio, quello della ragazza per bene, intelligente e un po' goffa (e vestita da cani), ingenua e furbetta al contempo, tipica provinciale di buoni studi alle prese con l'autoreferenziale ambiente intellettuale newyorkese. Per questa pellicola le stelline scendono a tre, perché la commedia della Miller è comunque gradevole e il cast molto ben assortito e affiatato, e vedendola mi sono sì divertito, ma con un sottofondo di crescente irritazione e potrei ripetere le stesse considerazioni fatte per Frances Ha a suo tempo: identica l'ambientazione, urbana e umana, di un film che potrebbe essere di Woody Allen, con ancora più marcata la tendenza alla psicanalizzazione di ogni aspetto dell'esistenza: l'unico vero pregio, al di là delle singole prestazioni attoriali, è di aver messo al centro l'attitudine manipolatoria di Maggie (Gerwig), una giovane insegnante di "arte e management" (qualsiasi cosa questo significhi) che, sentendo attivarsi l'orologio biologico all'alba dei trent'anni, decide di avere un figlio ma ricorrendo all'inseminazione artificiale, conscia di non essere in grado di reggere un rapporto per oltre sei mesi: il donatore è un ex compagno di liceo conosciuto alla lontana, che ora si dedica alla produzione di cetrioli sott'aceto artigianali, ma proprio mentre sta per procedere, fa la conoscenza casuale di un antropologo, collega di facoltà con ambizioni di scrittore, un gigionesco Ethan Hawke, alle prese con un romanzo in eterna elaborazione, padre di due figli e sposato con un'altra antropologa, femminista e pure in carriera, una donna volitiva, cioè quella "che in famiglia porta i pantaloni": una autoironica e strepitosa, lei sì, Julianne. Moore. Scocca la scintilla e Maggie ha un figlio alla maniera naturale da lui, che divorzia dalla moglie e va a vivere con lei. Senonché passano tre anni e Maggie si accorge di non essere più innamorata del partner: abituata com'è, per superare le proprie insicurezze (in più è di origine quacchera e si abbiglia in maniera improbabile di conseguenza), a pianificare nei dettagli la vita propria e altrui, ha finito per diventare lei il punto fermo della famigliola, quella che risolve i problemi ed è sempre disponibile, ma vede uno spiraglio per risolvere la situazione senza assumersi le responsabilità di una scelta, ed elabora un piano, come da titolo, per riportare il marito tra le braccia dell'ex moglie. Non aggiungo altro, perché è la parte divertente del film, salvo avvertire che, trattandosi di una pellicola di stampo talmente Indie (tendenza Sundance Festival, per intenderci), buonista e politicamente corretta che lo Happy End in salsa newyorchese, o meglio ancora broccoliniana, ché è il nuovo quartiere alla moda della intellighentsja locale, è assicurato e tutti vissero felici e contenti. Accattivante la colonna sonora un po' rétro, di rigore in una commedia di questo genere, in una New York magicamente liberata dalla presenza non solo di afroamericani, ma in questo caso perfino di asiatici e latinos come si confà a un film di Woody Allen, pardon: Rebecca Miller, che prevede solo WASP, ebrei e forse qualche cattolico di contorno. Spero per lei che Greta Gerwig si fermi a questo due senza fare il tre e di allontanarsi al più presto dalla "Grande Mela", perché rischia di diventare stucchevole e non solo una simpatica macchietta, per quanto brava.
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