"In guerra" (En Guerre) di Stéphane Brizé. Con Vincent Lidon, Mélenie Rover, Jacques Borderie, Olivier Lemaire, Bruno Bourthol, David Rey, Isabelle Rufin, Sébastien Lamelle, Valérie Lamonde e altri. Francia 2018 ★★★★★
Massimo dei voti per un film che, nel suo genere (militante? politico? di denuncia? realista?) è esemplare, potente, duro, difficile, indigesto e rimane a "lavorare dentro", e non soltanto per il colpo di scena con cui si conclude: un pugno nello stomaco che ci meritiamo tutti quando, dando credito alle ciance sui populismi, le migrazioni epocali, il dogma della legge del mercato, l'unica ideologia sopravvissuta e vincente su ogni altra visione del mondo e dell'esistenza umana, ci dimentichiamo del tema centrale: il lavoro che viene meno, che grazie alla delocalizzazione, la finanziarizzazione dell'economia e, non ultima, la robotizzazione, sparisce. La telecamera "a spalla" di Stéphane Brizé ci porta all'interno della fabbrica Perrin, con sede ad Agen, in una regione ad alta disoccupazione come la Garonna, specializzata in apparecchiature automobilistiche che fa parte di una multinazionale tedesca, e nelle stanze in cui si svolgono le infuocate assemblee dei lavoratori e in quelle in cui avvengono le estenuanti trattative con la controparte durante un durissimo contenzioso tra i sindacati e l'azienda di cui la proprietà decide unilateralmente la chiusura dei battenti nonostante abbia firmato un accordo che prevedeva il mantenimento della produzione e dei posti di lavoro in cambio di una sostanziosa riduzione di stipendio e di bonus, con aumento della produttività, da parte del personale tutto per cinque anni: dopo due anni l'accordo, per decisione della dirigenza, diventa carta straccia, l'esistenza dei lavoratori sconvolta, minata alla base, nel sostanziale menefreghismo del governo, che dopo aver tergiversato facendo inasprire ancor di più la vertenza, fa finta di appoggiare le loro istanze proponendosi però al più come mediatore, si tira indietro prendendo le distanze non appena la rabbia e il malcontento operaio oltrepassano i "limiti" della stessa legalità, sfociando in aggressioni non solo verbali e incidenti con la polizia, fatta intervenire in assetto antiguerriglia. Come nel precedente e più che egregio La legge del mercato, l'ottimo Stéphane Brizé (che aveva firmato anche un altro bel film, di tutt'altro tipo, Una vita, tratto dall'omonimo romanzo di Guy de Maupassant, a conferma della sua versatilità e bravura) si avvale di un attore eccezionale come Vincent Lidon, perfetto nel dare vita all'irriducibile capo sindacalista Vincent Amédeo, e di altri non professionisti ma altrettanto bravi ed efficaci, smaschera il linguaggio manipolatore dei vertici aziendali e dei politici nonché quello ambiguo dell'informazione, compresa quella che passa dai social media, sottolinea quanto attraverso questo e le tattiche dilatorie che si basano sull'eterno, diabolico schema del divide et impera utilizzato da chi ha il coltello dalla parte del manico, porti all'immancabile, letale contrapposizione tra i lavoratori che si divideranno ancora una volta tra duri e puri, decisi a difendere con il lavoro quella che vedono come l'essenza stessa della loro esistenza, e i "trattativisti", disposti ad arrendersi all'inevitabile (e, nelle condizioni attuali, sempre che si dia per scontata la suprememazia e l'ineluttabilità della legge del mercato così è) in cambio di sostanziose buonuscite. Un film da vedere, qualsiasi siano le convinzioni politiche, per chiunque si renda conto quanto il tema del lavoro e della sua scomparsa e comunque cambio di senso sia cruciale al giorno d'oggi.
Massimo dei voti per un film che, nel suo genere (militante? politico? di denuncia? realista?) è esemplare, potente, duro, difficile, indigesto e rimane a "lavorare dentro", e non soltanto per il colpo di scena con cui si conclude: un pugno nello stomaco che ci meritiamo tutti quando, dando credito alle ciance sui populismi, le migrazioni epocali, il dogma della legge del mercato, l'unica ideologia sopravvissuta e vincente su ogni altra visione del mondo e dell'esistenza umana, ci dimentichiamo del tema centrale: il lavoro che viene meno, che grazie alla delocalizzazione, la finanziarizzazione dell'economia e, non ultima, la robotizzazione, sparisce. La telecamera "a spalla" di Stéphane Brizé ci porta all'interno della fabbrica Perrin, con sede ad Agen, in una regione ad alta disoccupazione come la Garonna, specializzata in apparecchiature automobilistiche che fa parte di una multinazionale tedesca, e nelle stanze in cui si svolgono le infuocate assemblee dei lavoratori e in quelle in cui avvengono le estenuanti trattative con la controparte durante un durissimo contenzioso tra i sindacati e l'azienda di cui la proprietà decide unilateralmente la chiusura dei battenti nonostante abbia firmato un accordo che prevedeva il mantenimento della produzione e dei posti di lavoro in cambio di una sostanziosa riduzione di stipendio e di bonus, con aumento della produttività, da parte del personale tutto per cinque anni: dopo due anni l'accordo, per decisione della dirigenza, diventa carta straccia, l'esistenza dei lavoratori sconvolta, minata alla base, nel sostanziale menefreghismo del governo, che dopo aver tergiversato facendo inasprire ancor di più la vertenza, fa finta di appoggiare le loro istanze proponendosi però al più come mediatore, si tira indietro prendendo le distanze non appena la rabbia e il malcontento operaio oltrepassano i "limiti" della stessa legalità, sfociando in aggressioni non solo verbali e incidenti con la polizia, fatta intervenire in assetto antiguerriglia. Come nel precedente e più che egregio La legge del mercato, l'ottimo Stéphane Brizé (che aveva firmato anche un altro bel film, di tutt'altro tipo, Una vita, tratto dall'omonimo romanzo di Guy de Maupassant, a conferma della sua versatilità e bravura) si avvale di un attore eccezionale come Vincent Lidon, perfetto nel dare vita all'irriducibile capo sindacalista Vincent Amédeo, e di altri non professionisti ma altrettanto bravi ed efficaci, smaschera il linguaggio manipolatore dei vertici aziendali e dei politici nonché quello ambiguo dell'informazione, compresa quella che passa dai social media, sottolinea quanto attraverso questo e le tattiche dilatorie che si basano sull'eterno, diabolico schema del divide et impera utilizzato da chi ha il coltello dalla parte del manico, porti all'immancabile, letale contrapposizione tra i lavoratori che si divideranno ancora una volta tra duri e puri, decisi a difendere con il lavoro quella che vedono come l'essenza stessa della loro esistenza, e i "trattativisti", disposti ad arrendersi all'inevitabile (e, nelle condizioni attuali, sempre che si dia per scontata la suprememazia e l'ineluttabilità della legge del mercato così è) in cambio di sostanziose buonuscite. Un film da vedere, qualsiasi siano le convinzioni politiche, per chiunque si renda conto quanto il tema del lavoro e della sua scomparsa e comunque cambio di senso sia cruciale al giorno d'oggi.
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