mercoledì 28 novembre 2018

Red Land (Rosso Istria)

"Red Land (Rosso Istria)" di Maximiliano Hernando Bruno. Con Selene Gandini, Geraldine Chaplin, Romeo Grebensek, Franco Nero, Sandra Ceccarelli, Eleonora Bolla, Maximiliano Hernando Bruno, Diego Pagotto, Vincenzo Bellini e altri. Italia 2018 ★★★★
Al solito, non riesco a capire la titolazione dei film italiani o in italiano di film stranieri. Che cosa cazzo mi significa Red Land? Non bastava Rosso Istria per una pellicola prodotta e girata in Italia con interpreti italiani (salvo il bravissimo Romeo Gebenscek, sloveno) che racconta una storia italiana? Ah, ecco: una storia italiana ma avvenuta nel lontano NordEst, che da 75 anni viene pervicacemente rimossa, occultata, manipololata a piacere senza mai affrontarla per quello che è stata e in cui, come al solito, ci è andato di mezzo il cittadino comune, ossia chi ha subito le conseguenze di quanto deciso altrove e in più alte, inarrivabili sfere. Che è poi la storia dell'umanità, e non dal  punto di vista del potere: in questo caso quella degli accadimenti che precedettero l'esodo degli italiani d'Istria e Dalmazia, un caso di vera e propria pulizia etnica che si sarebbe concluso nel 1954, in contemporanea con l'assegnazione definitiva della Zona A del Territorio Libero di Trieste all'Italia. I prodromi dell'esodo nell'estate del 1943, tra la caduta di Mussolini e l'8 Settembre, con lo sbandamento dell'esercito italiano lasciato senza comandi dai suoi vertici e dai Savoia fuggitivi, insomma, e in particolare, vi si racconta la tragica vicenda di Nora Cossetto, giovane studentessa universitaria di Visinada, in Istria, prima stuprata e poi infoibata, vittima simbolica della prima ondata di esecuzioni da parte dei partigiani titini, che non coinvolsero soltanto militari ed esponenti del regime fascista, ma anche e soprattutto i civili italiani, compresi quelli antifascisti e perfino alcuni comunisti non allineati, e pure quegli slavi che simpatizzavano con gli italiani non per motivi politici, ma perché ci convivano pacificamente da centinaia di anni, prima che le smanie nazionaliste prendessero il sopravvento. A pensarci bene, prima dello scoppio della Grande Guerra, quando entrambe le etnie (e ve ne erano un'altra decina) convivevano pacificamente nell'Impero Austroungarico. Per raccontare questa storia negletta ci è voluto un regista e attore (e qui anche sceneggiatore) argentino, per quanto di origini italiane: uno nostrano difficilmente avrebbe avuto il coraggio di andare contro l'onda da sempre dominante nell'universo cinematografaro concentrato nella Capitale (che da queste parti risulta molto più lontana di Vienna e lo è, anche geograficamente: ma è una cosa che non si deve dire), da sempre complice o succube del luogocomunismo de sinistra; e non stupisce nemmeno che siano vergognosamente poche le sale in cui viene proiettato (40 in tutta Italia nella seconda settimana) e magari a orari assurdi come a Udine, nel primissimo pomeriggio e dopo le 21: quasi un boicottaggio; e così, per protesta, sono andato a vederlo ieri a Trieste, città che più di ogni altra ha avuto un ruolo in quelle tristi vicende, per di più al Cinema Nazionale, così se qualche cretino vuole darmi anche del fascista, se ci tiene, faccia pure. Forse qualcuno avrà voluto leggere in quel "Rosso Istria" (da mettere tra parentesi) un riferimento troppo esplicito alle malefatte dei partigiani jugoslavi e alle complicità dei comunisti locali (su istruzioni del Migliore, il compagno Palmiro Togliatti, il braccio destro di Stalin per i repulisti a livello internazionale, vedi Guerra di Spagna), e invece si tratta del titolo della tesi di laurea, riferito al colore che la terra ha in Istria, dovuto alla massiccia presenza di bauxite, che Norma Cossetto, studentessa di lettere e filosofia all'Università di Padova, stava preparando, con l'aiuto del professor Ambrosin, altro personaggio di spicco del film interpretato da Franco Nero, l'intellettuale del posto (siamo a Visinada, nell'Istria Occidentale, tra Pirano e Parenzo) a cui i giovani italiani, fascisti e no, facevano riferimento. Norma era sì figlia del podestà locale, peraltro in quel periodo a Trieste, a cercare di capirre istruzioni sul da farsi che nessuno si prendeva la responsabilità di dare, ma nulla più; così come non c'entravano coi fascisti la maggior parte degli infoibati di quella tornata: il film ne racconta la storia inquadrandola nelle sue relazioni famigliari e di amicizia, rendendo vivo, a quasi ottant'anni di distanza, un intero ambiente e una realtà che appare oggi remota: ci sono gli amici antifascisti, a cominciare dall'amica del cuore, disposta perfino a tradirla; c'è il disertore, peraltro un ex spasimante (la componente mélo non poteva mancare); c'è il prete del paese; ci sono i carabinieri; ci sono i coloni, slavi e italiani; ci sono i partigiani titini, forse eccessivamente tratteggiati come i malvagi della situazione, ma chi ha voluto vedere un film politicamente schierato è decisamente in malafede e pure dotato di una ragguardevole coda di paglia, perché il regista non nasconde, le cause di tanta furia anti-italiana da parte dei seguaci di Tito, gli slavi emarginati a loro volta e brutalizzati dall'italianizzazione forzata voluta dal regime fascista, peraltro comune a quella tentata in Sud Tirolo, e questo la dice lunga sulla politica della "madre patria" nei confronti delle popolazioni che abitavano le cosiddette "terre redente", così come sottolinea l'ignominia delle alte sfere militari e di Casa Savoia nonché la codardia dei caporioni fascisti. Chi paga il prezzo maggiore, anche nel film, non è alla fine chi è schierato in un senso o nell'altro, ma proprio chi non c'entra o chi più chiaramente ha capito che la bestialità senza controllo viene puntualmente scatenata da quelle ideologie che spregiano l'umanesimo, a cominciare da quelle nazionaliste, come il professore a suo tempo soldato nella Prima Guerra Mondiale; l'antifascista non comunista; l'amico e disertore che rimane nel dubbio. Inevitabilmente mi è venuto da pensare a ciò che diceva, mai abbastanza ascoltato l'indimenticato Fulvio Tomizza, nato proprio da quelle parti, sempre troppo italiano per gli jugoslavi e troppo slavo per gli italiani; uno comunista per i fascisti di qua e borghese per quelli di à. Due ore e mezzo in un film ben girato e ambientato alla perfezione, che ha il difetto dei essere di taglio un po' troppo televisivo, ma glielo perdono volentieri per il senso generale che vuol comunicare, affrontando un tema finora tabù nel nostro cinema oltre a cercare di oliare la memoria di un Paese che, se non sa nemmeno di preciso dove si collochi e che storia abbia il Friuli, figurarsi l'Istria o la Dalmazia, salvo andarci in vacanza d'estate (e solo i migliori lo fanno). 

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