"Fai bei sogni" di Marco Bellocchio. Con Valerio Mastandrea, Bérénice Bejo, Nicolò Cabras, Guido Caprino, Barbara Ronchi, Fabrizio Gifuni, Roberto Herlitzka, Cinzia Leone e altri. Italia, Francia 2016 ★★★★★
Come avevo già ammesso e scritto in un'altra occasione, non sono obiettivo nei confronti di Marco Bellocchio che considero come qualcosa di più di un maestro: una sorta di fratello maggiore dalle affinità elettive, e così ho deciso di lasciare trascorrere qualche giorno dalla visione del film, venerdì scorso, lasciando sedimentare le impressioni ed emozioni che devono essere state particolarmente intense se, la mattina successiva, mi sono svegliato con la certezza di averlo ripercorso in sogno. A quattro giorni di distanza, non ho alcuna esitazione nell'affermare che, a mio parere, siamo di fronte a un capolavoro. Com'è noto il film si ispira, rimanendogli piuttosto fedele, al best seller dal medesimo titolo di Massimo Garamellini in cui il noto giornalista racconta in forma autobiografica e sicuramente liberatoria di come abbia vissuto la traumatica scomparsa della propria amatissima madre all'età di nove anni scoprendone il motivo, un suicidio nato dalla convinzione dell'inefficacia delle cure per un tumore di cui era affetta, nascostogli da tutto l'ambiente famigliare e scolastico da cui era circondato, soltanto nella maturità, quando era ormai un giornalista affermato, passato dalla gavetta nei quotidiani sportivi a occuparsi di politica, poi di guerra come inviato nella Sarajevo sotto assedio e infine rientrato nella natìa Torino. Tutto questo Bellocchio lo racconta non in sequenza, come nel romanzo, che ha un andamento quasi da noir, addolcito da una lieve ironia sottostante, ma cambiando completamente registro. In un'alternanza di flash back dei primi anni Settanta col periodo della scoperta di una verità negata dagli adulti di un tempo trent'anni dopo, e con gli altri momenti delle tappe più significative della vita e del percorso umano del protagonista, Massimo, legate dal filo rosso costituito dal senso profondo di perdita e da un dolore inconsolabile coniugato a quello di incredulità e straniamento di fronte all'improvviso abbandono "senza saluto" da parte della madre e del comportamento del prossimo nei suoi confronti. La grandezza di Bellocchio è quella di aver preso spunto da un racconto sincero, doloroso, ma tutto sommato lineare, parafrasandolo pur rimanendogli fedele, trasformandolo in un film rigoroso, privo della benché minima concessione al melodramma o al taglio da serie televisiva, ricco di simboli e riferimenti metaforici sì, ma non astrusi e cervellotici bensì perfettamente comprensibili e profondi, che scavano dentro. Forse più suggestiva la parte rétro, col Massimo ragazzino interpretato dal delizioso Nicolò Cabras (non è nuova la capacità di Bellocchio di far recitare dei bambini: e per farlo bisogna avere ai loro occhi una credibilità assoluta) mentre Barbara Ronchi, nella parte della madre, è di una bravura struggente; ma altrettanto potente quella più contemporanea, in cui nel suo ruolo da adulto si conferma ancora una volta Valerio Mastandrea: la scena in cui è colto dal suo primo attacco di panico è magistrale e impressionante pur nella sua compostezza (soprattutto per chi come me ci è passato), d'altronde la bravura di un regista si misura anche dalla scelta degli attori, accuratissima e calibrata altresì per una serie di camei di rara efficacia, destinati a rimanere nella memoria: quello di Roberto Herlitzka nei panni di un prete che insegna astronomia ai suoi giovani allievi; quello di Fabrizio Gifuni nelle vesti di un finanziere coinvolto in Tangentopoli negli anni Novanta di cui Massimo raccoglie le "confessioni" in un'ultima intervista informale e di cui assiste al suicidio senza vederlo, in una stanza accanto, quando viene tratto in arresto; quello ancora di Pier Giorgio Bellocchio (figlio di Marco) che interpreta un fotografo che lo accompagna tra le macerie di Sarajevo assediata in una serie di sequenze quasi mute, dove a parlare sono le immagini, sia quelle in movimento del regista piacentino, sia quelle fissate dal fotoreporter: raffinatezze ma mai intellettualismi. In Fai bei sogni ricorrono tutte le tematiche care a Bellocchio: famiglia, potere, corruzione, perbenismo, religione, ruolo della donna, senso di colpa e, sempre presente, e non è un gioco di parole, quello dell'assenza. Un film magnifico, emotivamente coinvolgente, che colpisce così in profondità da portare a immedesimarsi in uno o nell'altro dei personaggi o a rivivere delle situazioni: da non perdere per chi ama davvero un cinema di alto livello ma comprensibile a chiunque.
Come avevo già ammesso e scritto in un'altra occasione, non sono obiettivo nei confronti di Marco Bellocchio che considero come qualcosa di più di un maestro: una sorta di fratello maggiore dalle affinità elettive, e così ho deciso di lasciare trascorrere qualche giorno dalla visione del film, venerdì scorso, lasciando sedimentare le impressioni ed emozioni che devono essere state particolarmente intense se, la mattina successiva, mi sono svegliato con la certezza di averlo ripercorso in sogno. A quattro giorni di distanza, non ho alcuna esitazione nell'affermare che, a mio parere, siamo di fronte a un capolavoro. Com'è noto il film si ispira, rimanendogli piuttosto fedele, al best seller dal medesimo titolo di Massimo Garamellini in cui il noto giornalista racconta in forma autobiografica e sicuramente liberatoria di come abbia vissuto la traumatica scomparsa della propria amatissima madre all'età di nove anni scoprendone il motivo, un suicidio nato dalla convinzione dell'inefficacia delle cure per un tumore di cui era affetta, nascostogli da tutto l'ambiente famigliare e scolastico da cui era circondato, soltanto nella maturità, quando era ormai un giornalista affermato, passato dalla gavetta nei quotidiani sportivi a occuparsi di politica, poi di guerra come inviato nella Sarajevo sotto assedio e infine rientrato nella natìa Torino. Tutto questo Bellocchio lo racconta non in sequenza, come nel romanzo, che ha un andamento quasi da noir, addolcito da una lieve ironia sottostante, ma cambiando completamente registro. In un'alternanza di flash back dei primi anni Settanta col periodo della scoperta di una verità negata dagli adulti di un tempo trent'anni dopo, e con gli altri momenti delle tappe più significative della vita e del percorso umano del protagonista, Massimo, legate dal filo rosso costituito dal senso profondo di perdita e da un dolore inconsolabile coniugato a quello di incredulità e straniamento di fronte all'improvviso abbandono "senza saluto" da parte della madre e del comportamento del prossimo nei suoi confronti. La grandezza di Bellocchio è quella di aver preso spunto da un racconto sincero, doloroso, ma tutto sommato lineare, parafrasandolo pur rimanendogli fedele, trasformandolo in un film rigoroso, privo della benché minima concessione al melodramma o al taglio da serie televisiva, ricco di simboli e riferimenti metaforici sì, ma non astrusi e cervellotici bensì perfettamente comprensibili e profondi, che scavano dentro. Forse più suggestiva la parte rétro, col Massimo ragazzino interpretato dal delizioso Nicolò Cabras (non è nuova la capacità di Bellocchio di far recitare dei bambini: e per farlo bisogna avere ai loro occhi una credibilità assoluta) mentre Barbara Ronchi, nella parte della madre, è di una bravura struggente; ma altrettanto potente quella più contemporanea, in cui nel suo ruolo da adulto si conferma ancora una volta Valerio Mastandrea: la scena in cui è colto dal suo primo attacco di panico è magistrale e impressionante pur nella sua compostezza (soprattutto per chi come me ci è passato), d'altronde la bravura di un regista si misura anche dalla scelta degli attori, accuratissima e calibrata altresì per una serie di camei di rara efficacia, destinati a rimanere nella memoria: quello di Roberto Herlitzka nei panni di un prete che insegna astronomia ai suoi giovani allievi; quello di Fabrizio Gifuni nelle vesti di un finanziere coinvolto in Tangentopoli negli anni Novanta di cui Massimo raccoglie le "confessioni" in un'ultima intervista informale e di cui assiste al suicidio senza vederlo, in una stanza accanto, quando viene tratto in arresto; quello ancora di Pier Giorgio Bellocchio (figlio di Marco) che interpreta un fotografo che lo accompagna tra le macerie di Sarajevo assediata in una serie di sequenze quasi mute, dove a parlare sono le immagini, sia quelle in movimento del regista piacentino, sia quelle fissate dal fotoreporter: raffinatezze ma mai intellettualismi. In Fai bei sogni ricorrono tutte le tematiche care a Bellocchio: famiglia, potere, corruzione, perbenismo, religione, ruolo della donna, senso di colpa e, sempre presente, e non è un gioco di parole, quello dell'assenza. Un film magnifico, emotivamente coinvolgente, che colpisce così in profondità da portare a immedesimarsi in uno o nell'altro dei personaggi o a rivivere delle situazioni: da non perdere per chi ama davvero un cinema di alto livello ma comprensibile a chiunque.
Nessun commento:
Posta un commento