"La ragazza senza nome" (La fille inconnue) di Jean Pierre e Luc Dardenne. Con Adèle Haenel, Jérémy Renier, Olivier Gourmet, Fabrizio Rongione,Thomas Doret, Christelle Cornil. Belgio 2016 ★★
A meno di non essere masochisti, o in preda a un impellente desiderio di espiazione da una qualche colpa che sicuramente abbiamo (questa la visione dei due cineasti belgi) è bene frapporre un discreto lasso di tempo fra un film e l'altro dei fratelli Dardenne o, come faccio io, vederne alternativamente uno sì e uno no. E' venuto il turno del sì, e la coppia non si smentisce: il tema centrale è sempre la colpa che ognuno di noi si porta dietro. Con il suo corollario per alleggerire il fardello: la confessione. Laica e non cattolica nel caso dei Dardenne, ma sempre lì siamo. Il mondo è una valle di lacrime, si sa; le periferie belghe, nella fattispecie quella di Liegi, particolarmente squallide; l'umanità che vi si trova a trascorrervi l'esistenza, irrimediabilmente infelice: stavolta, nel tentativo di rendere un po' più frizzante (si fa per dire) la desolante vicenda, raccontata con l'immancabile rigore fin troppo realista (ma non per questo rendendola del tutto verosimile), le hanno fornito un impianto noir ma la martellata sugli zebedei arriva puntuale, inesorabile comunque, con la collaborazione di tutti gli interpreti, a cominciare da Adèle Haenel, attrice incapace di trasmettere una qualsiasi empatia, nei panni di Jenny Davin, un giovane medico condotto. Una sera, molto oltre l'orario di chiusura dell'ambulatorio, ordina al suo tirocinante (che anche per i Dardenne, pur orgogliosi francofoni, è diventato uno stagista: segno dei tempi) di non aprire quando qualcuno suona alla porta. Il giorno dopo, quando la polizia le chiede di visionare il filmato della videocamera di sorveglianza dello studio perché è stato trovato senza documenti il cadavere di una giovane donna di colore, scopre che si tratta della persona che non aveva fatto entrare. Scatta immancabile il senso di colpa: per alleviarlo, da un lato Jenny rinuncia a un incarico di prestigio nell'ospedale più importante della città e decide di rimanere nella sua condotta, dall'altro si lancia in un'indagine parallela alla polizia, incurante di intralciare quest'ultima, pur di dare un nome alla ragazza. Lodevole l'intento dei Dardenne di ricordarci che l'altro da noi ha diritto a essere riconosciuto nella sua identità ma, come dicevo sopra, fulcro del film rimane l'accoppiata colpa-confessione. Tutti senza eccezione i personaggi del film hanno un lato sordido che nascondono e che viene alla luce nel corso dell'indagine di Jenny che porta all'identificazione della ragazza morta, a cominciare dalla dottoressa, e ognuno, a modo suo, prova a liberarsene tramite la sua ammissione: lo fa lei, lo fa il tirocinante Julien che prima rinuncia a proseguire gli studi e poi si ravvede, lo fa un ragazzo testimone recalcitrante, lo fanno i genitori di quest'ultimo, lo fa perfino la sorella della vittima che, in un primo momento aveva finto di non riconoscere la vittima in una foto che le veniva mostrata. Il film ha senz'altro un suo perché e delle ottime intenzioni, ciò non toglie che risulta sconclusionato, poco comunicativo, lugubre, senza speranza. Realista, forse: ma poco coinvolgente, nonostante tutto. Non stupisce che i Dardenne siano molto apprezzati in Francia e dalla critica militante nonché adeguatamente premiati ai vari festival: questione di gusti.
A meno di non essere masochisti, o in preda a un impellente desiderio di espiazione da una qualche colpa che sicuramente abbiamo (questa la visione dei due cineasti belgi) è bene frapporre un discreto lasso di tempo fra un film e l'altro dei fratelli Dardenne o, come faccio io, vederne alternativamente uno sì e uno no. E' venuto il turno del sì, e la coppia non si smentisce: il tema centrale è sempre la colpa che ognuno di noi si porta dietro. Con il suo corollario per alleggerire il fardello: la confessione. Laica e non cattolica nel caso dei Dardenne, ma sempre lì siamo. Il mondo è una valle di lacrime, si sa; le periferie belghe, nella fattispecie quella di Liegi, particolarmente squallide; l'umanità che vi si trova a trascorrervi l'esistenza, irrimediabilmente infelice: stavolta, nel tentativo di rendere un po' più frizzante (si fa per dire) la desolante vicenda, raccontata con l'immancabile rigore fin troppo realista (ma non per questo rendendola del tutto verosimile), le hanno fornito un impianto noir ma la martellata sugli zebedei arriva puntuale, inesorabile comunque, con la collaborazione di tutti gli interpreti, a cominciare da Adèle Haenel, attrice incapace di trasmettere una qualsiasi empatia, nei panni di Jenny Davin, un giovane medico condotto. Una sera, molto oltre l'orario di chiusura dell'ambulatorio, ordina al suo tirocinante (che anche per i Dardenne, pur orgogliosi francofoni, è diventato uno stagista: segno dei tempi) di non aprire quando qualcuno suona alla porta. Il giorno dopo, quando la polizia le chiede di visionare il filmato della videocamera di sorveglianza dello studio perché è stato trovato senza documenti il cadavere di una giovane donna di colore, scopre che si tratta della persona che non aveva fatto entrare. Scatta immancabile il senso di colpa: per alleviarlo, da un lato Jenny rinuncia a un incarico di prestigio nell'ospedale più importante della città e decide di rimanere nella sua condotta, dall'altro si lancia in un'indagine parallela alla polizia, incurante di intralciare quest'ultima, pur di dare un nome alla ragazza. Lodevole l'intento dei Dardenne di ricordarci che l'altro da noi ha diritto a essere riconosciuto nella sua identità ma, come dicevo sopra, fulcro del film rimane l'accoppiata colpa-confessione. Tutti senza eccezione i personaggi del film hanno un lato sordido che nascondono e che viene alla luce nel corso dell'indagine di Jenny che porta all'identificazione della ragazza morta, a cominciare dalla dottoressa, e ognuno, a modo suo, prova a liberarsene tramite la sua ammissione: lo fa lei, lo fa il tirocinante Julien che prima rinuncia a proseguire gli studi e poi si ravvede, lo fa un ragazzo testimone recalcitrante, lo fanno i genitori di quest'ultimo, lo fa perfino la sorella della vittima che, in un primo momento aveva finto di non riconoscere la vittima in una foto che le veniva mostrata. Il film ha senz'altro un suo perché e delle ottime intenzioni, ciò non toglie che risulta sconclusionato, poco comunicativo, lugubre, senza speranza. Realista, forse: ma poco coinvolgente, nonostante tutto. Non stupisce che i Dardenne siano molto apprezzati in Francia e dalla critica militante nonché adeguatamente premiati ai vari festival: questione di gusti.
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