lunedì 12 ottobre 2020

Lacci

 

"Lacci" di Daniele Luchetti. Con Luigi Lo Cascio, Alba Rohrwacher, Silvio Orlando, Laura Morante, Adriano Giannini, Giovanna Mezzogiorno, Linda Caridi e altri. Italia 2020 ★★★★+

Concludo la carrellata dei film italiani presentati all'ultima Mostra del Cinema di Venezia con quello che ha aperto la manifestazione ma non era in concorso. Sarebbe banale e riduttivo affermare che sia il migliore assieme a Le sorelle Macaluso (per molti troppo teatrale) e Notturno (che è un documentario): semplicemente Daniele Luchetti, Emma Dante e Gianfranco Rosi sono  registi di un'altra categoria rispetto ai loro più giovani e velleitari colleghi Giorgia Farina, Claudio Noce e Susanna Nicchiarelli, in ordine di stroncatura, che farebbero bene a imparare dai loro ben più strutturati colleghi. La differenza, a prescindere da motivazioni tecniche, dall'esperienza e dalla bravura, perfino dai gusti personali, balza immediatamente all'occhio: i primi tre hanno le idee chiare su cosa vogliono dire e fare, i secondi per niente, ragion per cui i loro film risultano confusi, contraddittori, affastellati, irrisolti, noiosi. In una parola: inutili. Qui Luchetti è alle prese con la storia di una coppia vista in due fasi diverse della propria esistenza: che va in crisi, all'inizio degli anni Ottanta, con due figli da crescere e all'inizio della rispettiva vita professionale, e al giorno d'oggi, tornata assieme dopo una lunga e lacerante separazione. A tenerla assieme nonostante tutto, con tanto di rancori, sensi di colpa, rimpianti, sono per l'appunto i lacci del titolo, ossia i legami anche invisibili, odio compreso, che tengono insieme i rapporti anche più deteriorati, e che tengono avvolti per primi i figli, che ne subiscono le conseguenze, spesso traumatiche. Una storia semplice, i cui meccanismi vengono raccontati sapientemente più con i gesti e le espressioni che con le parole: del resto meno si dice, in un rapporto, e meglio è, afferma Aldo, il protagonista maschile, che da anziano critico e giornalista, rientrato in famiglia, è interpretato da Silvio Orlando, mentre da giovane, redattore culturale radiofonico, è impersonato da Luigi Lo Cascio che, durante le trasferte a Roma, da Napoli dove vive con moglie e i due figli, si innamorerà della solare collega Lidia (Linda Caridi), e farà l'errore di confessarlo alla moglie Vanda (Alba Rohrwacher da giovane e Laura Morante attualmente), subendone i ricatti affettivi e le ritorsioni. Anche per sua colpa: che se è sincero con la moglie come con l'amante, non lo è altrettanto con sé stesso, e rimane vittima della sua irresolutezza. Ben più decisa nell'accampare le sue ragioni Vanda, anche se nemmeno a lei, a parte i figli, è chiaro del perché e del per cosa, essendo palesemente non innamorata del marito ma vittima, appunto, dei "lacci", delle questioni di principio e delle promesse fatte, anche se impossibili da mantenere, e che non esiterà di ricorrere all'arma del tentato suicidio. Che funzionerà, rovinando la vita a entrambi e soprattutto ai figli, Anna e Sandro (Giovanna Mezzogiorno e Adriano Giannini), che alla situazione che li ha segnati per sempre hanno reagito in modo opposto ed entreranno in scena nell'ultima parte del film, che non svelo per quanto è liberatoria e rende loro giustizia: Luchetti ha pure trovato il modo di inserire un elemento "giallo" che verrà svelato proprio all'ultimo. In 100', senza ammorbare nessuno, in maniera esemplare e grazie a un uso esemplare della dimensione temporale (vero, Farina?) anche in modalità porte scorrevoli, per così dire; un'ambientazione davvero attenta e precisa (vero, Noce?) e chiarezza di propositi, scevra da ideologismi, che non giudica ma lascia che sia lo spettatore a farlo, se vuole (vero, Nicchiarelli?). Lo scopo era quello di far riflettere raccontando una storia esemplare e verosimile su quali sono alcuni dei tarli più comuni che minano le relazioni di coppia e di una "istituzione", come la famiglia, che ha cambiato faccia sotto i nostri occhi nell'ultimo mezzo secolo: Luchetti, basandosi sull'omonimo romanzo di Domenico Starnone, che ha pure curato la sceneggiatura assieme a Francesco Piccolo (e si vede) ci riesce benissimo, il tutto in poco più di un'ora e mezzo, senza abusare della pazienza dello spettatore e senza annoiarlo. Complimenti a lui e a tutti gli interpreti. 

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