"Un divano a Tunisi" (Un divan a Tunis) di Manele Labidi Labbé. Con Golshifteh Farahani, Majd Mastoura Mastoura, Aisha Ben Miled, Feryel Chammari, Hichem Yacoubi, Ramla Ayaru Anjegui e altri. Francia 2019 ★★½
Temevo una commediola alla francese, tutta smorfie e logorrea a gogò, e invece sono stato piacevolmente risparmiato: di transalpino il film ha poco, a parte la cittadinanza della regista e sceneggiatrice e di Selma, una psicanalista sulle trentina (Golshifteh Farahani, che invece è iraniana), entrambe di origine tunisina ed entrambe alla ricerca delle proprie radici: Labidi Labbé lo fa precipitando la protagonista nella realtà quotidiana di quella capitale maghrebina, non tanto diversa da quella della dirimpettaia Sicilia, nei panorami e nell'edilizia ma anche nel modo di vivere e di pensare. Una scelta, quella di Selma, di lasciare Parigi per aprire uno studio sulla terrazza della casa di famiglia (i genitori, che si presumono oppositori politici, sono rimasti in Francia), che nessuno comprende: innanzitutto perché tutti vorrebbero lasciare la Tunisia, e poi perché, avendo un unico dio a cui riferirsi, non si capisce perché dovrebbero parlare delle loro faccende a un'estranea e invece, tra curiosità per la novità e il bisogno di comunicare, si trova presto la fila di clienti fuori dalla porta. I tipi più strani: dalla proprietaria di un salone di bellezza, scettica all'inizio ma che rivela problemi irrisolti con la madre, a un fornaio che sogna ossessivamente di baciare esclusivamente dittatori arabi e va in crisi quando gli appare Putin: finisce per accettare la sua passione per il travestitismo; un imam lasciato dalla moglie ed espulso dalla sua moschea dai fanatici salafiti perché non porta la barba e non è abbastanza determinato e cade in depressione; ma anche il parentado di Selma non scherza: dallo zio che prima la osteggia a poi ammette il suo alcolismo, determinato anche dalla incertezze che la situazione politica proietta sul futuro del Paese: una argomento, questo, che corre sotto traccia e risulta poco comprensibile a un pubblico che non conosce la storia recente della Tunisia (più di un riferimento va alla situazione creatasi dopo la caduta del regine di Ben Alí in seguito alle proteste che nel 2010 dettero il là al fenomeno giornalisticamente battezzato Primavera Araba); la cuginetta ribelle che ha la geniale idea di sposare, con rito tradizionale, un ragazzo gay dotato di passaporto francese con il quale l'accordo è quello di trasferirsi in Europa e vivere la loro diversa sessualità senza intralciarsi, cosa che scandalizza e mette in discussione anche i principi della disinibita e anticonformista Selma, tradendo il suo moralismo, e che a sua volta trova si trova a peccare di superficialità e ingenuità nel non prevedere i prevedibili ostacoli di una burocrazia pasticciona cialtrona che è chiamata a far rispettare le regole e le leggi che pure esistono anche in un "buco" come la Tunisia, e non solo nell'"evoluta" Francia. La prima parte del film è scoppiettante, arguta, divertente, ma nell'ultima mezz'ora il ritmo si affloscia, il racconto si ingarbuglia e finisce per impantanarsi, a meno che non sia un effetto voluto a sottolineare la schizofrenia e il clima sospeso e confuso che aleggia sia sulla società tunisina nel suo complesso sia nei singoli cittadini. Comunque uno scorcio interessante su una realtà tanto vicina quanto poco conosciuta, discrete le interpretazioni (l'imam ricorda incredibilmente Peter Sellers), un film leggero ma non troppo: peccato che si perda nel finale.
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