"L'arbitro" di Paolo Zucca. Con Stefano Accorsi, Jacopo Cullin, Geppi Cucciari, Benito Urgu, Alessio di Clemente, Marco Messeri, Francesco Pannofino, Quirico Manunza e altri, tutti bravissimi. Italia, Argentina 2013. ★★★★★
"Il calcio ha le sue ragioni misteriose che la ragione non conosce", ebbe a scrivere Osvaldo Soriano, ed è il grande giornalista e scrittore argentino assai prematuramente scomparso che viene subito in mente vedendo questo piccolo grande film che parla sì di calcio (da sempre metafora della vita nonché "l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo", come diceva Pier Paolo Pasolini), ma anche di una Sardegna al contempo mitica e astratta però estremamente concreta, dei suoi uomini e delle sue donne, del loro orgoglio e della loro immensa dignità e umanità, e lo fa narrando in parallelo le vicende della rivalità tra due squadre della terza divisione sarda e quella di Cruciani, "rampante" arbitro internazionale in odore di designazione per una finale di coppa europea, precipitato dalle stelle alle stalle (la terza divisione sarda, per l'appunto) per una vicenda di corruzione in cui viene invischiato più per dabbenaggine e smisurata ambizione che per avidità di danaro. Il lungometraggio è l'espansione di un "corto" omonimo dello stesso Paolo Zucca vincitore del David di Donatello per la categoria nel 2009 e che qui viene ampliato fino a diventare un film completo, in cui si intrecciano generi e storie, dal grottesco, all'epico, al religioso, al romantico, fino alla faida pastorale tra parenti (due cugini che giocano nella stessa squadra), questo nelle vicende "barbaricine" che coinvolgono la rivalità ancestrale tra il Montecrastu, compagine diretta da Brai, un latifondista borioso e arrogante il cui scopo nell'esistenza sembra essere quello di umiliare i "peones" del Pabarile che lavorano al suo servizio, giocatori della squadra più scalcagnata del girone, guidata in panchina da Prospero (Benito Urgu, superbo): un cieco, però filosofo e che sa di calcio. Questa la "linea sarda" mentre le sorti di Cruciani (uno Stefano Accorsi sempre più convincente) sono seguite tra spogliatoi, camere d'albergo, riti propiziatori, balletti in solitario a ritmo di swing e a favore di specchio di questo narciso effeminato, abboccamenti con alti funzionari della Federazione Internazionale, fino a quando non viene fottuto dalla sua stessa vanità e inconsistenza. Le sorti del Pabarile però si invertono col ritorno al paese dall'Argentina di Matziztu (uno Jacopo Cullin perfetto nel ruolo, una via di mezzo tra Pietro Paolo Virdis, indimenticato campione del Cagliari, dell'Udinese e del Milan, e Socrates, per chi lo ricorda), figlio di "Sventura", che era andato nella Pampa nella speranza di svoltare e far fortuna, e le cui ossa sono rimaste lì. Sfigato come il padre, ma che in Argentina ha imparato a "pensare con i piedi" (cfr sempre Soriano), entra nella formazione e ne prende in mano (pardon: nei piedi) le redini cambiandone quindi le sorti a suon di gol (ogni goal è sempre un'invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica - P.P. Pasolini, 1971) fino a giocarsi il campionato all'ultima partita con gli odiati rivali. I pabarilesi perdono sul campo perché un dirigente del Montecrastu, all'insaputa di Brai, convince l'arbitro designato, un ex commilitone, l'ottimo Pannofino, a stravolgere l'incontro (viene immediatamente e pretestuosamente espulso Matzuzti, annullate diverse reti valide al Pabarile, concessi rigori inesistenti al Montecrastu), ma vincono moralmente e non solo: Brai, a suo modo sportivo, accetta di giocarsi il campionato in una "bella" che verrà arbitrata proprio da Cruciani, che ricomincia da un campo polveroso, pieno di pietre, che si raggiunge attraversando un cimitero, la sua carriera. Come accennato non manca tra i vari filoni la storia d'amore, che si dipana tra le le timidezze di Matzutzi in formato Peynet e Miranda, figlia di Prospero e titolare del negozio del paese, l'indomabile bisbetica interpretata alla grande da Geppi Cucciari che fa finta di non ricordarsi del ragazzino con cui andava alle elementari e che abitava di fronte a casa sua, lo tiene eternamente sulle spine salvo innamorarsene ma non volerlo ammettere. Non stupisce che si tratti di una coproduzione italo-argentina: non dubito che una storia surrealisticamente... concreta e terragna, in un Paese in cui il futbol, e non quello delle massime categorie celebrato in TV e sulle pagine sportive dei quotidiani ma quello che si gioca nei cortili, nelle strade, nei campetti di periferia, è la vera religione di tutti (e come tale sopravvive anche da noi, anche se nessuno ne parla), sarà apprezzato come merita, e una Sardegna che sembra una Patagonia infinita farà respirare aria di casa. Oltre che raccontare una vicenda inconsueta, fantasiosa ma che sta in piedi, "L'arbitro" è girato in un bianco e nero sontuoso, corredato da una fotografia magistrale e sorretto da una sceneggiatura che funziona come un cronografo. Avercene, di film così.
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