"Il diritto di opporsi" (Just Mercy) di Destin Daniel Cretton. Con Michael B. Jordan, Jamie Foxx, Brie Larson, O' Shea Jackson, Tim Blake Nelson, Lindsay Ayliffe, Rob Morgan e altri. USA 2019 ★★-
Benché tratto da una storia vera, e il soggetto basato sul libro Just Mercy: a story of justice and redemption che rende molto più efficacemente l'idea del solito titolo astruso e fuorviante all'italiana, scritto dall'avvocato e attivista dei diritti umani Bryan Stevenson, interpretato da Michael B. Jordan nel ruolo di protagonista, il film di D. D. Cretton, regista a me sconosciuto, non mi ha convinto, è risultato lento, scontato, senza nerbo, troppo lungo, sciatto. Una materia prima che, nelle mani di un Clint Eastwood, per fare solo un esempio, si sarebbe trasformata in un pugno nello stomaco, un dito nella piaga delle perversioni del sistema a stelle e strisce, a cominciare da quello giudiziario, col corollario di quello penitenziario e della pena di morte prevista in un buon numero di Stati, una denuncia di quanto di profondamente e intrinsecamente razzista sia da sempre alla base del Paese, specie nel Sud (atteggiamento che il Grande Vecchio del cinema americano, per quanto passi per reazionario, sicuramente non ha), in quelle di questo autore hawaiano risulta fiacco, svuotato, stereotipato, a cominciare da quel modo di raccontare i neri della vicenda come una sorta di Sì Buana che non rende loro giustizia. Il libro è autobiografico, e racconta di come Stevenson, brillante giovane avvocato di colore originario del Delaware che ha frequentato Harward, decida di dedicarsi alla causa dei condannati a morte in Alabama, per la stragrande maggioranza neri, entrando a far parte di un'associazione che ne difende i diritti anche gratuitamente diretta da una sua collega del Sud, bianca, che non lascia quasi traccia nella storia, anche per la scialba interpretazione di Brie Larson. Non che gli altri siano molto più brillanti: anzi danno l'impressione di non essere per primi convinti di quel che stanno facendo davanti alle telecamere, salvo in parte forse Jamie Foxx nel ruolo di Walter MacMillan, un operaio nero condannato a morte per l'uccisione di una giovane ragazza bianca in base unicamente al pregiudizio razziale quando sarebbe bastato studiare con un minimo di attenzione ed equanimità le prove portate a sostegno dell'accusa per smontarla (esattamente come nel recente Richard Jewell evocato sopra a proposito di Eastwood) di cui Stevenson prende a cuore la causa, che alla fine vince. Non c'è molto altro da dire, il film dà la netta impressione di essere già visto e rivisto mille volte, la stessa storia raccontata attraverso le stesse facce, le stesse parole, le stesse aule, gli stessi discorsi, gli stessi rituali, senza un guizzo, senza originalità, senza anima. Un film smorto, dimenticabile. Peccato.
Benché tratto da una storia vera, e il soggetto basato sul libro Just Mercy: a story of justice and redemption che rende molto più efficacemente l'idea del solito titolo astruso e fuorviante all'italiana, scritto dall'avvocato e attivista dei diritti umani Bryan Stevenson, interpretato da Michael B. Jordan nel ruolo di protagonista, il film di D. D. Cretton, regista a me sconosciuto, non mi ha convinto, è risultato lento, scontato, senza nerbo, troppo lungo, sciatto. Una materia prima che, nelle mani di un Clint Eastwood, per fare solo un esempio, si sarebbe trasformata in un pugno nello stomaco, un dito nella piaga delle perversioni del sistema a stelle e strisce, a cominciare da quello giudiziario, col corollario di quello penitenziario e della pena di morte prevista in un buon numero di Stati, una denuncia di quanto di profondamente e intrinsecamente razzista sia da sempre alla base del Paese, specie nel Sud (atteggiamento che il Grande Vecchio del cinema americano, per quanto passi per reazionario, sicuramente non ha), in quelle di questo autore hawaiano risulta fiacco, svuotato, stereotipato, a cominciare da quel modo di raccontare i neri della vicenda come una sorta di Sì Buana che non rende loro giustizia. Il libro è autobiografico, e racconta di come Stevenson, brillante giovane avvocato di colore originario del Delaware che ha frequentato Harward, decida di dedicarsi alla causa dei condannati a morte in Alabama, per la stragrande maggioranza neri, entrando a far parte di un'associazione che ne difende i diritti anche gratuitamente diretta da una sua collega del Sud, bianca, che non lascia quasi traccia nella storia, anche per la scialba interpretazione di Brie Larson. Non che gli altri siano molto più brillanti: anzi danno l'impressione di non essere per primi convinti di quel che stanno facendo davanti alle telecamere, salvo in parte forse Jamie Foxx nel ruolo di Walter MacMillan, un operaio nero condannato a morte per l'uccisione di una giovane ragazza bianca in base unicamente al pregiudizio razziale quando sarebbe bastato studiare con un minimo di attenzione ed equanimità le prove portate a sostegno dell'accusa per smontarla (esattamente come nel recente Richard Jewell evocato sopra a proposito di Eastwood) di cui Stevenson prende a cuore la causa, che alla fine vince. Non c'è molto altro da dire, il film dà la netta impressione di essere già visto e rivisto mille volte, la stessa storia raccontata attraverso le stesse facce, le stesse parole, le stesse aule, gli stessi discorsi, gli stessi rituali, senza un guizzo, senza originalità, senza anima. Un film smorto, dimenticabile. Peccato.
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