"Memorie di un assassino" (Salinui chueok) di Bong Joon-ho. Con Song Kang-ho, Sang-kyung Kim, Roe-ha Kim, Song Jae-ho, Hie-bong Byeon, Seo-hie Ko e altri. Corea del Sud 2003 ★★★★★
Grazie alla strameritata vittoria agli ultimi Oscar (miglior film, miglior regia più altre due statuette) del memorabile Parasite, anche la distribuzione italiana si è svegliata e ha riesumato Memorie di un assassino, secondo film di Bong Joon-ho, con cui il regista coreano aveva raggiunto il suo primo successo internazionale. Basato su una vicenda vera che a suo tempo fece scalpore in Corea del Sud (lo stupro e l'assassinio, tra il 1986 e il 1991 di dieci giovani donne da parte di un serial killer nei dintorni di Gyeonggi, una cittadina rurale non lontano da Seoul) il film, apparentemente un noir, ha un intento e significato schiettamente politico rappresentando una metafora della realtà sociale del Paese in quella lunga epoca in cui fu sottoposto a un regime militare particolarmente duro e oppressivo. Lo fa raccontando le indagini, condotte inizialmente dalla polizia locale, inetta quanto violenta e onnipotente, impersonata da due ispettori (la classica coppia che fa il gioco del poliziotto buono e di quello cattivo) e dal suo capo che, usando metodi a dir poco sommari e discutibili, sono più alla ricerca di un capro espiatorio da dare in pasto ai media che del vero colpevole, a cui viene di rinforzo, dalla capitale, un ispettore inizialmente ligio al protocollo come a delle procedure d'inchiesta più rigorose e basate su prove concrete anziché su confessioni estorte, ma che viene man mano coinvolto nei metodi degli altri due, che prima individuano il responsabile dei delitti in un ragazzo con problemi psichici, poi in un giovane e ambiguo maniaco sessuale, risultato però estraneo ai fatti dopo che i risultati dell'analisi del DNA giungono per posta dagli USA. Insomma non solo l'assassino non si trova, ma lo stesso coprifuoco istituito dal governo allo scopo di impedire la mobilitazione studentesca che si era diffusa in varie città e il concentramento delle forze di polizia laddove dove era più numerosa allo scopo di reprimerla, finiscono per favorirlo, col risultato che rimane senza volto: allegoricamente si impersona nel regime stesso e nella società, ignorante, repressa e sfiduciata, che ne è il risultato. Pellicola cupa, inesorabile, che inchioda lo spettatore alla sedia e alla fine non lascia speranze; diretta magistralmente, con interpreti sempre all'altezza che abbondano nell'ambiente cinematografico coreano; fotografia efficace, colonna musicale pure. Perfetto: il genio di Bong Joon-ho era evidente fin dagli esordi.
Grazie alla strameritata vittoria agli ultimi Oscar (miglior film, miglior regia più altre due statuette) del memorabile Parasite, anche la distribuzione italiana si è svegliata e ha riesumato Memorie di un assassino, secondo film di Bong Joon-ho, con cui il regista coreano aveva raggiunto il suo primo successo internazionale. Basato su una vicenda vera che a suo tempo fece scalpore in Corea del Sud (lo stupro e l'assassinio, tra il 1986 e il 1991 di dieci giovani donne da parte di un serial killer nei dintorni di Gyeonggi, una cittadina rurale non lontano da Seoul) il film, apparentemente un noir, ha un intento e significato schiettamente politico rappresentando una metafora della realtà sociale del Paese in quella lunga epoca in cui fu sottoposto a un regime militare particolarmente duro e oppressivo. Lo fa raccontando le indagini, condotte inizialmente dalla polizia locale, inetta quanto violenta e onnipotente, impersonata da due ispettori (la classica coppia che fa il gioco del poliziotto buono e di quello cattivo) e dal suo capo che, usando metodi a dir poco sommari e discutibili, sono più alla ricerca di un capro espiatorio da dare in pasto ai media che del vero colpevole, a cui viene di rinforzo, dalla capitale, un ispettore inizialmente ligio al protocollo come a delle procedure d'inchiesta più rigorose e basate su prove concrete anziché su confessioni estorte, ma che viene man mano coinvolto nei metodi degli altri due, che prima individuano il responsabile dei delitti in un ragazzo con problemi psichici, poi in un giovane e ambiguo maniaco sessuale, risultato però estraneo ai fatti dopo che i risultati dell'analisi del DNA giungono per posta dagli USA. Insomma non solo l'assassino non si trova, ma lo stesso coprifuoco istituito dal governo allo scopo di impedire la mobilitazione studentesca che si era diffusa in varie città e il concentramento delle forze di polizia laddove dove era più numerosa allo scopo di reprimerla, finiscono per favorirlo, col risultato che rimane senza volto: allegoricamente si impersona nel regime stesso e nella società, ignorante, repressa e sfiduciata, che ne è il risultato. Pellicola cupa, inesorabile, che inchioda lo spettatore alla sedia e alla fine non lascia speranze; diretta magistralmente, con interpreti sempre all'altezza che abbondano nell'ambiente cinematografico coreano; fotografia efficace, colonna musicale pure. Perfetto: il genio di Bong Joon-ho era evidente fin dagli esordi.
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