La scena de "Il vizio dell'arte" prima dell'entrata in...scena |
A conferma di quanto la nuova drammaturgia inglese, e quella di Alan Bennett in particolare, sia congeniale alle caratteristiche degli "Elfi", la compagnia milanese, dopo "The History Boys", rappresentato in giro per l'Italia con grande successo di pubblico e critica negli ultimi anni, ha deciso di iniziare la nuova stagione con "Il vizio dell'arte", scritto nel 2009 e andato in scena lo stesso anno al National Theatre di Londra. Una commedia-nella-commedia che racconta dell'incontro, mai verificatosi nella realtà, tra il poeta W.H. Auden e il musicista E.B. Britten nel 1973 a Oxford, e che si immagina invece avvenire al National Theatre di Londra da parte dei personaggi che li interpretano durante le prove de "Il giorno del Calibrano", basato sulla dettagliate biografie che Humphrey Carpenter scrisse sui due artisti britannici, entrambi omosessuali benché non dichiarati. Nella versione italiana i due sono rispettivamente uno scoppiettante Bruni/Auden, irriverente, arguto, immediato, e un più intimista e riflessivo De Capitani/Bennett, che si immagina in visita ad Auden per chiedergli consiglio su come impostare "La morte a Venezia" senza che traspaia la passione del vecchio professore per un adolescente. Auden, che ha perso ormai la memoria ed è convinto che Bennett gli stia chiedendo di scrivere il libretto, è del parere che l'arte debba rappresentare le emozioni umane, senza nascondersi, e dunque è propenso a rappresentare Tadzio per quello che è, un undicenne, mentre Bennet lo vede almeno sedicenne, e quindi filtra l'attrazione estetica e sessuale attraverso il filtro della razionalità, della convenienza e della "decenza". Due modi diversi di concepire l'ispirazione, ma uguale il "vizio", ma sarebbe più esatto dire l'attitudine, quasi maniacale e congenita, all'arte. Ma si tratta appunto di prove, durante le quali i due personaggi interloquiscono con gli altri attori, tra cui un un "marchettaro", un dottorando che intervista Auden e viene scambiato dal poeta per un prostituto, nonché il "futuro" biografo Carpenter; col regista dello spettacolo immaginario; con l'autore; riprendendolo e contestandogli e talvolta tagliandogli le battute; con gli altri operatori a cominciare dalla assistente regista, un'efficacissima Ida Marinelli, magistrale nel monologo in cui confessa le sue frustrazioni da attrice mancata. Teatro nel teatro, insomma, reso in maniera estremamente efficace già da una scenografia che si allarga oltre il palcoscenico e accoglie lo spettatore nella Sala Shakespeare: le prime tre file sgomberate dal pubblico e occupate dalla regia (vera), dai tecnici (veri) e da quelli finti (gli attori (veri) che osservano i "colleghi" durante le prove interagendo con essi. Il palcoscenico è completamente aperto, non vi sono quinte, la "macchina teatro" è svelata dal proprio interno come anche le relazioni, le gelosie, le fisime, le bizze, le fissazioni che scattano tra chi lo fa. Per creare un hellzapoppin' di questo genere, carico di umorismo sferzante, energia, acutezza, cultura, occorrono una regia di grande ritmo e perfettamente padrona di tutti i meccanismi, appunto, del teatro, come quella di Bruni e Frongia, e degli interpreti perfetti come quelli visti all'opera, a cominciare dai tre del nucleo storico degli "Elfi": Ferdinando Bruni, Elio De Capitani e Ida Marinelli. Gli altri componenti della benemerita compagnia stanno preparandosi per i prossimi spettacoli previsti dal ricco programma stagionale e scalpitano per fare la loro parte.
Nessun commento:
Posta un commento