"Frances Ha" di Noah Baumbach. Con Greta Gerwig, Mickey Sumner, Adam Driver, Michael Zegen, Patrick Heusinger, Charlotte D'Ambroise, Teddy Cañez e altri. USA 2012 ★★★★
Il film, giunto con un certo ritardo qui alla periferia dell'Impero, è la classica commediola newyorkese già vista e rivista nei film di Woody Allen e dei suoi emuli: il ritratto divertente, garbato, brioso di Frances, un'eterna ragazza di 27 anni, ballerina brava e coscienziosa ma di non eccelso talento, semplice, piena di sogni e di vita, che condivide l'appartamento con la sua migliore amica, Sophie, che è il suo esatto contrario, ossia precisa, ordinata, efficiente. Potrebbe essere una rodata coppia di lesbiche che non fanno più sesso: tanto basta a Frances, finché Sophie non si innamora di Patch e non va a condividere un nuovo appartamento con lui nel centro di Manhattan fino a trasferirsi a Tokio, dove lui è mandato a fare l'analista finanziario. Da lì in poi è un turbinio di nuove condivisioni di appartamenti, tra delusioni professionali e sentimentali, malinconia per l'assenza dell'amica, feste, cene, un improbabile fine settimana da sola a Parigi, le vacanze di Natale a casa dei genitori a Sacramento, in California (peraltro vero luogo di nascita della straordinaria protagonista, Greta Gerig, che ha scritto la sceneggiatura assieme al regista). Nonostante sia una pasticciona, una Peter Pan in gonnella, alla fine tutto quanto si sistema e Frances trova la sua dimensione, un appartamento per conto suo e un suo equilibrio, per quanto precario. Nulla di che, insomma, e la pellicola ha non pochi aspetti irritanti però anche istruttivi: si parla di giovani bohémien sui generis, poveri sì ma col culo ben coperto, e pressoché tutti ossessionati dal successo: sono senza eccezioni professionisti o artisti, il loro è un mondo che da Manhattan al più si estende a Broccolino (diventato di moda negli ultimi anni tra i fan della "Grande Mela"), dove un trilocale non si trova a meno di 4000 dollari al mese, il milieu è quello dell'intellettualità liberal, ad alto tasso di ebraicità, non esiste un nero manco a pagarlo, e tra un drink e una seduta di psicanalisi, una canna e una battuta spiritosa, commenti superficiali, mossettine, ammiccamenti e esibizioni di cultura imparaticcia, il tutto politically correct, questi che da noi sarebbero "alternativi da happy hour" o la loro variante cultural-terrazzata, l'altra faccia dello yuppismo, trascorrono la propria esistenza in una dimensione a sé, pensando di essere il centro pulsante dell'universo, a riprova di quanto la tanto decantata New York sia una città di un provincialismo da fare invidia a un paesone come Roma, ma il tutto viene riscattato dalla prestazione strepitosa della Gerwig, musa del cinema indipendente USA, la cui bravura riesce a far digerire anche le cose più insulse. Un talento assoluto, esplosivo, dotata di un viso dalla plasticità che ricorda quella del migliore Jim Carrey e una spontaneità e naturalezza disarmanti. E' lei il film per fortuna. E vale ampiamente il prezzo del biglietto.
Il film, giunto con un certo ritardo qui alla periferia dell'Impero, è la classica commediola newyorkese già vista e rivista nei film di Woody Allen e dei suoi emuli: il ritratto divertente, garbato, brioso di Frances, un'eterna ragazza di 27 anni, ballerina brava e coscienziosa ma di non eccelso talento, semplice, piena di sogni e di vita, che condivide l'appartamento con la sua migliore amica, Sophie, che è il suo esatto contrario, ossia precisa, ordinata, efficiente. Potrebbe essere una rodata coppia di lesbiche che non fanno più sesso: tanto basta a Frances, finché Sophie non si innamora di Patch e non va a condividere un nuovo appartamento con lui nel centro di Manhattan fino a trasferirsi a Tokio, dove lui è mandato a fare l'analista finanziario. Da lì in poi è un turbinio di nuove condivisioni di appartamenti, tra delusioni professionali e sentimentali, malinconia per l'assenza dell'amica, feste, cene, un improbabile fine settimana da sola a Parigi, le vacanze di Natale a casa dei genitori a Sacramento, in California (peraltro vero luogo di nascita della straordinaria protagonista, Greta Gerig, che ha scritto la sceneggiatura assieme al regista). Nonostante sia una pasticciona, una Peter Pan in gonnella, alla fine tutto quanto si sistema e Frances trova la sua dimensione, un appartamento per conto suo e un suo equilibrio, per quanto precario. Nulla di che, insomma, e la pellicola ha non pochi aspetti irritanti però anche istruttivi: si parla di giovani bohémien sui generis, poveri sì ma col culo ben coperto, e pressoché tutti ossessionati dal successo: sono senza eccezioni professionisti o artisti, il loro è un mondo che da Manhattan al più si estende a Broccolino (diventato di moda negli ultimi anni tra i fan della "Grande Mela"), dove un trilocale non si trova a meno di 4000 dollari al mese, il milieu è quello dell'intellettualità liberal, ad alto tasso di ebraicità, non esiste un nero manco a pagarlo, e tra un drink e una seduta di psicanalisi, una canna e una battuta spiritosa, commenti superficiali, mossettine, ammiccamenti e esibizioni di cultura imparaticcia, il tutto politically correct, questi che da noi sarebbero "alternativi da happy hour" o la loro variante cultural-terrazzata, l'altra faccia dello yuppismo, trascorrono la propria esistenza in una dimensione a sé, pensando di essere il centro pulsante dell'universo, a riprova di quanto la tanto decantata New York sia una città di un provincialismo da fare invidia a un paesone come Roma, ma il tutto viene riscattato dalla prestazione strepitosa della Gerwig, musa del cinema indipendente USA, la cui bravura riesce a far digerire anche le cose più insulse. Un talento assoluto, esplosivo, dotata di un viso dalla plasticità che ricorda quella del migliore Jim Carrey e una spontaneità e naturalezza disarmanti. E' lei il film per fortuna. E vale ampiamente il prezzo del biglietto.
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