"L'angelo del crimine" (El angel) di Luis Ortega. Con Lorenzo Ferro, Chino Darín, Mercedes Morán, Daniel Fanego, Luis Gnecco, Peter Lanzani, Cecilia Roth e altri. Argentina, Spagna 2018 ★★+
Da un film argentino, tra l'altro prodotto dai fratelli Almodóvar, mi sarei francamente aspettato di più, a maggior ragione perché ambientato nei primissimi anni Settanta, quando il Paese aveva già imboccato la strada per cadere nel tunnel di une delle dittature più brutali dell'intero XX Secolo e i prodromi del disastro erano già tutti in essere: sempre che, ispirandosi alla vicenda di Carlos Robledo Puch, il più famoso assassino seriale della storia locale, il regista abbia avuto intenzione di utilizzarla come paradigma dell'incoscienza quasi infantile e della dissociazione tipica di quella società. In ogni caso, se uno non conosce a menadito gli avvenimenti che condussero alla Guerra Sucia e al conseguente Proceso de Reorganización Nacional, come si autodefinì la dicta-dura, non se ne accorge e pensa che si tratti, sostanzialmente, di un film biografico (per assonanza, mi viene alla mente un personaggio che incarnava il prototipo del “bello e dannato", ancora più fetente di Carlitos: Alfredo Astiz, l’ufficiale di marina noto come “L’angelo della morte”, che si presentava col suo aspetto da bravo ragazzo alle Madres di Plaza de Mayo conquistandone la fiducia per estorcere loro nomi degli amici e compagni dei loro figli desaparecidos). Nemmeno del tutto aderente al vero, peraltro: se il Carlitos interpretato dall'esordiente Lorenzo Ferro, presto stucchevole tanto è monocorde, un ragazzino con boccoli biondi, bocca e movenze sensuali, sguardo innocente e fattezze efebiche, quasi un ermafrodita, dietro a cui si cela non solo un delinquente per vocazione ma anche un'indole perversa e malvagia, assomiglia all'originale anche fisicamente, il personaggio del suo compare di scorribande, Ramón Peralta, anche lui allievo della scuola tecnica che frequentava, è completamente inventato: si chiamava Jorge Antonio Ibañez (Chino Darín, figlio di cotanto padre, da cui ha ereditato un buon talento e la presenza scenica) ed era molto più feroce del "bellone" che viene dipinto nel film, uno stupratore e un assassino spietato almeno quanto l'amichetto. Quello del “bello e dannato” è un vero e proprio filone del genere noir; declinato in forma biografica un esempio abbastanza recente è il Vallanzasca di Michele Placido, molto più capace di rappresentare un’epoca (più o meno la stessa, peraltro) al di là della mera ambientazione, con cui il Carlitos di Ortega ha delle similitudini (la provenienza da una modesta ma specchiata famiglia piccolo borghese, e l’essere dei ladri e criminali per vocazione), ma senza l'intelligenza, e motivazioni esistenziali e il retroterra a suo modo culturale (la ligera milanese e il suo codice d'onore) del bel René. Il film di Ortega ammicca sia al cinema dei suoi produttori, gli Almodováros, per gli elementi surreali e grotteschi a fare da corto circuito in una vicenda alla fine tragica sia, palesemente, sia a quello di Martin Scorsese, vedi anche l'utilizzo della colonna sonora d'epoca, composta da brani internazionalmente noti però cantati in versione argentina, ma siamo ben lontani dai modelli che l'hanno ispirato. Non un film da buttare via del tutto, ma troppo manierato e, nonostante l'azione, lento e noioso.
L’hai vista solo tu sta lentezza e sta noia.
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