"Il traditore" di Marco Bellocchio. Con Pierfrancesco Favino, Maria Fernanda Cândido, Fabrizio Ferracane, Luigi Lo Cascio, Fausto Russo Alesi, Nicola Calì, Giovanni Calcagno, Bruno Cariello, Bebo Storti, Vincenzo Pirrotta, Pier Giorgio Bellocchio e altri. Italia, Brasile, Francia, Germania 2019 ★★★★★
Per un bellocchiano della prima ora come me non è stata una sorpresa che il Maestro aveva girato ancora una volta un film esemplare, rigoroso, appassionante e che ricostruendo senza sbavature una vicenda cruciale del nostro Paese e al contempo la vita del personaggio che ne fu protagonista, Tommaso Buscetta, indicato come il primo e più importante "pentito di mafia", e che vi avrebbe trovato tutti quegli elementi che da sempre sono oggetto del suo interesse: famiglia, potere, corruzione, perbenismo, religione, ruolo della donna, senso di colpa e quello, sempre presente, e non è un gioco di parole, quello dell'assenza (elenco delle tematiche care Marco Bellocchio che avevo elencato in occasione dell'uscita di Fai bei sogni, tre anni fa), a cui aggiungo quella del doppio, che percorre tutta la pellicola e comincia dal titolo. Perché agli occhi dell'autore, e anche miei, il vero traditore alla fine non è Don Masino, bensì Pippo Calò, passato ai corleonesi di Totò Riina, colpevole non solo di non avere protetto i figli che Buscetta gli aveva affidato mentre si trovava in Brasile, dove si era rifugiato, ma di averli uccisi e aver permesso che venissero ammazzati in totale 11 suoi parenti nella "seconda guerra di mafia" che insanguinò Palermo negli anni Ottanta. Il film ripercorre quella vicenda, il tentativo di uccidere Buscetta durante la sua latitanza, il suo arresto in Brasile e il tentativo di suicidio con la stricnina fino all'incontro con Giovanni Falcone e alla decisione di svelare la struttura della cupola mafiosa proprio in quanto "uomo d'onore non pentito", perché considerava la mafia vincente, quella dei corleonesi capeggiati da Riina, quella che ne aveva tradito lo spirito originario, arrivando a eliminare donne e bambini, comportamento inammissibile per Cosa Nostra delle origini, e non erano ancora avvenute le stragi di Capaci e Via D'Amelio: arriverà anche quel momento e Don Masino, che già viveva sotto copertura negli USA dopo il primo mega processo di mafia istruito da Falcone, tornerà in Italia e testimoniare anche in quello contro Andreotti per le sue collusioni con l'organizzazione e in particolare i rapporti strettissimi con i Salvo. Non mancano i flash back, per inquadrare ancora meglio il personaggio, amante delle donne e della bella vita più che del potere (tre mogli, otto figli, innumerevoli amanti), alcune scene madri che fanno venire in mente sia Il Gattopardo sia i Padrini di Coppola ma pur sempre nell'ottica bellocchiana, attenta alla psicologia del personaggio (e di quelli che gl stanno attorno) e ai suoi aspetti patologici. Come sempre la grandezza del regista si evince non soltanto nella qualità tecnica, nell'ambientazione, nella qualità dei dialoghi, nella solidità della sceneggiatura e nell'assoluta padronanza dei tempi cinematografici, ma anche e soprattutto nella scelta degli interpreti: Pierfrancesco Favino, attore di una straordinaria duttilità e misura, è un Tommaso Buscetta perfino più credibile di quello vero; ad affiancarlo e fargli da contraltare Luigi Lo Cascio nei panni dell'amico Totuccio Contorno, tanto diverso da lui pur essendo suo sodale, e una schiera di altri attori eccezionali, tra i quali spiccano Fabrizio Ferracane, Fausto Russo Alesi, Nicola Calì, Giovanni Calcagno, Vincenzo Pirrotta, Bebo Storti, Pier Giorgio Bellocchio nei panni, rispettivamente, di Pippo Calò, Giovanni Falcone, Totò Riina, Tano Badalamenti, Luciano Liggio, l'avvocato Coppi e Cesare, il capo scorta di Buscetta. Quando si dice un filmone: vero cinema. Che di conseguenza è stato ignorato, così come chi vi ha recitato, dalla giuria del Festival di Cannes, ormai nulla più che una passerella per fighette. Mi auguro che il pubblico la pensi altrimenti.
Per un bellocchiano della prima ora come me non è stata una sorpresa che il Maestro aveva girato ancora una volta un film esemplare, rigoroso, appassionante e che ricostruendo senza sbavature una vicenda cruciale del nostro Paese e al contempo la vita del personaggio che ne fu protagonista, Tommaso Buscetta, indicato come il primo e più importante "pentito di mafia", e che vi avrebbe trovato tutti quegli elementi che da sempre sono oggetto del suo interesse: famiglia, potere, corruzione, perbenismo, religione, ruolo della donna, senso di colpa e quello, sempre presente, e non è un gioco di parole, quello dell'assenza (elenco delle tematiche care Marco Bellocchio che avevo elencato in occasione dell'uscita di Fai bei sogni, tre anni fa), a cui aggiungo quella del doppio, che percorre tutta la pellicola e comincia dal titolo. Perché agli occhi dell'autore, e anche miei, il vero traditore alla fine non è Don Masino, bensì Pippo Calò, passato ai corleonesi di Totò Riina, colpevole non solo di non avere protetto i figli che Buscetta gli aveva affidato mentre si trovava in Brasile, dove si era rifugiato, ma di averli uccisi e aver permesso che venissero ammazzati in totale 11 suoi parenti nella "seconda guerra di mafia" che insanguinò Palermo negli anni Ottanta. Il film ripercorre quella vicenda, il tentativo di uccidere Buscetta durante la sua latitanza, il suo arresto in Brasile e il tentativo di suicidio con la stricnina fino all'incontro con Giovanni Falcone e alla decisione di svelare la struttura della cupola mafiosa proprio in quanto "uomo d'onore non pentito", perché considerava la mafia vincente, quella dei corleonesi capeggiati da Riina, quella che ne aveva tradito lo spirito originario, arrivando a eliminare donne e bambini, comportamento inammissibile per Cosa Nostra delle origini, e non erano ancora avvenute le stragi di Capaci e Via D'Amelio: arriverà anche quel momento e Don Masino, che già viveva sotto copertura negli USA dopo il primo mega processo di mafia istruito da Falcone, tornerà in Italia e testimoniare anche in quello contro Andreotti per le sue collusioni con l'organizzazione e in particolare i rapporti strettissimi con i Salvo. Non mancano i flash back, per inquadrare ancora meglio il personaggio, amante delle donne e della bella vita più che del potere (tre mogli, otto figli, innumerevoli amanti), alcune scene madri che fanno venire in mente sia Il Gattopardo sia i Padrini di Coppola ma pur sempre nell'ottica bellocchiana, attenta alla psicologia del personaggio (e di quelli che gl stanno attorno) e ai suoi aspetti patologici. Come sempre la grandezza del regista si evince non soltanto nella qualità tecnica, nell'ambientazione, nella qualità dei dialoghi, nella solidità della sceneggiatura e nell'assoluta padronanza dei tempi cinematografici, ma anche e soprattutto nella scelta degli interpreti: Pierfrancesco Favino, attore di una straordinaria duttilità e misura, è un Tommaso Buscetta perfino più credibile di quello vero; ad affiancarlo e fargli da contraltare Luigi Lo Cascio nei panni dell'amico Totuccio Contorno, tanto diverso da lui pur essendo suo sodale, e una schiera di altri attori eccezionali, tra i quali spiccano Fabrizio Ferracane, Fausto Russo Alesi, Nicola Calì, Giovanni Calcagno, Vincenzo Pirrotta, Bebo Storti, Pier Giorgio Bellocchio nei panni, rispettivamente, di Pippo Calò, Giovanni Falcone, Totò Riina, Tano Badalamenti, Luciano Liggio, l'avvocato Coppi e Cesare, il capo scorta di Buscetta. Quando si dice un filmone: vero cinema. Che di conseguenza è stato ignorato, così come chi vi ha recitato, dalla giuria del Festival di Cannes, ormai nulla più che una passerella per fighette. Mi auguro che il pubblico la pensi altrimenti.
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