"Dopo il matrimonio" (After the Wedding) di Bart Freundlich. Con Michelle Williams, Julianne Moore, Bill Crudup, Elisa Davis, Abby Quinn, Elisa Davis, Alex Esola e altri. USA 2019 💩
Primo film in sala dopo quasi tre mesi e mezzo e prima incazzatura: colpa mia che non mi ero avveduto che Freundlich, regista e sceneggiatore newyorkese specializzato in trame sentimentali e intrighi famigliari, aveva ripreso l'omonimo film uscito nel 2006 della sua degna collega danese Susanne Bier, una vecchia conoscenza il cui nome, se risultasse dai crediti, mi avrebbe messo in allarme rosso trattenendomi dallo spendere i soldi del biglietto: suo l'altrimenti memorabile Love Is All You Need che, se appartenesse al genere demenziale e non avesse aspirato a più alte ambizioni, sarebbe da considerarsi un capolavoro. Il titolo più adeguato a quest'altra solenne cagata avrebbe potuto essere Anche i ricchi piangono, perché il livello di questo psico-melodramma delle classi agiate è quello della celebre telenovela messicana. Una tipa (interpretata da Michelle Williams) che da anni si occupa di un orfanotrofio in India, dove funge da madre sostitutiva di Jai, un trovatello di strada, si reca controvoglia a New York a perorare la causa dell'istituto con la proprietaria di una società di pubblicità intenzionata a investire due milioni di dollari in beneficenza, che la ospita a sue spese nella suite di un albergo in centro: 90 metri quadrati l'appartamento, 60 il terrazzo, alla faccia dell'assistenza ai poveri del Terzo Mondo. Quello che la cooperante ignora è che l'altra (Julianne Moore, che essendo la moglie del regista è più esagitata del solito) sa tutto di lei, avendone sposato il vecchio amore, nonché causa della sua fuga in Oriente, con cui aveva avuto una figlia che avevano deciso di dare in adozione subito dopo la nascita: lo stolido artista concettuale nella cui parte è perfetto Bill Crudup, e la straricca donna in carriera, che si scoprirà essere malata terminale e che non ha comunicato a nessuno il suo destino, manipola cinicamente tutti quanti le stanno intorno decidendone il futuro e le relazioni reciproche dopo la sua dipartita. Centro della grande manovra è lo sfarzoso matrimonio della figlia, a cui viene invitata la malcapitata all'insaputa della vecchia fiamma, che aveva impalmato la riccona presentandosi come ragazzo-padre perché, alla fine, senza dire niente alla vera madre aveva preso la figlia con sé togliendola dall'adozione, grimaldello per intenerire la facoltosa mannagger titillandole l'istinto materno. E così i due ex amanti si ritrovano davanti a sorpresa, la tipa si scopre madre naturale, la figlia con due madri fra cui non sa chi scegliere, l'ebete di turno frastornato e incapace di prendere una qualsiasi decisione, la megera che si sente in diritto di porre e disporre a suo piacimento sotto il ricatto morale della sua morte imminente. Come se non bastassero le consuete ossessioni scandinave, il solito profluvio tutto a stelle e strisce di "va tutto bene/è tutto OK/andrà tutto bene" quando tutto sta andando a puttane; gente che dice "ti voglio bene" a figli, coniuge, fidanzato/a ogni volta che esce dalla porta di casa, fosse anche per portare fuori la spazzatura e rientrare due minuti dopo, i due milioni di dollari di donazione che diventano venti dopo che la megera ha venduto l'azienda ponendo però come condizione che la pseudo-rivale si ritrasferisca a New York per amministrare il capitale (e occuparsi della figlia scema e del marito idiota), il tutto tra fiumi di lacrime, colpi di scema, più che di scena, di una prevedibilità totale. Una sola la morale: anche i ricchi hanno un cuore, oltre ai quattrini e non occorre andare fino in India per occuparsi di disgrazie. Mi è venuto in mente il recente, esilarante intervento in cui tale Carlo Pavan (Lega) al consiglio comunale di Udine stigmatizzava la "discriminazione dei ricchi a favore dei poveri". Infine, una recitazione sommaria e una pochezza assoluta: penoso. Mille volte meglio una serie inTV.
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