mercoledì 25 novembre 2020

Cosa resta della rivoluzione

"Cosa resta della rivoluzione" (Tout ce qu'il me reste de la révolution) di Judith Davis. Con Judith Davis, Malik Zidi, Claire Dumas, Simon Bakhouche, Mélanie Bestel, Mireille Perrier, Jean-Claude Leguay e altri. Francia 2018 ★★★½

Di questi tempi tocca accontentarsi di quel poco che passa in streaming il convento, peraltro poca roba, recuperi da seconde scelte o pellicole passate pressoché inosservate e poco o per nulle frequentate in sala. Ogni tanto si casca bene, com'è il caso di questo film d'esordio alla regia di Judith Davis, la quale si riserva anche la parte della protagonista, una giovane e ambiziosa urbanista che viene licenziata dallo studio per cui lavora, gestito da una coppia di baroni de sinistra che, facendo quattro conti con la "crisi", preferisce risparmiare sui contributi sostituendola con il solito stagista. Angèle, così si chiama la ragazza cui Judith Davis aderisce in tutto, forse un vero e proprio alter ego dell'attrice e autrice, che dà tutta l'impressione di parlare a titolo personale, legittimandone le indignate rimostranze e rendendola particolarmente credibile (in caso contrario si dimostra ancora più brava), e infatti non glie le manda a dire, rinfacciando loro il comportamento ipocrita e il tradimento dei tanto decantati e ostentati "eterni ideali" sbocciati nell'ormai remoto 1968 e rimasti vivi soltanto sotto forma di tic, modo di parlare, logorrea, dogmatismo e paternalismo francamente ormai insopportabili, e questo lo dico pure io a titolo personale, appartenendo proprio a quella generazione, e quindi più che titolato a fare autocritica. A 38 anni Angèle, che invece ha tenuto fede agli ideali inculcatile dai genitori, vive di militanza in un'entità, il Partito comunista francese, ormai completamente marginale, di pura testimonianza, senza una vita sentimentale, ospitata nell'appartamento del padre, altro vecchio reduce che si occupa di volontariato, ormai da anni separato dalla moglie, compagna di lotta ai tempi gloriosi, a sua volta con un trascorso di talentuosa urbanista e che ha mollato il colpo vent'anni prima avendo capito per tempo la metamorfosi suicida della sinistra ormai giunta al potere, tra Mitterrand e Jospin, rifugiandosi in campagna, evento che ha segnato la ragazza che tuttora si sente abbandonata; quel che né il padre né la sorella maggiore Noutka (che a sua volta ha abbandonato la Causa sposandosi con un un manager completamente americanizzato) le hanno però detto, è che Diane, la madre, aveva chiesto al resto della famiglia di raggiungerla, mentre loro hanno insistito col rimanere a Parigi andando avanti a far finta che qualcosa potesse cambiare. Il film si articola in una serie di scene della vita quotidiana di Angèle, tra rapporti famigliari, tentativi di fare concorsi, l'impegno politico con l'amica di sempre Léonor (l'altrettanto brava Claire Dumas) nelle esilaranti riunioni di un collettivo eterogeneo di compagni che sembra più che altro un gruppo di autocoscienza che cerca di partire da alcune certezze, rendendosi conto che non esistono. Perché una cosa è sicura: sono tempi di cui sfugge il senso, ed è questo il succo del film, e quel che conta a da cui partire rimangono i rapporti tra le persone accettandole (e quindi accettandosi) per quello che sono e non per quello che vorrebbero o dovrebbero essere. E prenderne atto, con la giusta dose di sarcasmo e un minimo di leggerezza, è già qualcosa. Judith Davis e i suoi colleghi ci riescono, simpaticamente. Rassegnati sì, ma senza arrendersi e col sorriso sulle labbra, per quanto malinconico.  

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