"Mi chiamo Francesco Totti" di Alex Infascelli. Con Francesco Totti. Italia 2020 ★★★★
Il cinema nostrano non è mai stato a suo agio nel raccontare il mondo dello sport, nemmeno quello del calcio, che pure è l'argomento principe nei bar di tutta la Penisola e uno dei principali nei luoghi dove si svolge la vita degli italiani, media compresi, e già per questo l'autobiografia in prima persona dell'ex capitano della Roma (basata sul libro Un capitano scritto cn Paolo Condò) girata da Infascelli costituisce un'eccezione, per di più molto positiva. Gli elementi per il buon esito c'erano tutti: la storia esemplare del ragazzo di talento che avvera i suoi sogni d'infanzia; la simpatia spontanea che suscita di per sé Francesco Totti per la sua autenticità e autoironia: la scelta di fargli raccontare di persona la vicenda della sua vita sportiva, che si intreccia con quella umana e soprattutto il rapporto con la sua città, di cui è qualcosa più di un simbolo, è stata quella vincente. Infascelli con la macchina da presa ci sa fare: dai video musicali che ha girato ha acquisito il ritmo giusto, dall'attività documentaristica la capacità del raccogliere dati e reperti, miscelarli ed esporli con chiarezza; dai lungometraggi l'attenzione per il dialogo e la creazione di un'atmosfera: in questo caso ha miscelato il tutto affidandolo a un personaggio che, come molti introversi, è già attore di suo proprio per superare la propria timidezza, capace di stare sulla scena così come lo era sul campo, davanti a uno stadio stracolmo dove centomila e più occhi, specie all'Olimpico, ne vivisezionavano qualsiasi gesto o reazione, non solo in senso atletico. Nella finzione il film inizia dove finisce la carriera sportiva di Totti, nel pomeriggio del 28 maggio del 2017 quando, a pochi mesi dal traguardo dei 40 anni, giocò la sua ultima partita con la maglia della Roma, l'unica che avesse indossato dopo quella della Lodigiani dove giocava da ragazzino prima di approdare a Trigoria in giallorosso a 13 anni: una vicenda durata per altri 25, un record di fedeltà, ripercorsa dall'inizio, da "palla", la prima parola che pronunciò in un'estate al mare coi genitori e cugini a Porto San Giorgio, ai primi calci davanti alle elementari del quartiere dove è nato e vissuto, e poi tutta la straordinaria carriera di un calciatore di grandissimo talento ma anche un vero atleta, che per nessun motivo, nemmeno i 12 miliardi di lire di ingaggio offertigli ai tempi dal Real Madrid, avrebbe lasciato la squadra per cui aveva sempre tifato e di cui era diventato capitano a soli 22 anni e per 19 stagioni, raccogliendo a quel Giuseppe Giannini, romano come lui, che era stato il suo idolo da bambino. Una storia, sportiva ma anche umana, che avrebbe potuto prendere strade diverse, e in cui come sempre è stato il caso a decidere, o forse la predestinazione, con certi presagi e riscorsi che fanno capolino qui e là. Una favola, sì, ma molto reale. Nel film c'è molto ma non tutto: alcune vicende, pure ben note, vengono soltanto accennate, ma non ha senso parlare di lacune quando si è deciso per un certo taglio, che era far emergere il personaggio e descrivere il suo rapporto con la città di cui è diventato un emblema: l'ottavo re. Totti incarna Roma, in tutto e per tutto, nei pregi e nei difetti, con cui intreccia un rapporto unico, almeno con la parte giallorossa (peraltro largamente preponderante nella città e nei ceti popolari). Inscì avèghen, direbbero a Milano...
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