"Il passato" (Le passé) di Asghar Farhadi. Con Bérénice Bejo, Ali Mosaffa, Tahar Rahim, Pauline Brulet, Elyes Aguis, Jeanne Jestin, Sabrina Ouzani, Babak Karimi, Valeria Cavalli. Francia, Italia 2013 ★★★★+
Era stata sollevata da più parte l'obiezione che l'aver ambientato e girato il film in una Parigi periferica anziché nella realtà iraniana abbia in qualche modo "distratto" il regista e tolto mordente alla sua grande capacità narrativa. Semmai ha sgombrato il campo da qualche elemento considerato, all'occhio occidentale, esotico, peraltro del tutto assente anche negli ottimi lavori precedenti, confermando che Fahradi è un acutissimo, attento, raffinato osservatore di dinamiche relazionali, sia di coppia, sia in generale, che hanno una valenza universale anche fuori di un contesto particolare come quello dell'Iran post-khomeinista, oltre a possedere una rara capacità di racconto e una padronanza invidiabile non solo della macchina da presa ma della sceneggiatura, nonché della capacità di fare esprimere al meglio qualsiasi attore con si trovi a lavorare. Qui la parte del leone la fanno Ali Mosaffa, che interpreta Ahmad, e Bérénice Bejo nella parte dell'ex moglie Lucie, non a caso premiata quest'anno a Cannes come miglior interprete femminile e già candidata come migliore attrice non protagonista agli Oscar. Il primo torna a Parigi da Teheran dopo quattro per firmare le carte del divorzio da Lucie, la quale anziché prenotargli un albergo preferisce ospitarlo nella casa che condivide con le due figlie, nate dal primo matrimonio, e di Fouad, figlio del suo attuale compagno, Shamir, la cui moglie (e madre) si trova in coma per un tentato suicidio. In questo modo Ahmad viene suo malgrado coinvolto nelle dinamiche malsane che si sono innescate in questa sorta di famiglia allargata tutto fuorché equilibrata e trasparente, e il regista le svela con i meccanismi di un vero e proprio thriller psicologico aperto a ogni sviluppo che lo spettatore possa immaginare. Come suggerito dal titolo, tutto ruota attorno alla impossibilità di tagliare con il proprio passato: quello che ci va più vicino è Ahmad, che infatti si ritrova a fare da mediatore nei conflitti che si creano tra le parti in causa, specialmente quello tra Marie e la figlia maggiore Lucie, che mal sopporta il suo nuovo compagno Shamir, che considera, con più di una ragione, un idiota, ma meno ancora le ambiguità della madre; mentre non ci riescono né Marie, né Lucie, che si sente responsabile del tentato suicidio di Corinne, la moglie di Shamir e meno ancora quest'ultimo, benché Marie porti in grembo un figlio suo (cosa che non rivelerà direttamente all'ex marito, come non gli aveva detto della convivenza con lui). Ma non è il "passato che non passa" l'unico tema della pellicola; almeno altrettanto lo è quello di quel particolare tipo di persone che traggono linfa vitale dal succhiare letteralmente l'energia da chi li circonda e la cui unica ragion d'essere, nel loro immenso quanto spesso inconsapevole egocentrismo, sembra essere procurare l'infelicità altrui, creando prima caos, poi disagio e infine malessere attorno a sé, e questo con atti ma soprattutto omissioni, cose non dette, inganni, sotterfugi: così è la Lucie de Il passato, magnificamente interpretata dalla Bejo, ambigua e manipolatrice quanto bella, con l'ingannatore sguardo dolce degli occhi da cerbiatta, che al suo passaggio diffonde confusione (anche nella gestione della casa), malessere, incomprensioni, zizzania, alla fine un deserto: non a caso il primo marito è diventato cardiopatico, Ahmad era caduto in una forte depressione da cui è guarito facendo ritorno in Iran e Shamir è un succube, irresoluto e ambiguo quanto lei. Una donna in questo caso, ma potrebbe benissimo essere un uomo, da cui prendere le distanze il più presto possibile per non cadere nella sua micidiale trappola. Un film notevole, assolutamente all'altezza de "La separazione" e "About Elly" che l'hanno preceduto.
Era stata sollevata da più parte l'obiezione che l'aver ambientato e girato il film in una Parigi periferica anziché nella realtà iraniana abbia in qualche modo "distratto" il regista e tolto mordente alla sua grande capacità narrativa. Semmai ha sgombrato il campo da qualche elemento considerato, all'occhio occidentale, esotico, peraltro del tutto assente anche negli ottimi lavori precedenti, confermando che Fahradi è un acutissimo, attento, raffinato osservatore di dinamiche relazionali, sia di coppia, sia in generale, che hanno una valenza universale anche fuori di un contesto particolare come quello dell'Iran post-khomeinista, oltre a possedere una rara capacità di racconto e una padronanza invidiabile non solo della macchina da presa ma della sceneggiatura, nonché della capacità di fare esprimere al meglio qualsiasi attore con si trovi a lavorare. Qui la parte del leone la fanno Ali Mosaffa, che interpreta Ahmad, e Bérénice Bejo nella parte dell'ex moglie Lucie, non a caso premiata quest'anno a Cannes come miglior interprete femminile e già candidata come migliore attrice non protagonista agli Oscar. Il primo torna a Parigi da Teheran dopo quattro per firmare le carte del divorzio da Lucie, la quale anziché prenotargli un albergo preferisce ospitarlo nella casa che condivide con le due figlie, nate dal primo matrimonio, e di Fouad, figlio del suo attuale compagno, Shamir, la cui moglie (e madre) si trova in coma per un tentato suicidio. In questo modo Ahmad viene suo malgrado coinvolto nelle dinamiche malsane che si sono innescate in questa sorta di famiglia allargata tutto fuorché equilibrata e trasparente, e il regista le svela con i meccanismi di un vero e proprio thriller psicologico aperto a ogni sviluppo che lo spettatore possa immaginare. Come suggerito dal titolo, tutto ruota attorno alla impossibilità di tagliare con il proprio passato: quello che ci va più vicino è Ahmad, che infatti si ritrova a fare da mediatore nei conflitti che si creano tra le parti in causa, specialmente quello tra Marie e la figlia maggiore Lucie, che mal sopporta il suo nuovo compagno Shamir, che considera, con più di una ragione, un idiota, ma meno ancora le ambiguità della madre; mentre non ci riescono né Marie, né Lucie, che si sente responsabile del tentato suicidio di Corinne, la moglie di Shamir e meno ancora quest'ultimo, benché Marie porti in grembo un figlio suo (cosa che non rivelerà direttamente all'ex marito, come non gli aveva detto della convivenza con lui). Ma non è il "passato che non passa" l'unico tema della pellicola; almeno altrettanto lo è quello di quel particolare tipo di persone che traggono linfa vitale dal succhiare letteralmente l'energia da chi li circonda e la cui unica ragion d'essere, nel loro immenso quanto spesso inconsapevole egocentrismo, sembra essere procurare l'infelicità altrui, creando prima caos, poi disagio e infine malessere attorno a sé, e questo con atti ma soprattutto omissioni, cose non dette, inganni, sotterfugi: così è la Lucie de Il passato, magnificamente interpretata dalla Bejo, ambigua e manipolatrice quanto bella, con l'ingannatore sguardo dolce degli occhi da cerbiatta, che al suo passaggio diffonde confusione (anche nella gestione della casa), malessere, incomprensioni, zizzania, alla fine un deserto: non a caso il primo marito è diventato cardiopatico, Ahmad era caduto in una forte depressione da cui è guarito facendo ritorno in Iran e Shamir è un succube, irresoluto e ambiguo quanto lei. Una donna in questo caso, ma potrebbe benissimo essere un uomo, da cui prendere le distanze il più presto possibile per non cadere nella sua micidiale trappola. Un film notevole, assolutamente all'altezza de "La separazione" e "About Elly" che l'hanno preceduto.
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