martedì 8 marzo 2022

Bosnia Express

“Bosnia Express” di Massimo d’Orzi. Italia, 2021 ★★★★+

Uscito nelle sale all'inizio del mese scorso, quando già spiravano impetuosi a Est i venti di guerra abbattutisi sull'Ucraina, ne parlo a maggior ragione oggi, 8 marzo, quando ricorre la Giornata internazionale dei diritti della donna, come da dizione ufficiale. Ispirato all'omonimo libro di Luca Leone, pubblicato per la prima volta nel 2010 (Infinito Edizioni), Bosnia Express è qualcosa di parecchio diverso da un semplice documentario, e ha più che vedere con un racconto per immagini, parole e riflessioni che richiamano le sensazioni di chi è tornato in quella terra, flagellata dal conflitto degli anni Novanta di cui ancora sopporta le conseguenze. Partendo da Trieste in direzione Sarajevo su un treno che, successivamente, farà tappa a Srebrenica, Tuzla, Stolac, Mostar e Medjugorie, nell'Erzegovina, l'intenzione iniziale era di indagare sul ruolo avuto dalle tre religioni monoteiste (quella cristiana nelle due versioni cattolica e ortodossa) che lì hanno convissuto per secoli e sotto regimi diversi, nello scatenare la guerra, fornendo argomenti e giustificazioni a nazionalismi esacerbati ed etnicismi fuori luogo, che nulla avevano a che fare con la vita quotidiana di una popolazione abituala da sempre a vivere fianco a fianco e "contaminarsi" a vicenda, specie durante il periodo della Jugoslavia di Tito, ma la macchina da presa, e i microfoni, finiscono invece per cogliere frammenti di esistenza quotidiana nei diversi aspetti di una realtà, per quanto complessa, stratificata e ancora ferita, comunque viva, che guarda avanti, e che vede protagoniste soprattutto le donne le quali, al contempo erano state le prime e maggiori vittime della guerra (colpisce il diverso modo, si direbbe rituale, di stuprarle a seconda dell'appartenenza religiosa). Si va da una scuola di danza, a un'ateneo islamico in cui due giovani studentesse dialogano sul loro futuro a Sarajevo, un teatro di marionette e una scuola di rock a Mostar, ai luoghi di culto cattolici (con escursione a Medjugorie), ortodossi e alle moschee, a un coro di donne interetnico che si raduna ed esibisce nella stazione ferroviaria di Tuzla, testimonianze di intellettuali e militari, a cominciare da Jovan Divjak, già generale della JNA (l'Armata Popolare Jugoslava) che, benché serbo, durante l'assedio di Sarajevo comandò la Difesa Territoriale (ci sono anche, in un filmato del 1995, le farneticanti dichiarazioni di Ratko Mladić nei giorni della strage di Srebrenica). E' soprattutto attraverso l'arte che si cerca un terreno comune su cui costruire una convivenza e porre le basi per il futuro, e protagoniste ne sono innanzitutto le donne. Vittime d'elezione anche delle rispettive religioni, che a loro per prime hanno imposto divieti di ogni tipo, e che, in una sorta di inspiegabile Sindrome di Stoccolma, proprio nella fede hanno cercato conforto alle loro sofferenze, alimentando così indirettamente la spirale di incomprensione e odio. La Bosnia Erzegovina è come una baklava, il dolce diffuso dai Balcani a Istanbul fino al Caucaso, a tutto il Medio Oriente e all'Asia Centrale, fatto di mille sottolissime sfoglie farcite di noci tritate e spezie, arrotolate e imbevute in miele e in acqua di rose. Dolcissimo, sì, ma anche molto amaro. Non mi ha stupito apprendere che Massimo d'Orzi, che aveva esordito col teatro giovanissimo come regista teatrale, abbia frequentato la scuola di cinema diretta da Marco Bellocchio: l'influenza del grande maestro, in questo racconto sfaccettato e poetico, si vede, eccome. 

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