"Spencer" di Palbo Larraín. Con Kristen Stewart, Timothy Spall, Jack Farthing, Sean Harris, Jack Nielenm Freddy Spry, Stella Gonet, Richard Sammel e altri. Germania, Cile, Gran Bretagna 2021 ★★★★
Sono sei mesi, da quando è stato presentato, senza suscitare particolari entusiasmi, alla 78ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia, che prima di ogni film in sala si viene bombardati dal trailer di Spencer, e solo a vedere la figura sempre ingobbita, le movenze e le espressioni nevrasteniche di Lady D, il personaggio inventato dai media per imbesuire una volta di più centinaia di milioni di babbei in giro per il globo dietro alla favola della bella principessa infelice, l'icona pop dei "favolosi anni Ottanta", quelli che hanno definitivamente spappolato il cervello all'umanità intera, globalizzando la mancanza di prospettiva del cosiddetto Occidente, mi ero ripromesso di evitarlo come la peste, salvo scoprire, soltanto qualche giorno fa, che autore ne è Pablo Larraín. Sicuro che anche questa volta, come già in Jackie (e, prima, in Neruda), avesse utilizzato lo schermo del biopic per raccontare, o meglio immaginare, un personaggio attraverso un momento cruciale della sua esistenza: nel caso di Jacqueline Kennedy, in seguito Onassis, si trattava dei cinque giorni successivi all'attentato in cui rimase ucciso suo marito, e soprattutto l'intervista a Life, in cui costruì non soltanto mito di JFK ma anche il suo; nel caso di Diana Spencer, principessa del Galles, i tre giorni a cavallo del Natale del 1991, trascorsi a Sandringham House nel Norfolk, una delle residenze di campagna della famiglia reale, vicinissima peraltro a quella mezzo in rovina di Sandringham Park, appartenuta alla famiglia Spencer, dove Diana era nata e aveva trascorso l'infanzia; un soggiorno tormentato, durante il quale decise definitivamente di separarsi da Carlo, sposato dieci anni prima: il matrimonio del secolo, le cui immagini ci hanno perseguitato fino alla nausea e nutrito il voyeurismo di centinaia di milioni di persone. Scelta perfetta quella di Kristen Stewart, giunta alla fama per la saga di Twilight, ad impersonare i tormenti, le visioni, i dialoghi immaginari di Diana in quei giorni in cui ancora una volta dovette sottoporsi ai rituali di una famiglia, e di un ruolo, che non erano solo pubblici ma anche privati: perfino gli abiti da indossare per il tè, la cene, le colazioni, i pranzi le erano prescritti. Nessun sentimento doveva trasparire, ognuno conscio prigioniero del suo ruolo, una cosa che alla giovane donna e madre stava stretta, alle prese, per di più, con un marito fedifrago (Charles detto "Tampax") e tanto idiota e insensibile da fare lo stesso regalo, una collana di perle, a lei e alla sua amante, Camilla Parker-Bowles, peraltro presente alla messa di Natale. Il tutto in un'atmosfera irreale, fredda, tesa (manco i termosifoni venivano accesi), contraddistinta da riti demenziali, come quello del peso appena dopo l'arrivo e subito dopo la partenza, un'attenzione davvero delicata per una persona notoriamente in preda a disturbi alimentari come Diana, sottolineata da un commento musicale quasi ossessivo, da thriller, affidato a Jonny Greenwood, immaginando Diana presa dai suoi pensieri e umori ondivaghi, tra coscienza del ruolo e desiderio di libertà, alla ricerca non solo di conforto ma di confronto, che più facilmente trovava nel personale di servizio (la "gente comune" che l'amava e venerava) che nella famiglia e, tantomeno, nei funzionari, i servi sciocchi, della Corona. Brava l'attrice, davvero, a rendere tutte le contraddizioni di un personaggio così complesso e, alla fine indifeso. Ed è proprio il diverso rapporto coi media a segnare, a mio modo di vedere, la sua sorte: Jackie Kennedy li conosceva, li dominava e li utilizzava; Diana era, al contrario, stata fagocitata, inventata e manipolata a loro piacimento e ai loro scopi, e questo, direttamente o meno, l'avrebbe pagato con la vita. Rispetto a Jackie e a Neruda il film è forse meno incisivo, e i diversi piani di lettura a cui i film di Larraín ci avevano abituali in precedenza, sono qui più confusi, ma tale era, del resto, anche Diana Spencer, che già nella prima scena, mentre giunge per conto suo e all'insaputa della scorta dalle parti Sandringham a bordo di una Porsche Carrera, dice di non sapere dove trovarsi e chiede informazioni in tal senso in un'area di servizio dove le gente la guarda entrare come se fosse un'apparizione dell'altro mondo. Troverà sé stessa in un KFF di fronte con vista su Westminster e la Tower Bridge dopo essere fuggita dal maniero nel pomeriggio di quel Santo Stefano e aver ordinato del pollo fritto al drive-in identificandosi con il suo cognome: Spencer. Non Windsor. Qualche anno dopo, troverà anche la sua fine, ma questo il film non lo dice. Semmai fa presagire una sorte di cui tutti sappiamo l'esito, ma non la verità. Nonostante tutte le perplessità e i pregiudizi iniziali, in quota a una donna che, per quanto giovane e ingenua avrebbe dovuto capire da sola in quali guai si stese cacciando sposando non solo un imbecille, ma entrando a fare parte di una famiglia di sepolcri imbiancati, un film non banale e comunque ben fatto, per nulla agiografico e che fa pensare. Soprattutto alle manipolazion mediatiche, quanto mai attuali.
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