mercoledì 15 gennaio 2020

Hammamet

"Hammamet" di Gianni Amelio. Con Pierfrancesco Favino, Livia Rossi, Luca Filippi, Silvia Cohen, Alberto Paradossi, Renato Carpenteri, Roberto De Francesco, Omero Antonutti, Giuseppe Cederna, Claudia Gerini. Italia 2020 ★★★★-
Sono stato fin da prima della sua fondazione sostenitore, abbonato e lettore de Il Fatto Quotidiano, ma quando diventa il capofila di tutti quelli che giudicano l'ultimo film di Gianni Amelio l'agiografia da santo laico per Craxi e una sua totale assoluzione non sono d'accordo. Sono nato a Milano, conosco piuttosto bene ambiente e personaggi del riformismo ambrosiano prima e della città da bere berlusconizzata grazie all'avvento e all'appoggio di Craxi alla guida del PSI poi, quella dei ruggenti anni Ottanta che a mio parere sono stati l'avvio del disfacimento probabilmente irreversibile di questo Paese da tutti i punti di vista, facendomi odiare la città dove pure ho vissuto per oltre due terzi della mia vita. Pur avendo in qualche occasione votato socialista (non c'era altra scelta, se volevi contrastare in qualche modo il viscido e ammorbante strapotere democristiano, di cui il PCI era a mio avviso al contempo sia la condizione, o ragion d'essere, sia il corrispettivo - il clericalismo rosso, lo chiamavo, a tratti fascismo rosso - a meno di non buttare il voto nel velleitarismo dell'estrema sinistra o darlo a Pannella), non ho mai sopportato Craxi e quelli di cui si circondava, eppure questa santificazione del Cinghialone io non l'ho proprio percepita. Com'è noto la pellicola ricostruisce gli ultimi mesi di vita dell'ex leader socialista nel suo buen retiro di Hammamet in Tunisia dopo esservisi rifugiato fuggendo dall'Italia in seguito a due condanne definitive riportate in seguito alle inchieste su Tangentopoli, pur senza chiamare col suo nome né il personaggio principale, interpretato magistralmente da Pierfrancesco Favino, né i suoi famigliari né i pochi personaggi che lo vengono a trovare o che avevano a che fare con lui: all'inizio del film, quando viene ricostruito il congresso del 1989 all'ex Ansaldo di Milano, quello della "piramide"di Panseca, una delle archistar del craxismo rampante di allora, appare Vincenzo, una specie di filo conduttore del film, un ex operaio che intravede l'inizio della fine proprio nel momento del trionfo del Capo, il quale, pur essendo stato messo a fare il cassiere della tangenti, funge da coscienza critica: si può identificare in Primo Moroni, poi suicida, e come lui più o meno tutti gli altri sono individuabili, ma non è questo il punto: Amelio ritrae l'uomo Craxi per quello che era in un momento particolare, definitivo della sua vita, quando non è più l'uomo di potere ma semplicemente, per l'appunto, un uomo, sé stesso. Sempre più malato (al diabete di cui soffriva già da qualche anno si erano aggiunti gotta, scompensi cardiaci e pure un tumore), rancoroso, disorientato. Di cui il regista non edulcora i tratti sgradevoli del carattere, che erano tanti: iracondo, volubile, sarcastico, egoista, capriccioso, ma anche tanto, troppo insicuro, nonostante le apparenze. Mai una volta nel film si sente pronunciare la parola esilio, oppure esule: è Craxi-Favino a dire, una sola volta, di essere stato giudicato in contumacia, nulla più. Interessante, credibile è il modo in cui vengono rappresentati i rapporti interpersonali, a cominciare da quelli famigliari con la moglie, che da una vita sopporta serenamente rassegnata i suoi lunatismi, così simile ad Anna Craxi, mentre la figlia Stefania deve ringraziare Amelio di averla fatta interpretare da Livia Rossi dandole il nome di Anita (come la moglie di Garibaldi, personaggio amato da Craxi) che ne attenua l'arrogante sgradevolezza tanto caratteriale quanto fisica; il figlio che inutilmente cerca un rapporto col padre e al contempo una dimensione propria; l'amante che non lo abbandona nella disgrazia, non lo tradisce e va a Tunisi per rivederlo un'ultima volta; e poi il vecchio democristiano che rendendogli visita da "ex avversario, mai nemico", gli consiglia di rientrare in patria, ché tanto alla fine gli italiani dimenticano e perdonano tutto (altra duetto memorabile, quello tra Favino e Carpenteri). Meno convincenti altre figure, a cominciare da Fausto (e Luca Filippi che lo interpreta: imbarazzante), il figlio di Vincenzo, che penetra nella villa clandestinamente e poi viene accolto da colui che ritiene responsabile del suicidio del padre, combattuto tra vendetta e testimonianza, che filma le dichiarazioni dell'ex politico con una telecamerina e al contempo porta nello zainetto la pistola con cui vuole vendicare il padre: finirà in manicomio, anni dopo; così come il flash back eccessivamente simbolista in cui a Craxi compare in sogno il padre (Omero Antonutti nella sua ultima parte prima del recente decesso) e il sé stesso bambino discolo che spacca i vetri del collegio con una fionda: probabilmente l'ultimo sogno prima di accasciarsi su una sedia a rotelle e spirare, il 19 gennaio del 2000, giusto 20 anni prima dell'uscita del film nelle sale. Che non è il migliore di quelli di Amelio, però Favino da solo vale il prezzo del biglietto, e comunque ha il merito di dirci qualcosa di noi raccontando una figura politica che, nel bene o nel male, ha avuto un ruolo importante nella nostra storia recente e  rispetto alla quale, come alle altre della sua epoca, gli epigoni attuali sono dei nani, altro che quelli che, assieme alle ballerine, facevano parte dell'entourage del fu Benedetto Craxi detto Bettino. Ottima la fotografia, le riprese sono state fatte nella residenza tunisina dei Craxi, messa a disposizione dalla famiglia; la colonna sonora, di Nicola Piovani, si compone di un solo pezzo, l'Internazionale, via via sempre più destrutturata fino al disfacimento, come quello del PSI, del suo ultimo leader e della politica in questo Paese.

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