martedì 21 gennaio 2020

31 Trieste Film Festival - 3ª round


Terzo e ultimo giorno di proiezione di lungometraggi in gara: per una questione di orari e per non rischiare un'overdose, e non per un rigurgito filo serbo come si potrebbe sospettare da parte mia, ho rinunciato a "Zana" di Antoneta Kastrati, Kosovo-Albania 2019, che altri clienti del festival mi assicurano invece sarebbe valso la pena. Tant'è: la sequenza temporale dei film visti ieri riproduce il mio indice di gradimento in ordine decrescente.
Primo posto sul podio per "Oleg" di Juris Kursietis, Lettonia, Belgio, Lituania, Francia 2019, che oltre a essere un bel film, ha il merito di mettere il dito nella piaga di situazioni di cui tutti sanno, autorità e media, ma pochi parlano e, meno ancora, a cominciare da polizia e magistratura (per non parlare dei politici, ignavi quando non utili idioti) affrontano: ossia dello sfruttamento di immigrati da parte di altri immigrati in ambito comunitario, e stavolta non nella solita Gran Bretagna (peraltro levatasi di torno con le conseguenze che si potranno valutare tra qualche tempo), in Francia o in Italia, quanto nel cuore stesso della UE, ossia Bruxelles. Oleg è un giovane macellaio con passaporto lettone ma non cittadino di quello Stato, perché appartenente alla consistente minoranza russa (che, nella capitale Riga, è numericamente quasi pari agli indigeni) che ottiene un permesso esclusivamente per essere assunto da una ditta di lavorazione delle carni; un collega lo accusa ingiustamente di avergli causato l'amputazione di un dito e viene licenziato, e finisce così nelle grinfie di un malfattore polacco, che lo circuisce assicurandogli di volerlo aiutare e riducendolo in una condizione di quasi schiavitù, affidandogli mansioni umilianti e compromettenti, non pagandolo, sequestrandogli i documenti, cosa che peraltro fa anche con i suoi connazionali. E' della odissea di questo poveraccio che parla Oleg, della responsabilità di chi è al corrente di queste vicende ma preferisce ignorarle, perché alla fine fa comodo così, e lo fa in maniera efficace soprattutto con le immagini, spesso livide, e seguendo il protagonista, che si vede come una sorta di agnello sacrificale abbandonato perfino dal dio in cui crede, l'ottimo Valentin Novopolskij, camera in spalla rendendone l'angoscia e la condizione claustrofobica.
Secondo posto per "Oroslan" di Matjaž Ivanišin, Slovenia-Repubblica Ceca 2019, il cui inizio, con lunghe inquadrature fisse sul paesaggio, le case, le attività quotidiane di un villaggio abitato dalla minoranza slovena appena passato il confine con l'Ungheria, in una giornata invernale lasciano presagire una triste e noiosa flagellatura di zebedei, ma invece sono funzionali a un'idea originale: far rivivere Oroslan, il nome di un anziano che viveva da solo trovato morto nella sua casa, attraverso il racconto, qualche mese dopo e durante dei suoi compaesani, fatto dagli autentici abitanti del villaggio che si sono improvvisati attori, contribuendo non soltanto coi loro volti, il loro linguaggio (spesso un'ibridazione sloveno-magiara) e i loro modi allo spunto dato al regista e sceneggiatore da un racconto di Zdravko Duša e ambientato invece appena oltre il nostro confine, a Tolmino. Oroslan (peraltro un esperto e rinomato macellaio come l'Oleg del film precedente) finisce per essere dunque una presenza assente, mai evocata nemmeno in fotografia, un'immagine creata dal racconto orale di chi lo conosceva da vivo, un'idea suggestiva e originale del regista e sceneggiatore sloveno, il quale confeziona  una pellicola che non si lascia definire e che si colloca tra la finzione e il documentario, come spesso avviene per i lavori di Ivanišin.
Terzo posto per "Kot w scianie" (Un gatto nel muro) di Mina Mileva e Vesela Kazakova, Bulgaria 2019, che era il film da cui mi aspettavo di più e per cui ho avevo rinunciato a Zana di cui dicevo all'inizio, che vuole essere originale e pure divertente ma alla fine, mettendo troppa carne sul fuoco e in maniera velleitaria e usando uno stile troppo indie per i miei gusti, e quindi manierato, finisce in un guazzabuglio in cui si vuole ficcare a ogni costo ingredienti eterogenei e dove a dominare sono invece la confusione e la gara a chi urla di più. Non mancano spunti e trovate simpatiche, ma pure una serie di luoghi comuni frusti in una storia, anche questa ispirata ad avvenimenti reali, nella fattispecie un fatto accaduto a una delle due registe, di due fratelli bulgari che vivono in un condominio popolare in via di ristrutturazione a Londra, architetto e barista in un pub con un figlio lei, accademico in storia e installatore di antenne paraboliche avventizio lui, che mette insieme aspirazioni frustrate, pregiudizi razziali e non, il mito di Londra come una sorta di Mecca per "sfondare", una realtà di uno squallore raro, il tutto innescato da un povero micio che, disorientato dal casino creato per contenderselo, va a rifugiarsi nel buco non otturato nel muro risultato di un lavoro fatto col culo da chi ha installato la caldaia nella casa della protagonista (suo fratello, peraltro). Piuttosto bravi gli interpreti, a cominciare dal gatto, che risultano alla fine più simpatici del film. 

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