"Corpus Christi" (Boze Cialo) di Jan Komasa. Con Bartosz Bielenia, Eliza Rycembel, Aleksandra Konieczna, Tonas Zitiel, Barbara Kurzaj, Tomas Zitiek, Leszek Likota, Lukasz Simlat e altri. Polonia 2019 ★★★★½
Nome non nuovo nella sempre fiorente cinematografia polacca, Jan Komasa fa il botto con questo film profondo, potente, dalla trama inconsueta che pur trae spunto da alcuni fatti reali accaduti in Polonia e che ha per tema non tanto e non solo il modo di vivere la religione per quel Paese così profondamente cattolico, ma scava nelle contraddizioni di tutti i personaggi di un film corale ma che trae forza dall'intensa interpretazione di un giovane, bravissimo attore, Bartosz Bielenia. Che impersona Daniel, un giovane che vorrebbe entrare in seminario e diventare prete ma non può visto il suo passato in riformatorio per aver pestato a morte un rivale durante una lite furibonda: quando viene lasciato in libertà vigilata per lavorare in una segheria di un paesino distante dal luogo di reclusione, il suo sogno si realizza perché viene accolto come il nuovo assistente dell'anziano parroco, e scambiato per sacerdote per primo da quest'ultimo, dalla sua perpetua e dalla figlia di questa, Marta. Daniel sta al gioco, fino a sostituire per un periodo il titolare della parrocchia, colto da malore (anche a causa delle abbondanti libagioni ad alta gradazione alcolica) e assente per un periodo di cura, rivelando uno straordinario talento e facendosi benvolere dagli abitanti, sia quelli più giovani sia quelli più anziani. Proprio la sua conoscenza del lato oscuro dell'esistenza, fatto di droga, sesso, violenza, imbrogli, lo porta a entrare in sintonia con quello del prossimo, e quindi lo aiuta a trovare le parole giuste, sia nelle omelie, sia nelle diatribe che dividono la comunità e che richiedono il suo intervento, a cominciare dal rifiuto di quasi tutti gli abitanti di permettere le esequie in chiesa e la sepoltura in paese di un loro concittadino ritenuto responsabile di un incidente automobilistico avvenuto ancora un anno prima in cui morirono sei ragazzi coetanei della figlia della perpetua e, più o meno, di Daniel stesso e che hanno dichiarato un ostracismo totale alla sua vedova. Il falso prete, prima di essere scoperto tale da quello vero (quello cui faceva da assistente al riformatorio) di cui ha preso il nome (e l'abito talare), riuscirà a comporre perfino questa frattura, impegnandosi allo spasimo soprattutto dopo che Marta gli avrà mostrato un video pubblicato poco prima dell'incidente che conferma, cosa che lui già sospettava, che i sei deceduti erano saliti in macchina non solo in soprannumero ma totalmente ubriachi e pieni di cocaina: nessun sospetto era venuto in questo senso ai "bravi e onesti" genitori e parenti, che anzi avevano tempestato la povera vedova del presunto colpevole di lettere minatorie e offensive, che Daniel fa rileggere una per una a chi le ha scritte. Eh già, ma dove sta la capacità di perdonare, primo insegnamento del Cristo a cui tutti si rivolgono? E perché la chiesa non è in grado di farlo con un suo fedele, non ammettendolo al sacerdozio, quando si rivela nei fatti molto più capace e umano, nelle sua contraddizioni, dei "professionisti"? Belle domande, che il film pone, fra gli altri spunti di riflessione, in un film esemplare. Da vedere.
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