sabato 19 giugno 2021

Oldboy

"Oldboy" (올드보이) di Park Chan-wook. Con Choi Min-sik, Ji tae-Ju, Hye-jeong Kang, Dae han-Ji, Oh Dal-soo, Byeong-ok Kim e altri. Corea del Sud, 2003 ★★★★

Oscuro, claustrofobico, ossessivo ed eccessivo, riemerge dal passato in versione restaurata un caposaldo del nuovo cinema coreano, tratto da un manga giapponese, e premiato nel 2004 al Festival di Cannes col Gran Premio Speciale della giuria presieduta, non a caso, da Quentin Tarantino per l'occasione. L'avevo visto ai tempi e, per quanto possa essere disturbante, non ho perso l'occasione per apprezzarlo una seconda volta, a 15 anni di distanza, rimanendone nuovamente turbato: perché è impossibile non rimanere coinvolti in questo viaggio nell'allucinazione e nei meandri malati della psiche umana. Dae-su è un autentico cretino, vacuo, dalla parlantina irrefrenabile, che troviamo in stato di fermo in una stazione di polizia dove con la sua logorrea infastidisce chiunque abbia a portata di voce, fermato per ubriachezza molesta proprio nel giorno del quarto compleanno della figlia, che aveva puntualmente dimenticato preferendo la bottiglia ma portando con sé due ali d'angelo di cartone che le aveva preso per regalo: recuperato da un suo amico e vecchio compagno di studi che ha garantito per lui, sparisce misteriosamente una volta varcata la soglia del commissariato. Scomparso, in realtà sequestrato da sconosciuti e recluso, per ben 15 anni, in una cella che ha l'aspetto di una stanza d'albergo piuttosto squallida, situata in una sorta di prigione privata situata in un grattacielo della metropoli. Ne ignora la ragione, pur avendo la coscienza sporca, e trascorre tutto quel tempo, durante il quale scopre che la moglie è stata uccisa e che lui è ritenuto il sicuro responsabile, coltivando un desiderio di vendetta che diventa esplosivo e cresce col passare del tempo. Una volta fuori, cerca il responsabile della sua detenzione e brutalizzerà chiunque troverà sul suo cammino, ma scoprirà presto che non di vera libertà si tratta, ma di essere tutt'ora, e ancora di più, impigliato nella rete tesa dal suo persecutore: un suo vecchio compagno di scuola, Woo Jin, che lo induce, passo per passo, a scoprire le ragioni della punizione che ha deciso di infliggergli. Ovviamente non è il caso di svelare altro, ma si va a finire in un implacabile intreccio incestuoso, e la vera vendetta è quella del rapitore, un atto di "giustizia", di cui è disposto a pagare il prezzo con la vita, per dimostrare la profonda verità di un proverbio la cui validità è universale: ne uccide più la lingua che la spada. Nonostante l'argomento, la violenza, la cupezza, regìa perfetta, interpreti perfetti, tensione allo spasimo, fotografia eccezionale. Non me la sento di consigliarlo a chiunque perché non è una passeggiata: però è grande cinema.

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