"Il segreto della miniera" di Hanna Antonina Wojcik-Slak. Con Leon Lučev, Marina Redžepović, Zala Djurić Ribić, Boris Cavazza, Maj Klemenc, Tin Marn, Nikolaj Burger. Slovenia-Bosnia Erzegovina 2017 ★★★★★
Dopo essere stato presentato nel 2018 al Trieste Film Festival, dove è stato premiato dalla Giuria Giovani, è apparso finalmente nelle sale Il segreto della miniera, cui sarebbe stato più opportuno e meno fuorviante conservare il titolo originale, Rudar, che tradotto significa Il muratore: un film magnifico, essenziale, toccante, tratto da una storia vera, raccontata nell'autobiografia dal minatore bosniaco Mehmedalija Ali No one, pubblicata nel 2013: una vicenda di morti cancellate, di desaparecidos, di rimozione della memoria, che si ripete nel tempo, oggi come ieri, tragicamente e ciclicamente, ovunque. E' il 1995 quando l'adolescente Alja Bašić, nel corso del conflitto jugoslavo, lascia il suo villaggio, e l'amata sorella Mirsada, in Bosnia per emigrare in Slovenia, dove rimarrà, come centinaia di altri conterranei, a lavorare in miniera, formandosi una famiglia. Nel 2007, nel pieno di un periodo di conversioni industriali e ristrutturazioni societarie, proprio lui verrà incaricato, per la sua esperienza, di ispezionare una miniera di carbone chiusa dalla fine della seconda guerra mondiale e stilare un rapporto che certifichi che è vuota, prima che i nuovi amministratori (i tipici, arroganti mannagger e tagliatori di teste uguali dappertutto) la mettano in vendita. Peccato che vuota non è, perché Alja Bašić, così si chiama il minatore magnificamente interpretato da Leon Lučev, vi scopre le fosse che contenevano i resti di oltre 4000 rifugiati civili, e non militari nazisti o collaborazionisti come qualcuno aveva fatto intendere, minimizzando, spediti dagli inglesi dai campi profughi in Austria verso Trieste e rimasti vittime di una strage compiuta dai vincitori nella località della Slovenia centrale in cui è stata mirabilmente girata la pellicola dalla regista Hanna Slak. La polizia, le autorità e la popolazione locale sanno, ma tacciono: salvo l'anziano Lojze, un emigrato in Australia di ritorno che in quella oscura e dimenticata vicenda ha perso una parte della famiglia, per anni alla ricerca delle prove. Pur invitato a lasciar perdere, e poi minacciato, Alja continua a estrarre dalla miniera e ad accumulare testimonianze della sua scoperta: indumenti, scarpe, trecce di capelli, e denuncia immediatamente i ritrovamenti alle autorità, che però prima cominciano a far sentire il fiato sul collo a lui e alla famiglia per questioni burocratiche pretestuose (viene qui accennata la vergognosa vicenda degli izbrizani, raccontata nell'altro bel film presentato al Trieste Film Festival di quest'anno, I cancellati) fino ad arrestarlo. Alja però non abbasserà la testa, questa volta, e troverà il modo e la forza di spiegare alla figlia Elma, peraltro coinvolta nelle proteste di lavoratori e studenti che nel decennio scorso hanno percorso la Slovenia, i motivi della sua ostinazione, ossia che è l'unico superstite maschio della strage di Srebrenica, avvenuta nel 1995, in cui la sorella Mirsada, divenuta nel frattempo maestra di scuola, perse la vita per aver tentato di salvare i suoi alunni. Lo chiameranno anche un film minimalista, ma è un gioiello raro, un film potente come pochi, asciutto, intenso, vero. Chi ne è l'autore, e anche chi lo interpreta, sa di cosa parla. E usa un linguaggio universale, comprensibile per chi vuol capire, e non dimenticare.
Dopo essere stato presentato nel 2018 al Trieste Film Festival, dove è stato premiato dalla Giuria Giovani, è apparso finalmente nelle sale Il segreto della miniera, cui sarebbe stato più opportuno e meno fuorviante conservare il titolo originale, Rudar, che tradotto significa Il muratore: un film magnifico, essenziale, toccante, tratto da una storia vera, raccontata nell'autobiografia dal minatore bosniaco Mehmedalija Ali No one, pubblicata nel 2013: una vicenda di morti cancellate, di desaparecidos, di rimozione della memoria, che si ripete nel tempo, oggi come ieri, tragicamente e ciclicamente, ovunque. E' il 1995 quando l'adolescente Alja Bašić, nel corso del conflitto jugoslavo, lascia il suo villaggio, e l'amata sorella Mirsada, in Bosnia per emigrare in Slovenia, dove rimarrà, come centinaia di altri conterranei, a lavorare in miniera, formandosi una famiglia. Nel 2007, nel pieno di un periodo di conversioni industriali e ristrutturazioni societarie, proprio lui verrà incaricato, per la sua esperienza, di ispezionare una miniera di carbone chiusa dalla fine della seconda guerra mondiale e stilare un rapporto che certifichi che è vuota, prima che i nuovi amministratori (i tipici, arroganti mannagger e tagliatori di teste uguali dappertutto) la mettano in vendita. Peccato che vuota non è, perché Alja Bašić, così si chiama il minatore magnificamente interpretato da Leon Lučev, vi scopre le fosse che contenevano i resti di oltre 4000 rifugiati civili, e non militari nazisti o collaborazionisti come qualcuno aveva fatto intendere, minimizzando, spediti dagli inglesi dai campi profughi in Austria verso Trieste e rimasti vittime di una strage compiuta dai vincitori nella località della Slovenia centrale in cui è stata mirabilmente girata la pellicola dalla regista Hanna Slak. La polizia, le autorità e la popolazione locale sanno, ma tacciono: salvo l'anziano Lojze, un emigrato in Australia di ritorno che in quella oscura e dimenticata vicenda ha perso una parte della famiglia, per anni alla ricerca delle prove. Pur invitato a lasciar perdere, e poi minacciato, Alja continua a estrarre dalla miniera e ad accumulare testimonianze della sua scoperta: indumenti, scarpe, trecce di capelli, e denuncia immediatamente i ritrovamenti alle autorità, che però prima cominciano a far sentire il fiato sul collo a lui e alla famiglia per questioni burocratiche pretestuose (viene qui accennata la vergognosa vicenda degli izbrizani, raccontata nell'altro bel film presentato al Trieste Film Festival di quest'anno, I cancellati) fino ad arrestarlo. Alja però non abbasserà la testa, questa volta, e troverà il modo e la forza di spiegare alla figlia Elma, peraltro coinvolta nelle proteste di lavoratori e studenti che nel decennio scorso hanno percorso la Slovenia, i motivi della sua ostinazione, ossia che è l'unico superstite maschio della strage di Srebrenica, avvenuta nel 1995, in cui la sorella Mirsada, divenuta nel frattempo maestra di scuola, perse la vita per aver tentato di salvare i suoi alunni. Lo chiameranno anche un film minimalista, ma è un gioiello raro, un film potente come pochi, asciutto, intenso, vero. Chi ne è l'autore, e anche chi lo interpreta, sa di cosa parla. E usa un linguaggio universale, comprensibile per chi vuol capire, e non dimenticare.
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