"Downton Abbey" di Michael Engler. Con Hugh Bonneville, Jim Carter, Michelle Dockery, Allen Leech, Robert James-Collier, Elizabeth McGovern, Maggie Smith, Imelda Staunton, Penelope Wilton, Tuppence Middleton, Brendan Coyle e altri. GB 2019 ★★★½
Pur essendo un buon fruitore di serie televisive, non ho mai visto finora una puntata di Downton Abbey, produzione britannica di 52 puntate per 6 stagioni, che narra le vicende ambientate in piena Belle Epoque, tra il 1912 e il 1926, dell'aristocratica famiglia Crawley, proprietaria terriera e di una sontuosa dimora nello Yorkshire e della sua numerosa servitù, di cui questo film dello stesso autore, e con pressoché per intero il medesimo cast, è il sequel collocato nel 1927, quando si immagina che la coppia reale, ossia Giorgio V e la regina Mary, i nonni dell'attuale Elisebetta II, abbia soggiornato nel maniero in occasione di una parata e di un ballo per un giorno e una notte, portando con sé il proprio esercito di lacché e addetti alle varie funzioni, i quali entreranno inevitabilmente in conflitto con la servitù locale dei Crawley, che farà del suo meglio per dimostrare, come i suoi padroni, di essere all'altezza della situazione. Nulla che valga la pena di svelare sulla trama: si tratta del consueto autoincensamento da parte degli inglesi di sé stessi e dei bei tempi andati e di una giustificazione del loro innato classismo che perlomeno ha il pregio dell'autoironia e di un umorismo tutto particolare e quasi universalmente apprezzato. Se lo si prende come un divertissement, quale è, considerata la dimestichezza britannica con l'argomento, la capacità di raccontare storie, la tradizione teatrale e l'altissimo livello degli interpreti e l'abilità nel promuovere quello che da sempre è il primo prodotto d'esportazione delle isole d'Oltre Manica, ossia la Famiglia Reale, il film è quanto di più godibile e rassicurante si possa immaginare, e quindi il modo ideale per trascorrere due ore rilassanti in una sala cinematografica, unendo l'utile di ascoltare e ripassare la lingua di Shakespeare non deturpata da pronunce che la rendono indigesta come quella americana, australiana o di altri territori del Commonwealth, al dilettevole di una commediola ben fatta, con un'attenzione ai dettagli maniacale nell'ambientazione d'epoca come nel linguaggio utilizzato dai diversi personaggi a seconda della classe d'appartenenza; scambi di battutte intelligenti e a volte fulminanti; l'inevitabile happy end (anzi: un happy end multiplo, dato che tutte le sottostorie hanno il migliore degli esiti possibile, che peraltro sono forieri di un ulteriore sequel su grande schermo). L'ironia vuole che la Royal Family, il massimo del brit sia d'origine tedesca; che il film si chiuda con un ballo sulle note di walzer viennesi e che gli altri due maggiori prodotti d'esportazione dal Regno Unito da un secolo in qua siano una band musicale di Liverpool i cui due fondatori, Lennon e McCartney, sono di chiare origini irlandesi e la Mini Minor, progettata da un greco, l'ignegner Issigonis.
Pur essendo un buon fruitore di serie televisive, non ho mai visto finora una puntata di Downton Abbey, produzione britannica di 52 puntate per 6 stagioni, che narra le vicende ambientate in piena Belle Epoque, tra il 1912 e il 1926, dell'aristocratica famiglia Crawley, proprietaria terriera e di una sontuosa dimora nello Yorkshire e della sua numerosa servitù, di cui questo film dello stesso autore, e con pressoché per intero il medesimo cast, è il sequel collocato nel 1927, quando si immagina che la coppia reale, ossia Giorgio V e la regina Mary, i nonni dell'attuale Elisebetta II, abbia soggiornato nel maniero in occasione di una parata e di un ballo per un giorno e una notte, portando con sé il proprio esercito di lacché e addetti alle varie funzioni, i quali entreranno inevitabilmente in conflitto con la servitù locale dei Crawley, che farà del suo meglio per dimostrare, come i suoi padroni, di essere all'altezza della situazione. Nulla che valga la pena di svelare sulla trama: si tratta del consueto autoincensamento da parte degli inglesi di sé stessi e dei bei tempi andati e di una giustificazione del loro innato classismo che perlomeno ha il pregio dell'autoironia e di un umorismo tutto particolare e quasi universalmente apprezzato. Se lo si prende come un divertissement, quale è, considerata la dimestichezza britannica con l'argomento, la capacità di raccontare storie, la tradizione teatrale e l'altissimo livello degli interpreti e l'abilità nel promuovere quello che da sempre è il primo prodotto d'esportazione delle isole d'Oltre Manica, ossia la Famiglia Reale, il film è quanto di più godibile e rassicurante si possa immaginare, e quindi il modo ideale per trascorrere due ore rilassanti in una sala cinematografica, unendo l'utile di ascoltare e ripassare la lingua di Shakespeare non deturpata da pronunce che la rendono indigesta come quella americana, australiana o di altri territori del Commonwealth, al dilettevole di una commediola ben fatta, con un'attenzione ai dettagli maniacale nell'ambientazione d'epoca come nel linguaggio utilizzato dai diversi personaggi a seconda della classe d'appartenenza; scambi di battutte intelligenti e a volte fulminanti; l'inevitabile happy end (anzi: un happy end multiplo, dato che tutte le sottostorie hanno il migliore degli esiti possibile, che peraltro sono forieri di un ulteriore sequel su grande schermo). L'ironia vuole che la Royal Family, il massimo del brit sia d'origine tedesca; che il film si chiuda con un ballo sulle note di walzer viennesi e che gli altri due maggiori prodotti d'esportazione dal Regno Unito da un secolo in qua siano una band musicale di Liverpool i cui due fondatori, Lennon e McCartney, sono di chiare origini irlandesi e la Mini Minor, progettata da un greco, l'ignegner Issigonis.
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