venerdì 19 maggio 2017

Serenissima desolazione


Da che ho memoria, Venezia per me ha sempre avuto un significato speciale. Tutta la mia famiglia da parte paterna ha sempre avuto un legame viscerale con la città, a prescindere da mia nonna che ci era nata, per averci studiato e anche lavorato, a cominciare da mio nonno alla fine dell'800, e anche molto più indietro, essendo gli Scaini originari di quella parte confinaria del Friuli ai tempi governata e comunque sotto l'influenza diretta della Repubblica, insomma la zona descritta da Ippolito Nievo ne Le confessioni di un italiano, meritorio romanzo ottocentesco ai più sconosciuto a scapito de I promessi sposi. Fin da quando ero piccolo, a Venezia ci andavo almeno un paio di volte all'anno, e le visite si sono vieppiù infittite, avendo la disponibilità di un alloggio di famiglia, specie in occasione del mio onomastico, il 25 aprile, festa della Liberazione, del "bòcolo" ma, soprattutto, dell'Evangelista, di cui non a caso porto orgogliosamente il nome: festeggiarlo nella "nostra" città d'elezione è stata a lungo una tradizione che ho rispettato fino agli inizi degli anni Novanta, quando a mio avviso il degrado, iniziato come minimo agli inizi degli anni Sessanta, con il progressivo spopolamento, ha raggiunto il punto di non ritorno. Sì, certo: il declino dallo zenit della potenza era già cominciato nel '500, ma la città aveva saputo reinventarsi e svolgere comunque un ruolo consono alla sua gloria fino alla metà del secolo scorso, poi si è persa e la responsabilità, lo dico fin da subito, è in gran parte dei veneziani stessi, a cominciare da coloro che hanno scelto per farsi amministrare. Che uno Stato pagliaccesco e cialtrone come quello italiano non fosse in grado di capire quali pericoli corresse la città più bella e più fragile del mondo, e quindi come arginarlo, avrebbero dovuto saperlo per esperienza pregressa: l'unica possibilità era una vera presa di coscienza in ambito locale a cominciare dalla cittadinanza stessa, ma è accaduto il contrario, col risultato che la città è completamente snaturata, oltraggiata, verrebbe da dire stuprata perfino da cadavere, ché è quello che ormai sembra essere, o almeno entrata in coma irreversibile. Un parco a tema, ormai, il cui svolgimento è segnato e ineluttabile, di cui uguale all'originale rimane solo il titolo: Venezia. Una sensazione angosciosa, sempre più una certezza, mi pervade a ogni nuova visita, sempre più rara e sempre più veloce, per non concedermi nemmeno il tempo di rendermi del tutto conto dello scempio perpetrato tra una puntata in Laguna e l'altra. Ieri l'ultima della serie, a oltre un anno di distanza da quella precedente e a tre da quella ancora prima, nonostante da quasi vent'anni abiti a poco più di un'ora da Piazza San Marco: il pretesto è stata la mostra "Jheroninus Bosch e Venezia" che si tiene a palazzo Ducale fino al 4 giugno (da non perdere se ne avete l'occasione). Sceso dal treno a Santa Lucia, già uno si sente oppresso da frotte di turisti sbracati e possibilmente in infradito e già alle prese con un piatto di spageti bolognaise con capusino o la prima pinta di birra alle 10 del mattino e dal tanfo di kebap, fritti improbabili e anglosassoni bercianti come mai farebbero a casa loro, tutti armati di smartphone con attivato Google Maps, per cui si aggirano tra le calli con sicumera pari alla disattenzione verso ciò che non vedono, a cominciare da coloro contro cui vanno a sbattere; ci si mettono anche nugoli di asiatiici subcontinentali fastidiosi come insetti che insistono per vendere "bacchette da selfie" e che non si danno nemmeno la briga di distinguere tra turisti da sbarco e da diporto e normali visitatori o cittadini, per non parlare dei farabutti nostrani e d'importazione comunitaria: ne ho beccati un gruppetto che aveva allestito un banchetto di gioco delle tre carte in cima al Ponte dell'Accademia: indisturbato tanto dai tutori dell'ordine statali quanto da quelli locali (e fin qui poco male, se infinocchiano dei mentecatti). Lasciamo stare i banchetti e negozi di carabattole e souvenir indecenti ovunque, dove chi ha concesso le licenze è molto più colpevole di chi esercita il commercio da abusivo, perché Venezia è ormai un suq a cielo aperto, e sono sempre meno i negozi di qualità, anche nei dintorni di San Marco e Rialto, salvo oasi come Calle XX Marzo, dove la concentrazione di vetrine di extralusso (e il nitore della sede stradale) è uguale se non maggiore a quella di Via Montenapoleone a Milano o Via Condotti a Roma: si va da un estremo all'altro senza che ci sia una via di mezzo, pensata per gente normale, che abiti o visiti la città. 



Ma l'oltraggio è stato in Strada Nuova, andando verso Rialto, quando sono incocciato nell'edifiicio liberty che ospitava il Cinema Teatro Italia (in una città che è sede di uno dei festival cinematografici più prestigiosi al mondo, mi risultano in attività un paio di esercizi in centro e uno al Lido), dalla fine dell'anno scorso sede di un supermercato Despar. E non mi raccontino che ce n'era necessità per gli abitanti del Sestiere, Cannaregio, ancora uno dei più abitati e popolari: c'è una Coop praticamente di fronte e un'altra, ancora più grande, poco più oltre (e così via i mercati e i negozi di prossimità: e avanti con supermercati e magari centri commerciali!). E così sempre sulla stessa arteria MerDonalds, Wild West (con tanto di terrazza con vista sui canali), a avanti con gli onnipresenti  simboli del consumismo globalizzato e ciarlatano, quando va bene finti bacari dove la "venezianità" non va oltre a indecorose imitazioni dei cicchetti tradizionali, perfino i ristoranti che provano a "darsi un tono" hanno personale prevalentemente esotico (definiamolo così) e pure quello nazionale non ha nemmeno la più vaga idea di cosa siano dei bigoli in salsa o un risotto di castradure o ai bruscandoli, come siano fatti un go oppure un bisato, o anche soltanto un fegato alla veneziana. Ma tanto chi se ne frega? Il turista intruppato e smutandato ingoia tutto, perfino l'euro e mezzo che i cessi a gestione comunale fanno pagare per una pisciata (senza che la macchinetta dia il resto), e il foresto che ha comprato le abitazioni dai veneziani che non potevano mantenerle e men che mai ristrutturarle (ci pensano loro con gusto da architetto milanese) ci viene solo per l'Aperol Spritz con pediluvio nel canale un paio di volte l'anno o per darsi una patina culturale, con gli esiti visti a Palazzo Grassi con la gestione da parte della famiglia Agnelli. Ma ora, come se non bastassero i ricchi milanesi, torinesi, romani e americani, inglesi, tedeschi e anche russi, è la volta dei magliari trevigiani che si sono sono alzati di tono con la "rivalutazione" del Fondaco dei Tedeschi a vetrina del lusso e dell'esclusività. Con un groppo alla gola e un vuoto nello stomaco, sono ripartito di corsa tre ore e mezzo dopo il mio arrivo, comprese due a passo di marcia forzata attraverso mezza città e tutti i suoi sestieri. Già alle viste di Porto Marghera ho cominciato a sentirmi meglio, e quando sono sceso in stazione a Mestre per riprendere la macchina al parcheggio ho tirato un sospiro di sollievo: ero di nuovo a casa. A Mestre, dove sono finalmente riuscito a mangiare un tramezzino degno di questo nome.

1 commento:

  1. Si temeva la morte di Venezia per via dell'acqua alta, quella che dovrebbero fermare i cassoni del Mose che invece, nemmeno finiti di metter giù e già patiscono salso e ruggine.
    Ma forse era destino che Venezia morisse comunque, e alla fine è morta di ingordigia turistica.
    Una sorta di suicidio che ricorda quello di Ugo ne La grande abbuffata: magna e magna, prima o poi finisci per morire soffocato dalla tua stessa merda.
    Ma i grandi abbuffatori veneziani, ormai sommersi dalla merda, ora studiano come salvarsi: tornelli contapersone, progetti di terminal ingressi fuori dalla città, con entrate a numero chiuso e con prenotazione obbligatoria in duplice copia come Pass4Venice o come Venezia Libera, che quanto a idee non si tira indietro nessuno dichiarandosi tutti per una regolamentazione dei "flussi turistici", purché si salvino comunque gli affari di tutti, gondolieri e ristoratori, venditori di gondoete e di vetri finto Murano fatti in Cina, affittatori di appartamenti comprati, restaurati e messi sul mercato turistico da chiunque abbia due palanche da investire a reddito sicuro.
    Poi mettiamoci i cinesi che ti stivano 30 persone a notte in 30mq e 15€ a cuscino per terra, i venditori di borse per terra e quelli dei panini raggrinziti a peso d'oro o quelli delle bottigliette d'acqua a un paio di euro e vuoto da infilare nei cestini dove poi arriva quello che non molla 1,50€ per i cessi comunali e li usa come orinatoio a costo zero.
    Non so se nei suk ti consentano di fare pipì nei cestini o in canale, quando non la cacca direttamente in Piazza San Marco tanto è cacca santa perché di bambino e tutto si tiene.
    Venezia va ormai conservata nella memoria come si conservano i ricordi dell'antico Egitto, quelli di Tebe o pure, ormai, quelli di Baghdad, dove hanno importato la democrazia esportando reperti archeologici che sul mercato nero dell'arte si fanno buoni affari.
    Triste, terribile...

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