mercoledì 6 maggio 2020

Sergio

"Sergio" di Greg Barker. Con Wagner Moura, Ana de Armas, Brian F. O' Byrne, Garret Dilahunt, Bradlet Witford e altri. USA 2020 ★★
Ero stato consigliato, "per competenza", di guardarmi su Netflix l'omonimo documentario, sempre di Greg Barker del 2009, su Sergio Vieira de Mello, brasiliano, diplomatico e figlio di diplomatici, figura di punta tra i funzionari dell'ONU incaricati di risolvere situazioni conflittuali e spinose in ogni angolo del mondo, rimasto ucciso in un attentato a Baghdad nell'agosto del 2003 dove era stato inviato come rappresentante speciale delle Nazioni Unite in Iraq, sotto occupazione statunitense: avevo un vago ricordo del fatto, passato ai tempi abbastanza sotto silenzio, anche per non rivangare gli aperti contrasti che De Mello aveva avuto con i militari e l'ambasciatore USA Bremer prima e durante la missione, e ho così deciso di cominciare dal film, disponibile da qualche settimana sulla piattaforma su domanda, trovandolo debole, poco lineare e incisivo, melenso e scritto male; teso più a sottolineare la storia d'amore tra Sergio, come lo chiamavano tutti i suoi collaboratori, e Carolina Larriera, giovane economista argentina specializzata in progetti di sviluppo autoctono, che la complessa e anche contraddittoria vicenda umana, e anche politica, di questo uomo che aveva cercato di tradurre i suoi ideali internazionalisti e umanitari (era stato una attivo protagonista del Maggio francese quando era studente di filosofia alla Sorbona nel 1968) attraverso l'azione "sul campo". Numerosi i suoi successi in situazioni intricate: funzionario dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati fin dalla fine degli anni Sessanta, era stato inviato in missione in Bangladesh, Cipro, Mozambico, Perú; fu l'unico rappresentante dell'ONU a interloquire con i Khmer Rossi in Cambogia (in particolare col Fratello Numero 3 Ieng Sary, ex compagno di studi e di lotte a Parigi), poi in Libano e  Kosovo; soprattutto fu tra i principali artefici dell'indipendenza di Timor Est, di cui fu amministratore della transizione dal 1999 al 2002, grazie alle relazioni personali che era capace di costruire con i suoi interlocutori, in quest'ultimo caso con il capo della guerriglia anti indonesiana Xanana Gusmão, con cui aveva in comune la lingua madre. L'aver contribuito a "disgregare il più grande Paese musulmano al mondo" avrebbe fatto infuriare Osama Bin Laden che se la sarebbe legata al dito e gliel'avrebbe fatta pagare l'anno successivo facendo piazzare un'autobomba nel cortile del Canal Hotel di Baghdad, dove aveva sede la delegazione dell'ONU, vista dal capo di Al Qaeda come foglia di fico degli USA. Così la raccontano sia il film sia il documentario, che in verità non mancano di sottolineare la lentezza dei soccorsi da parte dei militari americani, in precedenza allontanati dall'entrata dell'albergo proprio da De Mello per rimarcare l'indipendenza della sua organizzazione, di cui era divenuto l'alto commissario per i diritti umani (si era apertamente e inutilmente opposto alla riapertura del famigerato carcere di Abu Ghraib, già centro di tortura dei servizi segreti di Saddam Hussei e successivamente utilizzato per gli stessi identici scopi dai "liberatori" a stelle e strisce). Il film, che si apre con l'attentato e si sviluppa in successivi flash back, con ambientazioni spesso cartolinesche (l'Arpoador della natìa Rio de Janeiro, lo sperone di roccia che separa le spiagge di Copacabana e Ipanema; le spiagge di Timor Est; invece il Kosovo, assai meno fotogenico, o Phnom Penh, non meritavano che una citazione vocale), sta in piedi soltanto grazie alle prestazione attoriali di Wagner Moura, che aveva già efficacemente interpretato Pablo Escobar nella serie Narcos e di Ana de Almas, affiancati da comprimari all'altezza, ma per il resto è fiacco, talvolta stucchevole, provo di nerbo. Il documentario, girato 11 anni prima con un classico, ripetitivo format americano (sono tutti fatti con lo stampino, su History Channel o similari se ne trovano a pacchi) su cui si basa il lungometraggio non è meglio, costruito com'è su contrapposizioni apparenti e zeppo di luoghi comuni che poco si conciliano con una personalità originale, con non poche sfumature narcisistiche, affascinante e controcorrente di Sergio de Mello, di cui si è fatto un santino con tanto di coda di paglia: da notare che del suo ateismo si accenna soltanto nel documentario, quando uno dei militari che tentarono di estrarlo dalle macerie da cui è stato sommerso dopo lo scoppio dell'autobomba racconta esterrefatto che mentre Mello stava tirando gli ultimi e lui gli consigliò di aver fede e pregare il Signore, Sergio poco diplomaticamente con le ultime forze lo mandò affanculo tirando un "porcone". Mi aspettavo di più, ma in mancanza d'altro, tocca accontentarsi.

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