"Big Eyes" di Tim Burton. Con Amy Adams, Christoph Walt, Danny Huston, Krysten Ritter, Jason Schwartzman, Terence Stamp e altri. USA 2014 ★★★⅓
Il cinema immaginifico, a tratti surreale, fortemente espressionista di Tim Burton non è esattamente quello che prediligo, ma all'originale e spesso trasognato regista californiano va riconosciuto un talento innegabile dietro la macchina da presa e una capacità fuori dal comune di raccontare storie in forma di favole che toccano però sempre le corde più intime e in cui ci si riesce sempre in qualche modo a riconoscere. Lo fa in maniera delicata, a suo modo, ricostruendo meticolosamente quasi in forma di cartone animato un'America dell'epoca felice a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta che già per sé stessa, in chi ne conserva alcune tracce nella memoria, assume delle connotazioni fumettistiche. Curiosamente, questa volta a essere trasposta nel mondo fantastico di Tim Burton è una storia vera, quella della pittrice Margaret Ulbrich, amica intima dello stesso regista, che dopo essersi separata dal primo marito, sola e con la figlia, raggiunse san Francisco e continuò, tra un lavoretto e l'altro, a dedicarsi alla pittura, che aveva costantemente per soggetto dei bambini, spesso trovatelli o poveri, dall'aria triste e inevitabilmente dotati di grandi, sproporzionati occhi che conferivano loro un'aria inquietante, oltre a essere di un cattivo gusto pressoché inarrivabile. In quanto tali, incontrarono inevitabilmente il favore di un popolo di bifolchi che notoriamente è del tutto privo di senso estetico, e godette di un immenso successo commerciale dopo che a prendere in mano il versante marketing della questione fu il secondo marito di Margaret, un mediatore immobiliare che millantava inesistenti trascorsi parigini nonché studi e capacità figurative mai possedute, il quale se ne assunse la paternità in quanto l'arte al femminile nel giro delle gallerie non veniva pressoché presa in considerazione. Le orride croste, prodotte in quantità industriali da Margaret, che viveva quasi segregata nel suo studio reso inaccessibile per non svelare il segreto, erano vendute col marchio Keane, il cognome del marito, che si occupava del loro lancio e delle pubbliche relazioni, e che fu un precursore di Warhol in quanto provvedete alla loro riproduzione in serie come poster: fu un successo travolgente. Ci vollero anni perché Margaret, di una dabbenaggine che rasentava l'idiozia, scoprisse che oltre ad appropriarsi, per il bene della ditta, della sua opera, il marito non possedeva nemmeno un briciolo di infarinatura in materia e perché, di fronte all'arroganza e alle richieste sempre più esose di Keane, che arrivò a minacciarla, si ribellasse, finché levò le tende una seconda volta e si trasferì alle Hawaii con la figlia. Lì prosegui la sua attività su scala più modesta, incontrò dei testimoni di Geova che la convinsero a dire la verità smascherando così il marito durante un processo che lui stesso aveva promosso nei suoi confronti per calunnia. Su tutti gli interpreti, complici di Burton e bravi nei loro ruoli, spiccano una Amy Adams che rende credibile l'ingenua e timida Margaret e Christoph Waltz, a cui la parte del marito impostore, ipocrita, ambiguo e untuoso dà il destro di gigioneggiare a volontà per rendere il personaggio particolarmente sgradevole. Film luminoso, dai colori fortemente contrastati, e dove dominano tinte sgargianti, risulta gradevole, divertente e con un fondo di vaga tristezza. Comunque godibile.
Il cinema immaginifico, a tratti surreale, fortemente espressionista di Tim Burton non è esattamente quello che prediligo, ma all'originale e spesso trasognato regista californiano va riconosciuto un talento innegabile dietro la macchina da presa e una capacità fuori dal comune di raccontare storie in forma di favole che toccano però sempre le corde più intime e in cui ci si riesce sempre in qualche modo a riconoscere. Lo fa in maniera delicata, a suo modo, ricostruendo meticolosamente quasi in forma di cartone animato un'America dell'epoca felice a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta che già per sé stessa, in chi ne conserva alcune tracce nella memoria, assume delle connotazioni fumettistiche. Curiosamente, questa volta a essere trasposta nel mondo fantastico di Tim Burton è una storia vera, quella della pittrice Margaret Ulbrich, amica intima dello stesso regista, che dopo essersi separata dal primo marito, sola e con la figlia, raggiunse san Francisco e continuò, tra un lavoretto e l'altro, a dedicarsi alla pittura, che aveva costantemente per soggetto dei bambini, spesso trovatelli o poveri, dall'aria triste e inevitabilmente dotati di grandi, sproporzionati occhi che conferivano loro un'aria inquietante, oltre a essere di un cattivo gusto pressoché inarrivabile. In quanto tali, incontrarono inevitabilmente il favore di un popolo di bifolchi che notoriamente è del tutto privo di senso estetico, e godette di un immenso successo commerciale dopo che a prendere in mano il versante marketing della questione fu il secondo marito di Margaret, un mediatore immobiliare che millantava inesistenti trascorsi parigini nonché studi e capacità figurative mai possedute, il quale se ne assunse la paternità in quanto l'arte al femminile nel giro delle gallerie non veniva pressoché presa in considerazione. Le orride croste, prodotte in quantità industriali da Margaret, che viveva quasi segregata nel suo studio reso inaccessibile per non svelare il segreto, erano vendute col marchio Keane, il cognome del marito, che si occupava del loro lancio e delle pubbliche relazioni, e che fu un precursore di Warhol in quanto provvedete alla loro riproduzione in serie come poster: fu un successo travolgente. Ci vollero anni perché Margaret, di una dabbenaggine che rasentava l'idiozia, scoprisse che oltre ad appropriarsi, per il bene della ditta, della sua opera, il marito non possedeva nemmeno un briciolo di infarinatura in materia e perché, di fronte all'arroganza e alle richieste sempre più esose di Keane, che arrivò a minacciarla, si ribellasse, finché levò le tende una seconda volta e si trasferì alle Hawaii con la figlia. Lì prosegui la sua attività su scala più modesta, incontrò dei testimoni di Geova che la convinsero a dire la verità smascherando così il marito durante un processo che lui stesso aveva promosso nei suoi confronti per calunnia. Su tutti gli interpreti, complici di Burton e bravi nei loro ruoli, spiccano una Amy Adams che rende credibile l'ingenua e timida Margaret e Christoph Waltz, a cui la parte del marito impostore, ipocrita, ambiguo e untuoso dà il destro di gigioneggiare a volontà per rendere il personaggio particolarmente sgradevole. Film luminoso, dai colori fortemente contrastati, e dove dominano tinte sgargianti, risulta gradevole, divertente e con un fondo di vaga tristezza. Comunque godibile.
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