"ll nome del figlio" di Francesca Archibugi. Con Alessandro Gassmann, Valeria Golino, Micaela Ramazzotti, Luigi Lo Cascio, Rocco Papaleo. Roma, Italia, 2015 ★½
Film esemplare della mancanza di idee del cinema italiano attuale e di come ciò che ne rimane funzioni, controllato com'è da una consorteria che non ha nulla da invidiare a "mafia-capitale" e che sempre e comunque è romanocentrica oltre che dominata dalla cricca intellettualoide, terrazzata e pseudoprogressista descritta con precisione chirurgica da Paolo Sorrentino ne "La grande bellezza" (e da cui il buon Nanni Moretti è fortunatamente distante anni luce: quando non ha niente di nuovo da dire, se ne sta defilato a Roma Nord). Consorteria a cui appartiene in tutto e per tutto Francesca Archibugi e che costituisce tutto il suo mondo e grazie alla quale riesce a girare i suoi film, tutti assolutamente autoreferenziali, innocui e patetici, degli album di famiglia di una precisa categoria appartenente alla generazione degli attuali cinquanta-sessantenni di cui pure faccio parte e che ben conosco, utili soltanto a illustrare la tipologia umana che fa più "tendenza" e che ha in mano la sorti (disastrate) del Paese: da questo punto di vista, "Il nome del figlio" è esemplare. Il film è il remake, in salsa capitolina, anzi: Appio-Tusconalana e con vista sul cazzo di "gazometro", di Cena tra amici, campione di incassi francese di qualche anno fa, che a sua volta era la trasposizione su grande schermo dell'omonima pièce teatrale di grande successo degli stessi autori e che ruotava attorno al nome "improponibile" (Adolfo in quel caso, Benito in questo) che un "padre in attesa" burlone faceva credere di voler dare al suo primogenito ai suoi amici e parenti più stretti riuniti a cena, e in particolare al suo cognato perbenista e de sinistra. A proposito della trama, rinvio a quanto scritto allora; qui l'Archibugi e il suo sceneggiatore, quel Francesco Piccolo che tanto desidera "essere come tutti", introduce la variante di alcuni flash back degli anni Settanta che vogliono spiegare gli attuali rapporti che intercorrono in questo gruppo di amici mai realmente cresciuti, alla luce della comune adolescenza in un contesto ugualmente romano, intellettual-sinistrorso e profondamente conformista e piccolo borghese, l'unico che la regista e il suo staff prendono in considerazione, eccezion fatta per la variabile impazzita, la borgatara semianalfabeta e proprio per questo diventata scrittrice di successo, futura madre del pargolo (una eccellente Micaela Ramazzotti, di cui viene proposto, come gran finale, anche il parto dal vero con tanto di taglio cesareo della primogenita, figlia anche di Paolo Virzì, tanto per restare "in famiglia"). Da questo punto di vista il film è istruttivo, perché mostra alla perfezione tic e modi di pensare di questa categoria di stronzi che in quanto tali restano sempre a galla, grazie anche a degli attori, tra i migliori attualmente in circolazione da noi, che li rendono perfettamente credibili: su tutti Luigi Lo Cascio nella parte del neo baroncino universitario, saccente, pedante, spocchioso, avaro e sanguisuga, che si appropria perfino dell'eredità intellettuale del suocero, un ex deputato ebreo e comunista, a scapito del figlio vero (e cognato) che da quell'opprimente figura paterna ha preso il largo per diventarne l'opposto. Insomma, una copia poco riuscita e in più pretenziosa che non ha la verve dialettica dell'originale (che voleva essere un puro divertissement) e abbonda dl luoghi comuni tutti nostrani, o meglio romaneschi: oltre alla già citata "vista con gazometro", ovviamente da una "terazza der Pigneto", l'immancabile scena italiota di ballo, stavolta con karaoke a base di "Ci sentiamo tra vent'anni" di Lucio Dalla. Ma il démi-monde della sinistra radical-chic è uguale dappertutto e questo film, più che prenderlo in giro, lo rappresenta.
Film esemplare della mancanza di idee del cinema italiano attuale e di come ciò che ne rimane funzioni, controllato com'è da una consorteria che non ha nulla da invidiare a "mafia-capitale" e che sempre e comunque è romanocentrica oltre che dominata dalla cricca intellettualoide, terrazzata e pseudoprogressista descritta con precisione chirurgica da Paolo Sorrentino ne "La grande bellezza" (e da cui il buon Nanni Moretti è fortunatamente distante anni luce: quando non ha niente di nuovo da dire, se ne sta defilato a Roma Nord). Consorteria a cui appartiene in tutto e per tutto Francesca Archibugi e che costituisce tutto il suo mondo e grazie alla quale riesce a girare i suoi film, tutti assolutamente autoreferenziali, innocui e patetici, degli album di famiglia di una precisa categoria appartenente alla generazione degli attuali cinquanta-sessantenni di cui pure faccio parte e che ben conosco, utili soltanto a illustrare la tipologia umana che fa più "tendenza" e che ha in mano la sorti (disastrate) del Paese: da questo punto di vista, "Il nome del figlio" è esemplare. Il film è il remake, in salsa capitolina, anzi: Appio-Tusconalana e con vista sul cazzo di "gazometro", di Cena tra amici, campione di incassi francese di qualche anno fa, che a sua volta era la trasposizione su grande schermo dell'omonima pièce teatrale di grande successo degli stessi autori e che ruotava attorno al nome "improponibile" (Adolfo in quel caso, Benito in questo) che un "padre in attesa" burlone faceva credere di voler dare al suo primogenito ai suoi amici e parenti più stretti riuniti a cena, e in particolare al suo cognato perbenista e de sinistra. A proposito della trama, rinvio a quanto scritto allora; qui l'Archibugi e il suo sceneggiatore, quel Francesco Piccolo che tanto desidera "essere come tutti", introduce la variante di alcuni flash back degli anni Settanta che vogliono spiegare gli attuali rapporti che intercorrono in questo gruppo di amici mai realmente cresciuti, alla luce della comune adolescenza in un contesto ugualmente romano, intellettual-sinistrorso e profondamente conformista e piccolo borghese, l'unico che la regista e il suo staff prendono in considerazione, eccezion fatta per la variabile impazzita, la borgatara semianalfabeta e proprio per questo diventata scrittrice di successo, futura madre del pargolo (una eccellente Micaela Ramazzotti, di cui viene proposto, come gran finale, anche il parto dal vero con tanto di taglio cesareo della primogenita, figlia anche di Paolo Virzì, tanto per restare "in famiglia"). Da questo punto di vista il film è istruttivo, perché mostra alla perfezione tic e modi di pensare di questa categoria di stronzi che in quanto tali restano sempre a galla, grazie anche a degli attori, tra i migliori attualmente in circolazione da noi, che li rendono perfettamente credibili: su tutti Luigi Lo Cascio nella parte del neo baroncino universitario, saccente, pedante, spocchioso, avaro e sanguisuga, che si appropria perfino dell'eredità intellettuale del suocero, un ex deputato ebreo e comunista, a scapito del figlio vero (e cognato) che da quell'opprimente figura paterna ha preso il largo per diventarne l'opposto. Insomma, una copia poco riuscita e in più pretenziosa che non ha la verve dialettica dell'originale (che voleva essere un puro divertissement) e abbonda dl luoghi comuni tutti nostrani, o meglio romaneschi: oltre alla già citata "vista con gazometro", ovviamente da una "terazza der Pigneto", l'immancabile scena italiota di ballo, stavolta con karaoke a base di "Ci sentiamo tra vent'anni" di Lucio Dalla. Ma il démi-monde della sinistra radical-chic è uguale dappertutto e questo film, più che prenderlo in giro, lo rappresenta.
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