venerdì 29 dicembre 2023

Foglie al vento

"Foglie al vento" (Kuolleet Lehdet) di Aki Kaurisimäki. Con Alma Pöysti, Jussi Vatanen, Janne Hyytiäinen, Nuppu Koivu, Martti Siosalo e altri. Finlandia, 2023 ★★★★★

Graditissimo ritorno, sei anni dopo L'altro volto della speranza, del regista a mio parere più essenziale, poetico e umanista in circolazione, che ho avuto occasione di definire maestro del surrealismo magico, autore poco prolifico che però in quarant'anni di carriera cinematografica non ha mai sbagliato film e non ha mai deviato dalla sua linea: sinceri e coerenti come lui, solo Ken Loach e pochi altri, una categoria ormai rara. E sempre ispirato, che nelle sue storie di personaggi perdenti e stralunati che gli stanno realmente a cuore, riesce sempre a metterci un sorriso e una traccia di speranza, anche quando il mondo si affaccia sulle loro vite in tutta la sua insopportabile durezza. Come in questo caso le notizie della guerra tra Russia e Ucraina, una realtà che in Finlandia è letteralmente alle porte, che giungono via radio nel povero, essenziale ma inappuntabile appartamento di Ansa, una donna che ha avuto la vita famigliare distrutta dall'alcol che ha ucciso il padre, il fratello e indirettamente la madre, la quale passa da un impiego precario e malpagato all'altro (anche il Paese scandinavo si adegua al mercatismo ormai imperante ovunque) ma sempre con grande dignità. Per puro caso incontra Holappa, un metalmeccanico che viene cacciato in successione daogni posto di un lavoro perché con l'alcol cerca, inutilmente, di sfuggire alla depressione cronica che lo affligge, e viene regolarmente beccato a bere. I due si piacciono, e alla prima uscita vanno (significativamente) a vedere I morti non muoiono di Jim Jarmush (altro autore con una visione simile a Kaurisimäki) all'immancabile cinema Ritz, ma Holappa smarrisce proprio lì il biglietto col numero di telefono di Ansa. I due non hanno idea di dove viva l'altro, si perdono ma si cercheranno proprio lì, a turno davanti al cinema, e saranno le locandine dei film in programmazione, tutti dei classici amati dall'autore, a scandire il tempo: non citazionismo saccente, esibito e fastidioso, ma affettuoso e autorionico, così come quello musicale, dal rock in stile Leningrad Cowboys, al tango, a Schubert, specchio dei gusti  e dell'eclettismo del regista finlandese e immancabili in ogni sua pellicola. Che in 81 minuti concentra, senza una sbavatura, un distillato del suo modo di vedere il mondo, dove l'umanità di sottomessi, gli sfruttati, i traditi, coloro che Toni Negri aveva definito l'operaio sociale, va avanti a sopravvivere perché capace, in un panorama di squallore relazionale, a essere capace di vera e profonda solidarietà, pure nell'apparente afasia e carenza di comunicatività. Anche la storia raccontata nel film, i due (Alma Pöysti, Jussi Vatanen, che interpretano la coppia, sono portentosi) che si ritrovano nonostante tutti gli ostacoli che le vicende vissute hanno posto alla loro ricerca di un angolo di felicità, si chiude con una nota ottimistica, nonostante le tenebre e la follia imperanti: insomma, non bisogna perdere la fiducia, ma soprattutto la propria umanità. Un film esemplare, necessario, un gioiellino prezioso, coloratissimo benché girato in una Helsinki squallida, impersonale e straniante, che fa bene alla salute di chi lo vede, un altro bellissimo regalo da parte di un regista e narratore raro.

domenica 24 dicembre 2023

Un colpo di fortuna (Coup de chance)


"Un colpo di fortuna (Coup de chance)" di Woody Allen. Con Lou de Laâge, Valérie Lemercier, Melvil Poupard, Niels Schneider, Sara Martins, Elsa Zylberstein, Yannick Choirat, Gréegory Gadebois e altri. Francia, GB 2023 
★★★-

Cinquantesimo film di Woody Allen, non uno dei suoi più memorabili ma nemmeno dei peggiori, come purtroppo lo era stato Un giorno di pioggia a New York, oppure alcuni girati in Europa che sembravano finanziati dagli enti di promozione del turismo dei vari Paesi che l'avevano ospitato: Spagna, Inghilterra, Italia e, soprattutto, Francia. Girato in una Parigi autunnale, in francese e con attori indigeni, torna su un argomento caro al regista, il caso e le coincidenze che incombono sul destino degli umani e ne determinano le traiettorie. Qui abbiamo una coppia di sposi apparentemente felice dell'alta borghesia: Jean, un uomo d'affari di successo, il cui lavoro consiste nel "rendere i ricchi ancora più ricchi", del quale si mormora che abbia qualcosa da nascondere del suo passato, in particolare la misteriosa sparizione del suo ex socio, e Fanny, al secondo matrimonio (il primo era con un musicista spiantato e drogato, quando ancora era una giovanissima idealista e ribelle), che si è adeguata alla situazione e a sua volta vende opere d'arte ad altri ricchi in una casa d'aste. Una perfetta coppia borghese, cementata dal quattrino e dalla convenienza reciproca, anche se dal casuale incontro con Alain, un ex compagno di liceo, aspirante scrittore e da sempre innamorato silenziosamente di lei, Fanny comincia a sospettare di essere una sorta di moglie-trofeo per il consorte. A quel primo casuale incontro ne seguono altri, da cosa nasce cosa, i due diventano amanti e il dubbio si insinua sia nella giovane donna, sia nel marito, sempre più geloso e ossessivo, che alla fine scopre la tresca dopo aver incaricato un'agenzia di investigatori privati di seguire la moglie e, pur facendo finta di nulla con lei, anche per salvare le apparenze, risolverà le cose alla sua maniera, ossia facendo "sparire" chi si mette sulla sua strada. Mentre Fanny, dopo che Alain è scomparso improvvisamente dalla circolazione, è sempre più confusa e sospetta di essere stata abbandonata dall'amante, ci vede invece chiaro la madre di Fanny, interpretata da una Valérie Lemercier che ricorda molto sia nel ruolo sia nelle fattezze la Diane Keaton in Misterioso omicidio a Manhattan, che sgama il genero e, per un "colpo di fortuna" evita la fine riservata al povero Alain e che sarà invece il caso, o se vogliamo la coincidenza, che gli renderà giustizia punendo Jean. Il come, lo scoprirete soltanto vedendo il film. Che rimane comunque ben fatto anche se prevedibile, poco pungente a parte un velo di ironia e sarcasmo che lo pervade, nella descrizione di una borghesia squallidamente attaccata al denaro. Si ride poco o niente, al massimo si sorride; Parigi, fotografata con la consueta maestria da Vittorio Storaro, quasi coetaneo di Allen, non è quella cartolinesca che si poteva temere, alla fine il risultato è discreto ma non si va molto oltre la sufficienza nel complesso. Magari per i suoi 90 anni il buon vecchio Woody sfornerà ancora uno dei suoi colpi di genio: attendiamo con fiducia!

lunedì 18 dicembre 2023

Il migliore dei mondi

"Il migliore dei mondi" di Maccio Capatonda aka Marcello Macchia. Con Maccio Capatonda, Piero Sermonti, Martina Gatti, Stefania Blandeburgo, Luca Vecchi e altri. Italia 2023 ★★★1/2

Prodotto dalla Leone Group e distribuito da Prime Video, e visibile su questa piattaforma in streaming, il terzo lungometraggio che vede Maccio Capatonda sia nelle vesti di regista sia di protagonista, oltre che autore del soggetto, non assurge alle cime abissali di Italiano medio, suo film d'esordio del 2016, ma si colloca al discreto livello di Omicidio all'italiana, del 2017, godibile, scritto bene e interpretato in modo eccellente quanto stralunato dallo stesso Maccio e dai suoi compagni di ventura, a cui manca però ancora una certa fluidità e continuità per farne una commedia a tutto tondo, di grande respiro. Sul "breve", vedi spotsit-comvideoclip, Capatonda è un fenomeno, così come lo è nella parte dei personaggi solo apparentemente macchiettistici che dipinge in toni volutamente esagerati, ma assolutamente congrui alla realtà di tutti i giorni da cui li pesca, realtà e squallore che sono spesso oltre ogni immaginazione: lui ha il coraggio di metterli in scena, altri suoi più noti colleghi no. Diversa la compagnia di giro e l'ambientazione abituali: siamo nel 2023, a Roma e non a Milano oppure in Molise, e il nostro eroe, Ennio Storto, è il tipico nerd, uno smanettone che gestisce un negozio di elettronica assieme al fratello, ex ribelle no global, che rimpiange i tempi dei cocktail molotov e si dà alle droghe da discoteca. Ennio invece conduce una vita abitudinaria e senza scosse, scandita dalla rete in una casa domotica dove dialoga con Alexa, si masturba con video porno, fa "dating" non impegnativi, finché non incrocia Viola, una ragazza che appartiene a una comunità che rifiuta il rincoglionimento tecnologico e viene a farsi riparare un modem da 56 kb, agli occhi del tecnico un reperto archeologico: quando si fa convincere ad accontentarla, viene catapultato in un universo parallelo dove lo sviluppo informatico, in seguito ai disastri del Millennium Bug, è stato bloccato negli anni Novanta. Ennio vi cade fornito del suo iPhone14, che susciterà le mire di un gruppo di rivoluzionari, una setta confinata in un ospedale psichiatrico di cui fa parte Viola (di cui in questo mondo di innamora), che invece crede nello sviluppo tecnologico, insomma un totale ribaltamento dei ruoli e un viaggio nel tempo, pane per Capatonda e per il suo omino: basti pensare come si destreggia in automobili non dotate di servosterzo e, soprattutto, navigatore... Il resto ve lo lascio immaginare. Peccato che Viola, che possiede il modem che è l'unico mezzo per consentirgli un ritorno nell'universo originario, muoia in una sparatoria con la polizia, e mentre il fratello ritroverà il suo spirito rivoluzionario, lui dovrà rivolgersi a Steve Jobs in persona che, dopo il disastro del Bug, si è rifugiato sotto falso nome in un casolare di campagna. Insomma, ce n'è per tutti. Si ride, a tratti si sghignazza, ma con un fondo amarognolo, sentendosi anche abbastanza cretini per come siamo diventati ormai totalmente dipendenti da smartphone e compagnia. E se lo dice Marcello Macchia che è del ramo, c'è da credergli. Insomma: soddisfatto, ma il buon Maccio ha ampi margini di miglioramento anche sul "lungo". 

mercoledì 8 novembre 2023

Anatomia di una caduta

"Anatomia di una caduta" (Anatomie d'une chute) di Justine Triet. Con Sandra Hüller, Swann Arlaud, Milo Machado Graner, Antoine Reinarzt, Samuel Theis, Jehnny Beth, Saadia Bentaïb e altri. Francia 2023 ★★★1/2

Benché diffidi sempre dei verdetti delle giurie dei maggiori festival cinematografici, specialmente negli ultimi decenni dominati dal dogma del "politicamente corretto" con ulteriori iniezioni di Me Too di rinforzo al luogo comune, fregiarsi della Paola d'Oro è sempre un buon viatico e quindi di buon grado sono andato a vedere Anatomia di una caduta, quella che ha causato la morte di Samuel dal balcone dello chalet di montagna (siamo vicini a Grenoble) dove viveva con la moglie Sandra Voyter (una scrittrice tedesca di successo) e il figlio ipovedente Daniel. Caduta che viene analizzata in ogni possibile dettaglio in fase di indagine e poi dibattimentale, perché prima la polizia e poi la pubblica accusa dubitano della causa accidentale e puntano i loro sospetti sulla donna. Lo schema è dunque quello di film poliziesco e processuale, la cui azione è ambientata in gran parte nell'aula del tribunale del capoluogo regionale dove si svolge il processo, tra interrogatori e controinterrogatori dell'accusata, degli investigatori, dei periti e di altri testi e che diviene, visti l'argomento e la pruriginosità dei palesi dissapori di coppia e la notorietà dell'accusata, un caso mediatico. In realtà ciò che viene dissezionato è il rapporto di una coppia disfunzionale in cui i ruoli tradizionali sono invertiti: Sandra è una donna forte, indipendente, autocentrata, che non nega di ispirarsi per i propri romanzi a eventi reali tratti dalla propria esperienza come anche di trarre spunto da idee di suo marito, un ex docente che si è ritirato dall'insegnamento proprio per dedicarsi anche lui alla scrittura ma a cui viene a mancare l'ispirazione, a differenza di Sandra che va avanti spedita per la sua strada. Però a incrinare la loro relazione è il senso di colpa che Samuel sente per l'incidente che ha causato la lesione al nervo ottico del figlio, rendendolo quasi cieco, su cui in parte gioca Sandra per rinfacciargli l'inconcludenza oltre alla scelta di essersi isolati in un luogo isolato, con scarsissimi contatti con il prossimo e pressoché privi di vita sociale. Durante il processo Sandra (la interpreta l'omonima Hüller, attrice tedesca di grandissima levatura, eccezionale nella parte) è assistita dall'avvocato Rizzi (Swann Arlaud), un amico di vecchia data, e verrà alla fine scagionata grazie a una testimonianza del figlio e... del cane di famiglia, ma non è l'esito di un thriller quasi "hitchcockiano" nel ritmo e nell'intrigo (ci sono anche molti flash-back a illustrare un rapporto di coppia fatto di profonda incomprensione e visioni diametralmente opposte) la parte interessante del film quanto la doppia verità che emerge da un flusso continuo di domande e risposte, resa evidente soprattutto durante il dibattimento ma anche dalle registrazioni di alcuni scambi verbali effettuate da Samuel durante i numerosi litigi della coppia, recuperate e prodotte in aula. Insomma un film interessante, ben congegnato, forse un po' troppo arzigogolato, a cui probabilmente avrebbe giovato una sforbiciata di un buon terzo delle due ore e mezzo di durata per renderlo meno simile a un prodotto televisivo. Comunque, non male, in gamba la regista Justine Triet, giunta al suo quarto lungometraggio (il primo per me) anche se il negletto La verità secondo Maureen K. di Jean-Paul Salomé. apprezzato di recente, con cui pure ha qualche affinità (per la parte poliziesco-processuale, oltre che per avere come protagonista una donna in stato di accusa), è a tutt'altro livello.

sabato 4 novembre 2023

C'è ancora domani

"C'è ancora domani" di Paola Cortellesi. Con Paola Cortellesi, Valerio Mastandrea, Romana Maggiora Vergano, Emanuela Fanelli, Sergio Colangeli, Vinicio Marchioni, Francesco Centorame e altri. Italia 2023 ★★★★1/2

Eccellente esordio alla regia di Paola Cortellesi, che mi fa un immenso piacere perché da sempre la stimo come attrice, comica, sceneggiatrice ma soprattutto come persona: intelligente, equilibrata, discreta, mai sopra le righe. Film d'apertura della recente Festa del Cinema di Roma, dove ha ricevuto diversi riconoscimenti, a cominciare dall'apprezzamento del pubblico: scontato forse nella capitale, dove "gioca in casa", ma confermato dal successo che C'è ancora domani sta avendo nelle sale di tutto il Paese dopo la sua uscita, la scorsa settimana (a Udine, al Visionario", un applauso spontaneo durante una proiezione pomeridiana, cosa del tutto inconsueta). E la pellicola merita, ché più italiana non potrebbe essere, omaggio sì (ma non solo) al genere cinematografico più originale che questo Paese abbia prodotto, il neorealismo, ma anche alla commedia che, sotto varie forme, ne sarebbe stata l'erede e che ne ha raccontato la storie, i vizi le e virtù, mettendolo impietosamente davanti allo specchio. Paola Cortellesi lo fa con un film molto originale, con cui ha voluto raccontare le storie a sua volta ascoltate da parenti più anziani: bisnonni, nonni, genitori, zii che le avevano vissute nell'immediato dopoguerra. Siamo infatti a Roma, vita di quartiere, anzi: di cortile, nella tarda primavera del 1946: per le strade c'è ancora la Military Police americana. La giornata di Delia, la protagonista (Paola Cortellesi stessa) inizia con un ceffone ricevuto dal marito Ivano (un grandioso e Valerio Mastandrea, generoso ad accettare il ruolo di un personaggio così odioso) mentre gli dà il buongiorno. Ché a Ivano si devono perdonare gli scatti d'ira, ché, poveretto, "ha fatto due guerre". Sulla quarantina, la donna ha tre figli, di cui la maggiore, Marcella, vorrebbe studiare ma non può perché è meglio che porti a casa una paga e cerchi un buon partito: infatti è fidanzata col figlio del bar-pasticceria del rione, rampa di lancio per uscire dalla condizione in cui versa la famiglia. Delia, oltre a tenere in ordine il sottoscala in cui vivono, fa lavori di rammendo per una merciaia, iniezioni a domicilio, riparazioni di ombrelli. Abbozza in casa, ma ha la sua valvola di sicurezza fuori: un amore di gioventù che fa il meccanico e sta pensando di trasferirsi al Nord (Vinicio Maerchioni), soprattutto un'amica che vende ortaggi al mercato (Marisa, interpretata da Emanuela Fanelli: strepitosa) che la sostiene. In casa sopporta, ha pure a carico il suocero capriccioso e indolente (Sergio Colangeli: altra chicca). Vita quotidiana, pure squallida, dove il sopruso, anche la violenza, viene condivisa pure dai vicini, ché denunciarla non servirebbe: Cortellesi la descrive così com'era, e chi ha vissuto la vita di "cortile" in un rione di una grande città anche solo negli anni Cinquanta e Sessanta lo sa, senza premere mai sul tasto più scontato, il manicheismo che, invece, caratterizza il "politicamente corretto" in auge attualmente. La violenza maschilista, pur denunciata, è messa anche in ridicolo, e le scene potenzialmente più cruente risolte magari in un casquet, ballando su un motivo d'epoca, intonato da Achille Togliani, oppure su un pezzo di Lucio Dalla o Battiato, apparentemente fuori contesto ma in realtà del tutto "sul pezzo". Ho molto apprezzato anche che Paola abbia usato la parola "negro" parlando, per l'appunto, con un militare statunitense di colore: termine che fino a solo quarant'anni fa non aveva nessun connotato offensivo o razzista. Non tutto è bianco e nero, dice il film, benché in bianco e nero, molto suggestivo e assolutamente congruo, sia la pellicola: altra scelta coraggiosa e inusuale. Un bel giorno Delia riceve una lettera indirizzata proprio a lei: la legge, la mette da parte in un luogo segreto, dove tiene anche i suoi pochi risparmi personali (il suo tesoro), sembra uno spiraglio per un futuro diverso. Lo sarà, ma non come immagina, inevitabilmente, la gran parte degli spettatori: la sorpresa è in agguato e sta nel titolo. E nella lettera che una lettera non è, ma un "passaporto" per un futuro diverso, forse. Perché dopo la domenica, c'è (o almeno c'era) anche un lunedì. Come scoprirà chi seguirà il mio consiglio di non farsi scappare questo film. Che merita, come Paola Cortellesi, un applauso, anche per avere fatto un atto più che mai politico senza mai parlare di politica. Brava davvero. 

martedì 31 ottobre 2023

Killers of the Flower Moon

"Killers of the Flower Moon" di Martin Scorsese. Con Leonardo DiCaprio, Robert De Niro, Lily Gladstone, Jesse Plemons, Brendan Fraser, Louis Cancelmi, Larry Sellers e altri. USA 2023 ★★★★★

Sono tre ore e mezzo ben spese, quelle che attendono chi si decide di andare a vedere in sala l'ultimo lavoro di Martin Scorsese che, infallibilmente, ha colpito ancora con un monumentale affresco che mette in luce, attraverso una micro saga famigliare che ruota attorno a tre personaggi, tutto l'immenso marciume, l'avidità, la grettezza, il razzismo, l'ignoranza che stanno alla base società americana, la stessa che impone il suo modo di vivere e il suo sistema come un valore universale da difendere a qualsiasi costo contro chi osa metterlo in dubbio o semplicemente si rifiuta di condividerlo: ne abbiamo un esempio proprio attualmente, con le guerre foraggiate da questo impero in disfacimento e dai suoi alleati più fedeli (a cominciare dal nostro governo attuale e a buona parte di quelli che l'hanno preceduto). Si tratta dell'adattamento dell'omonimo romanzo-indagine di David Gann, uscito in Italia col titolo Gli assassini della terra rossa, e sceneggiato dallo stesso Scorsese assieme a Eric Roth, che racconta come un'orda di famelici "coloni" bianchi si siano impossessati, con i vari trucchi consentito dalla "legge" (quella del Far West, in sostanza, che caratterizza tuttora il sistema normativo USA, una cosa da primitivi, per un qualsiasi europeo continentale e che avrebbe inorridito un qualsiasi cittadino dell'Impero Romano 2000 anni fa), di tutti i diritti che facevano capo alla Nazione indiana degli Osage dopo che in Oklahoma, terra desolata dove erano stati forzatamente trasferiti e relegati dagli originari territori che abitavano negli attuali Kansas e Louisiana, era stato scoperto il petrolio. Che aveva fatto immensamente ricchi gli indigeni, i quali però potevano esercitare le loro facoltà solamente attraverso un tutore bianco. In questa situazione, nei primi anni Venti del Novecento, Ernest Burkhard (DiCaprio), un giovane reduce di guerra senza arte né parte né dotato di grande intelligenza, ma attirato dal danaro facile, torna nella natìa Fairfax dove lo zio William Hale (De Niro) lo assume come autista e, sostanzialmente, tirapiedi, invitandolo a cercare moglie fra delle eredi Osage, in modo da poterne a sua volta ereditare i diritti ed esercitarli direttamente e, appunto, "legalmente". E, per interesse ma anche per amore, Ernest la moglie la trova in Molly (Lily Gladstone), che ha visto morire il padre e poi una dopo l'altra la madre e le sorelle, uccise o in circostanze oscure, e lei stessa via via avvelenata, fino a perdere quasi del tutto la capacità di agire, con una falsa cura per il diabete di cui soffre. Cosa che succede a tutta la gente Osage, infiltrata man mano da avventurieri bianchi con la complicità tacita del governo. Unica eccezione alcuni agenti del neonato BOI (dal 1935 FBI) di Edgar J. Hoover, mandati a Fairfax da Washington per risolvere i casi di morti sospette e guidati da Tom White (Jesse Plemons), che riescono a convincere Ernest a testimoniare contro lo zio, la vera anima nera che si professava amico e protettore degli Osage, mettendo alle strette Hale, ma l'unico che pagherà davvero, nonostante gli accordi presi, sarà proprio l'ingenuo e sprovveduto Ernest, che perderà tutto mentre i veri gangster si approprieranno di tutto, distruggendo ancora di più la Nazione Osage. Grande prestazione dei due attori protagonisti, con una menzione di merito particolare per Leonardo di Caprio, che ha accettato il ruolo di un personaggio sotto tono rispetto a quelli che interpreta di solito, un giovane privo di talento e fondamentalmente stupido, attirato sì dal denaro ma non del tutto immorale, innamorato della moglie ma ignaro dei meccanismi diabolici messi in atto dallo zio e del significato di quel che gli accade intorno. Anche Hale, del resto, è a suo modo "in buona fede", si crede sul serio amico degli indigeni ma perché li considera poco più che degli animali domestici, infarcito com'è della retorica della frontiera che ancora oggi ammanta di un supposto idealismo l'atavica sete di danaro a qualunque costo e l'individualismo sfrenato che stanno alla base del mito americano e del relativo sistema di vita e di "valori": si sta parlando di un Paese nato su un genocidio sistematico e che non ha ancora risolto, nel 2023, il problema del razzismo, non solo verso i pochi "nativi" superstiti, i milioni di discendenti degli schiavi africani ma anche le nuove minoranze, a cominciare da quella ispanica, in preda a una violenza endemica nonché il più drogato e impasticcato del pianeta. Tutta la filmografia di Scorsese (e di rari coraggiosi autori, come Quentin Tarantino e pochi altri ancora) è lì a ricordarcelo. Da sottolineare, oltre all'accuratezza della ricostruzione ambientale, una fotografia con i controfiocchi, interpretazioni di altissimo livello e, al solito, una colonna sonora di lusso, affidata niente meno che a Robbie Robertson (già membro della Band), purtroppo scomparso nell'agosto scorso. Grande film, a mio parere imperdibile, e Scorsese sempre un fuoriclasse. 

mercoledì 25 ottobre 2023

Il cielo sopra Berlino

"Il cielo sopra Berlino" (Der Himmel über Berlin) di Wim Wenders. Con Bruno Ganz, Otto Sander, Peter Falk, Solveig Dommartin, Didier Flamand, Curt Bois, Lajos Kovács, Teresa Harder e altri. Germania, 1987 ★★★★★

Dal 2 ottobre è tornata in circolazione nelle sale la versione restaurata, a cura della Wim Wenders Foudation in collaborazione con la Cineteca di Bologna, del capolavoro del regista tedesco, Palma d'Oro a Cannes 35 anni fa, un film senza tempo (e senza età) come gli angeli che ne sono protagonisti, Damiel (Bruno  Ganz) e Cassiel (Otto Sander), i quali hanno l'incarico di assistere i berlinesi dall'alto di quell'unico cielo che sovrasta la città che, quando fu girato, nel 1987, era ancora divisa in due dal Muro. Li vediamo ascoltare i pensieri delle persone sui treni della metropolitana, nelle strade e nei negozi, nelle sale di lettura della biblioteca di Stato, nei bar, e si ritrovano ogni tanto a raccontarsi le loro esperienze e le loro impressioni: vivono in un universo in bianco e nero dove solo i bambini sono in grado di riconoscerli, come avviene nel circo dove capita Damiel e dove vede all'opera una trapezista alla sua ultima rappresentazione, licenziata perché il circo chiuderà per debiti, che volteggia sul suo attrezzo, incantando il pubblico, con delle ali attaccate alle spalle; oppure i poeti, come Homer, che invano cerca la Potsdamer Platz, prima della guerra una delle più belle piazze europee, trovando uno spiazzo desolato dove non è rimasto che il famoso Muro. Li riconosce anche un attore americano, venuto a girare un film ambientato in epoca nazista, Peter Falk, universalmente noto come il Tenente Colombo, pure lui un ex angelo che ha rinunciato all'immortalità per aiutare concretamente, condividendone l'esistenza, gli umani. Che la loro vita la vivono a colori, come a colori sono le immagini della Berlino uscita distrutta dai bombardamenti, e quelle della seconda parte del film, quando Damiel decide anche lui di diventare umano e andare in cerca della bella trapezista (Solveig Dommartin) che aveva incontrato una seconda  volta, mentre era ancora uno spirito, in un locale dove si teneva un concerto di Nick Cave and The Bad Seeds: ricordo, se fosse necessario, il ruolo fondamentale che la musica ha avuto in tutta la filmografia di Wenders, almeno quanto le parole (qui la sceneggiatura si avvale del contributo dell'amico Peter Handke, che ha collaborato con lui anche in altre occasioni) e la fotografia (che ne Il cielo sopra Berlino era curata da Henri Alekan, da cui anche il circo citato nella pellicola prende il nome). E' proprio Peter Falk ad avvertire Damiel degli inconvenienti che potrà incontrare diventando uomo in carne e ossa, a dargli suggerimenti e a incoraggiarlo a cercare la giovane donna che da subito aveva sentito come l'unico completamento possibile del suo essere, e che a sua volta stava attendendo la persona del suo destino. Un film profondamente umanista, di grande suggestione e di rara poesia, che è un viaggio nella memoria della città, nella crisi di identità dei suoi abitanti per la sua vicenda del tutto particolare, e quindi inserito in un ben preciso contesto storico, ma che ha al cobtempo una valenza generale, parla del significato del tempo, dei sogni e delle aspirazioni, della ricerca di felicità e pienezza di ogni essere umano, di dare insomma un senso alla propria esistenza nonostante tutte le contrarietà degli eventi e i condizionamenti a cui è sottoposto. Se vi capita a portata di mano, va da sé che raccomando di correre a vederlo. Il paragone con quello che è mediamente in circolazione negli ultimo dieci anni è sconfortante. 

sabato 21 ottobre 2023

L'ultima volta che siamo stati bambini

"L'ultima volta che siamo stati bambini" di Claudio Bisio. Con Alessio di Domenicantonio, Vincenzo Sebastiani, Carlotta De Leonardis, Lorenzo McGovern Zaini, Marianna Fontana, Federico Cesari, Antonello Fassari, Claudio Bisio e altri. Italia 2023 ★★1/2

Cosimo, Italo, Vanda e Riccardo sono quattro bambini sui dieci anni di estrazione diversa che vivono nello stesso quartiere a ridosso del Tevere, dalle parti del Ghetto, e che hanno stretto tra loro il "patto dello sputo" (di sangue ne scorre già abbastanza...): a Roma sono ancora fresche le ferite del bombardamento del 19 luglio del 1943 che l'hanno resa una "città aperta", di fatto in mano ai tedeschi, e siamo nei giorni che seguono la vergognosa fuga del re fellone e della sua corte dei miracoli guidata dal maresciallo Pietro Badoglio dopo l'8 settembre. Quando Riccardo, dopo il rastrellamento degli ebrei romani del 16 ottobre scompare, assieme ai genitori, che avevano una merceria nei pressi del Portico d'Ottavia, saputo che sono diretti con un treno in Germania in un "campo di lavoro", decidono di andare a recuperarlo. La guerra vista con gli occhi, non sempre innocenti in verità, dei bambini non è un tema nuovo e l'accostamento a La vita è bella di Benigni (ma anche ad altri film sul genere) è immediato: in questo caso la sceneggiatura, dello stesso Bisio, assieme a Fabio Bonifaci, è basata sul romanzo omonimo di Fabio Bartolomei, e ha come tema l'amicizia e la solidarietà al di là di tutte le differenze. Cosimo infatti è figlio di un dissidente politico al confino, Italo di un gerarca (impersonato dallo stesso Bisio in un cameo) e fratello di Vittorio, un militare ferito in Africa, dunque un "eroe" di guerra, mentre lui è grasso e goffo; Vanda è senza genitori ma è la testa fina, e scappa ogni giorno dall'orfanotrofio che la ospita e dalla sorveglianza, complice, della giovane Suor Agnese, per raggiungere i suoi tre amici. Proprio quest'ultima e Vittorio si mettono all'inseguimento del trio seguendo i binari della ferrovia e incappando in una serie di disavventure abbastanza improbabili, che seguono a ruota quelle che si abbattono sui tre ragazzini. Rischiano anche l'esecuzione da parte dei tedeschi (come al solito i cattivi della situazione, mentre i loro complici nostrani, alla fine, vengono comunque fatti passare per bonaccioni tutt'al più un po' opportunisti e codardi, come da stantìo luogo comune). Si sorride, per la sostanziale lievità e l'aspetto favolistico del racconto, nonostante il finale amarognolo che non svelo (almeno c è stato risparmiato il lieto fine), ma alla fine il film non convince del tutto. Se è lodevole l'intento di ricordare la deportazione degli oltre duemila ebrei romani (dai campi di concentramento ne tornarono soltanto 101, e nessun bambino), le lacune non mancano, a cominciare dai cliché accennati prima, e dall'eccesso nel caricaturare situazioni e personaggi, mentre l'aspetto positivo sta nell'interpretazione dei personaggi principali, in particolare i ragazzini, che sono bravi e spontanei per conto loro ma il merito anche all'esordiante regista per averli saputi dirigere, ma sono certo che Claudio Bisio, se ne avrà l'occasione, sia capace di proporre qualcosa di meglio e di più originale. 

domenica 15 ottobre 2023

Non credo in niente

"Non credo in niente" di Alessandro Marzullo. Con Demetra Bellina, Giuseppe Cristiano, Renata Malinconico, Mario Russo (II), Lorenzo Lazzarini, Gabriel Montesi, Juni Ichikawa, Antonio Orlando (II) e altri. Italia 2023 ★★★★+

Come un'affiatata rock band, a bordo di una vecchia Citroën Station Wagon, il coproduttorre e attore Lorenzo Lazzarini, l'interprete principale Demetra Bellina, che giocava in casa essendo nata nel capoluogo friulano, e il regista e sceneggiatore Alessandro Marzullo, all'esordio nel lungometraggio, sono venuti al Visionario di Udine a presentare Non credo in niente, che aveva ricevuto un'ottima accoglienza alla 59ª Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro ed è uscito nelle sale il 28 di settembre: alla fine della proiezione si sono intrattenuti per oltre un'ora assieme a un pubblico folto e decisamente soddisfatto, rispondendo a numerose domande non banali, dimostrando una disponibilità non comune. Una viaggio notturno in una Roma sporca e degradata da parte di una serie di anime fluide, per parafrasare Zygmunt Bauman, giovani sulla soglia dei trent'anni, tutti alle prese con delle aspirazioni artistiche frustrate da un'esistenza fatta di lavoro precario e sottopagato,  che vivono una realtà sempre più squallida, piatta, chiusi in un solipsismo senza prospettive, incapaci di intrattenere dei rapporti solidi e relazioni solidali col prossimo, in definitiva di fare gruppo: l'esatto contrario di quello che hanno fatto tutti coloro che hanno dato vita a questo piccolo miracolo, i quali in estate a Pesaro si sono presentati in massa alla proiezione di quello che non è un grido nichilista, come potrebbe sembrare dal titolo, ma una presa d'atto dello stato delle cose che vuole indicare che una svolta è possibile, facendo squadra e mettendo a frutto i propri talenti, realizzare le proprie aspirazioni. Mettendosi in gioco, insomma, cosa che questi ragazzi hanno fatto per Non credo in niente. Film che non ha bisogno di una vera e propria trama, una storia che lo sorregga, per fare percepire allo spettatore le sensazioni e il malessere dei suoi personaggi, la loro difficoltà a stare al mondo "senza disunirsi", citando a sua volta il Sorrentino di E' stata la mano di Dio: sono sufficienti le immagini, frammenti di vita dei diversi personaggi, che si incrociano soltanto in una specie di zona franca, lo spazio dove staziona il furgone del "paninaro" (interpretato fra l'altro da Lorenzo Lazzarini), una specie di confessore laico, o psicologo di strada, che ha la parola giusta per tutti, dove ciascuno di loro riesce, per un attimo, a essere davvero se stesso. Abbiamo una coppia di musicisti, lei pianista e lui violinista, che da anni ormai vive un rapporto disfunzionale lavorando in nero per un ristoratore che li sfrutta; un attore che, tra un provino e l'altro, si dedica ossessivamente al sesso occasionale; una giovane hostess, bravissima a disegnare, che tra un volo e l'altro e un soggiorno nell'albergo dove scende abitualmente si incontra e si scontra con un giovane aspirante scrittore che lavora alla reception... Lampi di luce nel buio, locali notturni, scene di strada, l'officina di un meccanico che ripara motociclette, amico dell'attore che su una Yamaha attraversa le strade buie e deserte della capitale. Il film è fatto di bagliori improvvisi, parcellizzato come lo sono le esistenze dei suoi personaggi, schegge verbali, volutamente destrutturato ma al tempo stesso tenuto insieme da una colonna sonora poderosa, che si deve a Riccardo Amorese, e a una fotografia satura, di grana grossa: Marzullo ha volutamente girato il film su pellicola da 16 mm, che l'ha costretto alla ridurre al minimo le riprese per motivi di costo (il film è stato girato in 13 notti nell'arco di 2 anni e ha richiesto un accorato lavoro di montaggio) e il risultato ricorda non poco le atmosfere dei film di Wong Kar-wai, il grande autore di Hong Kong a cui il giovane regista modenese ha esplicitamente detto di ispirarsi. Il risultato è una pellicola (è il caso di dirlo) fortemente sperimentale, frutto di un rigoroso lavoro di gruppo in cui tutte le componenti hanno dato il loro contributo, anche di scrittura, del tutto inconsueta nel panorama italiano, anche quello del cosiddetto "nuovo cinema" dei vari D'Innocenzo, Parroni, Bozzelli. Film generazionale, certamente, ma il disagio dei suoi coetanei Marzullo è riuscito a esprimerlo compiutamente meglio di chiunque altro, a mio parere. Un esordio più che incoraggiante e una gradita sorpresa: nuovo cinema con un sapore antico. 

mercoledì 11 ottobre 2023

Kafka a Teheran

"Kafka a Teheran" (Ayeh haye zamini/Terrestrial Verses) di Ali Asgari e Alireza Khatami. Con Majid Salehi, Gohar Kheirandish, Farzin Mohades, Safad Asgari, Hossein Soleimani, Faezeh Rad, Bahram Ark, Sarvin Zabetian, Arghavan Shabani, Ardeshir Kazemi. Iran 2023 ★★★★1/2

Come in un caleidoscopio, nove episodi di vita quotidiana a Teheran in interni diversi, intitolati con il nome dei protagonisti, e uno finale che vede un vecchio seduto immobile a una scrivania, la moderna skyline della città che si scorge dalla vetrata alle sue spalle, mentre un terremoto la scuote dalle fondamenta e i futuristici grattacieli della capitale iraniana crollano uno dopo l'altro. Un mirabile esempio di cinema civile, anzi: di vera e propria resistenza umana, realizzato a quattro mani da Asgari e Khatami superando le infinite trappole e difficoltà facilmente immaginabili a quelle latitudini e a cui sicuramente non verrà data libera visione in patria. Abbiamo un neo padre a cui viene vietato di iscrivere all'anagrafe il figlio con il nome di David, perché non è "coranico" e sciita, a cui al massimo verrebbe consentito il persiano Davood, che ne è l'equivalente; la bimba in tuta e felpa che viene agghindata "islamicamente" per partecipare a una celebrazione scolastica in una boutique che tratta articoli del genere; una studentessa che viene convocata dalla preside perché è stata vista arrivare nei dintorni della scuola con un ragazzo in moto e messa sotto torchio (ma la ragazza le renderà la pariglia); le disavventure di un giovane che sta facendo una visita per il rinnovo della patente, sottoposto a un interrogatorio demenziale e costretto a denudarsi per mostrare i versi di un famoso poeta locale tatuati sul suo corpo; il regista a cui, per ottenere il nullaosta di un film, viene imposto di togliere dal copione tutte le parti che parlino anche solo velatamente di parricidio (peraltro simbolico) e colpe del genitore al punto da stravolgerne completamente il significato e in base a ragionamenti del tutto capziosi; una ragazza che subisce le avances del grande capo di un'azienda privata durante un colloquio di lavoro; un disgraziato che per avere la speranza di ottenere un contratto (da fame) a tempio determinato di un anno, previo periodo di prova di tre mesi, subisce un interrogatorio sulla conoscenza, a memoria, di alcune sure del Corano nonché la tragicomica dimostrazione, all'asciutto, di compiere correttamente i lavacri prima delle rituali preghiere; la delirante avventura in una stazione di polizia di un'anziana signora che reclama il suo amato chihuahua sequestrato da due poliziotti motociclisti perché "animale impuro" (oltre alla polizia morale abbiamo anche la polizia canina...) e, in via riparatoria, vede proporsi l'offerta di un quattrozampe di altra razza detenuto in quel commissariato... Inquadrata è sempre e soltanto la vittima di queste vessazioni, mai chi le compie, al massimo una mano o un'ombra: a significare che in Iran il potere è ovunque, onnipresente e onnisciente, pervade tutta la società e le menti dei sudditi, che tali vengono considerati da un potere malato, marcio e più opprimente che mai, come sappiamo anche dalle cronache che filtrano da quel magnifico quanto infelice Paese. 77 minuti di cinema puntuale, implacabile, essenziale, ironico, dove si sorride amaro, ci si indigna ma mai abbastanza, perché la pervicace idiozia del potere è ovunque, soprattutto dove vige una teocrazia o comunque un dogma, come dimostrano gli esempi dei Paesi comunisti e la stessa sedicente democrazia di stampo occidentale, quella della verità e del pensiero senso unico. Ma finché circolano film come Kafka a Teheran e c'è gente che sfida il potere per girarli e diffonderli, c'è speranza, soprattutto se si va a vederli numerosi.

sabato 7 ottobre 2023

Asteroid City

"Asteroid City" di Wes Anderson. Con Jason Schwartzman, Scarlett Johansson, Tom Hanks, Bryan Crainston, Jeffrey Wright, Tilda Swinton, Yony Revolori, Edward Norton, Adrien Brody, Liev Schreiber, Hope Davis, Steve Park, Rupert Friend, Maya Hawke (II), Steve Carrell, Margot Robbie, Steve Carell, Jeff Goldblum, Sophia Lillis, Willem Defoe, Matt Dillon e altri. USA 2023 ★★★★

Ha ragione da vendere l'ottimo Gianmatteo Pellizzari quando, sul Messaggero Veneto, segnala la pervicacia con cui la critica e i commentatori "social" che detestano il cinema di Wes Anderson si ostinino ad andare a vedere i film di un autore che, se ce n'è uno, non cambierà mai, rimproverandogli di aver girato un film, per l'appunto, "andersoniano". Chi conosce il modo di costruire un racconto per immagini del regista texano, assieme alla componente giocosa, che mischia falso con posticcio con verosimile, compresi scenari di cartapesta quando non addirittura inserti grafici o animati, per esprimere sentimenti, invece, autentici e spesso profondi, sa già cosa può aspettarsi: delle variazioni sul tema, mai banali, confezionate con cura artigianale e con la complicità di interpreti di prima grandezza che si adeguano volentieri ai cliché dell'autore e lo seguono nelle sua stravaganti avventure, a tutta evidenza divertendosi quanto lui. Contraddicendo loro per primi un'altra critica che circola regolarmente: che Anderson "sottoutilizzi" i suoi attori, quando invece è vero il contrario, perché li sa dosare senza sovraesporli, rendendoli funzionali al racconto, azzeccando le loro parti e al contempo lasciando loro ampio margine di manovra, cosa che si evince da qualsiasi suo film. Io non sono "a priori" un fan di Anderson ma ne riconosco il talento, e ammetto che ho impiegato qualche giorno a "digerire" Asteroid City prima di riuscire ad apprezzarlo come merita: di primo acchito non mi aveva del tutto convinto, al punto che l'avevo trovato perfino un po' noioso, nonostante duri soltanto 90'. Asteroid City è un immaginario sito nel deserto del Nevada cresciuto intorno a un cratere creato da un meteorite e che è diventato un'attrazione turistica: ci sono un campeggio-motel, una stazione di servizio con annessa officina, una tavola calda, un osservatorio astronomico in cui si svolge anche una specie di concorso annuale per giovani scienziati geniali. E’ lì che si incrociano le storie di vari personaggi: una famosa attrice con la figlia, un fotografo di guerra rimasto vedovo e con tre figli in attesa di affidarli al nonno, una scienziata che studia il cosmo e organizza il concorso di cui sopra, un'insegnante con un gruppo di bambini, oltre ad altri tipi curiosi che abitano più o meno stanzialmente questo classico luogo di frontiera, molto America Anni 50 e anche molto colorato. La situazione cambia quando arriva un'astronave aliena e un extraterrestre sottrae il meteorite che ha reso celebre il luogo, salvo riportarlo alla fine della vicenda, opportunamente stampigliato. Nel frattempo l'esercito impone una quarantena e impedisce all'estemporanea comunità di lasciare il luogo finché la questione dell'incursione aliena non si chiarisce. Nel mentre, i personaggi interagiscono e, a secondo dei rispettivi retroterra, si svelano. Ma questa è solo la superficie, perché Asteroid City in realtà è una commedia teatrale in due atti (e mezzo), la cui difficile gestazione da parte dell'autore viene inizialmente raccontata in un elegante bianco e nero da Bryan Crainston e, successivamente, nella parte finale del film, sempre in bianco e nero, adattata per la televisione da Adrien Brody, il tutto con l'intervento di personaggi che diventano autori e viceversa, in un gioco di specchi che si inserisce a sua volta in una sorta di scatola cinese. Come spesso accade nei film di Anderson, un intreccio non proprio facile da seguire ma che risulta, alla fine, piuttosto chiaro e intellegibile, perché quello che importa non è la trama, esigua se non inesistente, quanto le sensazioni e gli spunti che dal dipanarsi della vicenda lo spettatore ricava: una serie di quadretti, alcuni fulminanti, apparentemente strampalati, ma che alla fine rimangono impressi perché non sono mai banali. La bravura degli interpreti non si discute, l'abilità del regista nemmeno, forse non è il film più entusiasmante di Anderson, ma siamo comunque sempre ad alti livelli, soprattutto in considerazione di quello che c'è in giro in questi tempi grami. A chi proprio non va giù il suo cinema, consiglio di andarsi a vedere qualcos'altro.

martedì 3 ottobre 2023

The Palace

"The Palace" di Roman Polanski. Con Oliver Masucci, Fanny Ardant, John Cleese, Mickey Rourke, Joaquim de Almeida, Luca Barbareschi, Milan Peschel, Fortunato Cerlino, Bronwyn James, Teco Celio, Olga Kent, Sydne Rome, Irina Kastrinidis, Matthew T. Reynolds e altri. Italia, Svizzera, Polonia 2023 ★★★★+

Un film può piacere o meno, sui gusti non si discute: del resto, il "pensiero dominante" ha fatto passare Barbie per una brillante parabola femminista e Oppenheim per un capolavoro, ma insinuare che con The Palace un genio come Roman Polanski, moralmente esecrabile sull'onda del bigottismo USA per i suoi (supposti) comportamenti privati, si sia ispirato ai "cinepanettoni" dei Vanzina fa cadere le braccia, o meglio i coglioni. A 90 anni e con una carriera come la sua alle spalle, Polanski può fare quel che vuole e lo fa comunque bene, anche quando si prende, per così dire, una "vacanza" e si diverte a fare la parodia dei film di genere e, al contempo, un ritratto puntuale e giustamente feroce sulla miseria umana della gentaglia a cui un sistema e un mondo malato consente di soggiornare in un posto come Gstaad, in Svizzera, in un albergo per milionari a festeggiare il Capodanno del Milllennio, quello del 2000, quando si temeva che le catastrofiche conseguenze di un supposto bug informatico al momento del cambio della fatidica data avrebbero mandato per aria il pianeta. Lo sguardo divertito e corrosivo del regista polacco, che ha scritto la sceneggiatura assieme a un altro gigante come il connazionale Jerzy Skolimovski e ad Ewa Piaskowska, si concentra sulla variegata quanto repellente fauna che si raduna per l'occasione nel lussuoso complesso, diretto dell'impeccabile Hansueli Kopf (Oliver Masucci, grande attore misconosciuto) che, con efficienza e precisione elvetica, riesce, col suo staff e non poco senso dell'ironia (nonché l'ausilio di sempre più frequenti sorsate di schnaps) a tenere sotto controllo una situazione che, considerata la tipologia della clientela, il cui comune denominatore è l'arrogante cialtroneria e volgarità dei ricchi potenti, degenera inevitabilmente nel caos più assoluto. Abbiamo una serie di carampane rifatte fino al midollo (tra le quali, Fifty Years After  la Sydne Rome che era stata protagonista di Che?,  altro film "fuori ordinanza" di Polanski, del 1972); Bongo, un attore già noto per le dimensioni del suo "batacchio" (Barbareschi, in questa occasione anche produttore); Fanny Ardant nei panni di un'altra riccona alle prese con le mefitiche deiezioni del suo orrendo cagnetto che fa indigestione di caviale; John Cleese nella parte del vecchio miliardario americano che ci rimane secco durante un rapporto con la giovanissima moglie e tenuto in vita apparente per non farle perdere l'eredità; un gruppo di "imprenditori" russi tipo oligarca di rara volgarità col loro seguito di puttane fameliche i quali assistono per TV al passaggio di poteri tra il loro protettore Eltsin e Putin, avvenuto proprio in quella data fatidica; il redivivo Mickey Rourke è un'altra canaglia, stavolta USA, che coinvolge un funzionario di banca svizzero in una truffa basata sull'aspettativa del "botto informatico"; il chirurgo estetico brasiliano Dottor Lima (Joaquim de Almeida)... Insomma dei prototipi da "Alta Società" dipinti con divertito furore, personaggi di raro squallore sui quali, dall'alto del suo senso dell'umorismo, il buon Roman non infierisce neanche più di tanto, limitandosi a deriderli, come meritano: Ruben Östlund, in Forza maggiore e nel più recente Triangle of Sadness, che con The Palace hanno parecchi punti di contatto, è stato molto più caustico e feroce. Pressoché ignorato anche al recente passaggio a Venezia, io ho trovato The Palace una pochade grottesca come i suoi personaggi, gustosa, irriverente, divertita: girata col sorriso (sardonico) sulle labbra ed esilarante per la parte di pubblico sulla stessa onda degli autori. Avercene, di loro emuli all'altezza...

venerdì 29 settembre 2023

La verità secondo Maureen K.

"La verità secondo Maureen K." (La Syndacaliste) di Jean-Paul Salomé. Con Isabelle Huppert, Grégory Gadebois, François-Xavier Demaison, Pierre Deladonchamps, Alexandra Maria Lara, Gilles Cohen, Yvan Attal, Benoît Magimel, Marina Foïs, Geno Lechner e altri. Francia 2022 ★★★★+

Passaggio semiclandestino nelle sale nostrane (e già quasi sparito dalla programmazione dopo una settimana) dopo essere stato presentato l'anno scorso a Venezia nella sezione Orizzonti, e pressoché ignorato, di un film scomodo proprio perché racconta in maniera impeccabile una storia vera: fa venire in mente il boicottaggio internazionale nei confronti di Adults in The Room di Costa Gavras, del 2019, basato sul libro dell'ex ministro dell'economia greco Gianis Varuofakis. Scomodo per i "poteri forti" europei, mai uscito in Germania e in Italia perché parlava di come la UE e la BCE draghiana abbiano mandato a picco la Grecia per salvare le banche di Germania e Francia in primis. Qui i poteri forti sono quelli che stanno dietro al "nucleare" francese, perché si parla della vicenda kafkiana di cui è stata vittima Maureen Kearney, rappresentante sindacale del Gruppo Areva, leader nella costruzioni di centrali nucleari, che nel 2012 aveva svelato, grazie a una soffiata di un ingegnere di EDF, le trattative segrete che avrebbero portato all'assorbimento da parte della stessa EDF, colosso dell'elettricità francese, a sua volta in trattative con la cinese CGNPC per la costruzione, con know how francese, di centrali nucleari in tutto il mondo. Il che avrebbe portato alla perdita di decine di migliaia di posti di lavoro, oltre a un primato tecnologico. La donna aveva battagliato col nuovo vertice di Areva, aveva interessato parlamentari e contattato lo stesso ministro dell'Economia Montebourg, ma la mattina del 17 dicembre 2012, lo stesso giorno in cui avrebbe dovuto incontrare il neopresidente François Hollande, venne assalita in casa sua, incappucciata, bendata, le fu incisa una "A" sul ventre e infilato dalla parte del manico un coltello nella vagina: così la trovò, in cantina, la donna delle pulizie dopo qualche ora. Non fu creduta dalla polizia che, dopo una serie di angherie e minacce, ribaltò la sua posizione da vittima ad accusata: avrebbe inscenato lei stessa l'aggressione a suo uso e consumo per fare cadere i sospetti sui suoi avversari "politici": il resto lo fece una corte complice che, in primo grado, arrivò a condannarla per simulazione, e un avvocato non si sa se più incapace o imbecille. Solo sei anni dopo, assistita da un legale all'altezza e quando lei stessa aveva ritrovato l'equilibrio e la capacità di ricordare lucidamente gli avvenimenti di quella violenza subita, venne definitivamente prosciolta. A impersonare Maureen, una Isabelle Huppert che, se possibile, supera sé stessa per bravura: senza fronzoli, è capace di immedesimarsi, anche fisicamente, nella sindacalista d'origine irlandese, rivelandone luci e ombre, una donna sola nel mondo degli uomini per antonomasia: quello del potere. Un'interpretazione strepitosa. Ecco: nonostante la presenza di una delle più portentose attrici in circolazione, e in barba a tutto il parlare (a vanvera) di Me Too, uguaglianza di genere e altre correnti di pensiero modaiolo d'importazione USA, non appena si vanno ad affrontare, tra l'altro fondendo elementi di documentario e di thriller politico, oltre che di poliziesco tout court, temi "delicati" per i detentori del potere vero, ecco che anche la critica professionista che bivacca tra redazioni di giornali e studi radiotelevisivi, nonché quella che si agita in rete, si tira indietro e quando non lo ignora, smonta questo film ben fatto, essenziale, dal ritmo incalzante, scorrevole, con ottimi interpreti, credibile. Se riuscite a intercettarlo, merita. Fidatevi. 

lunedì 25 settembre 2023

Assassinio a Venezia

"Assassinio a Venezia"(A Hounting in Venice) di Kenneth Branagh. Con Kenneth Branagh, Tina Fey, Kelly Reilly, Riccardo Scamarcio, Camille Cottin, Jamie Donan, Michelle Yeoh, Jude Hill, Maxime Gerard, Emma Laird, Ali Khan (II) e altri. USA 2023 ★★=

Considerata la povertà di soluzioni alternative a disposizione in questo periodo che non fossero già dal titolo una martellata sui testicoli assicurata, per trascorrere un paio d'ore di relax ho optato per il terzo episodio della serie di film che Kenneth Branagh ha tratto, abbastanza liberamente, da Agatha Christie e in cui ha riservato a sé la parte di Hercule Poirot. Questo nonostante non abbia mai amato la scrittrice inglese e il gigionismo di Branagh cominci a diventarmi indigesto (tant'è vero che, dopo Assassinio sull'Orient Express, avevo saltato Assassinio sul Nilo, uscito lo scorso anno). Sì: perché ormai quello del regista e attore nordirlandese è un vero e proprio format, praticamente inesauribile da qui a fine carriera, come del resto la sterminata produzione della celebre "maestra del giallo". Non mi soffermo sulla trama, arzigogolata e cervellotica come al solito negli intrighi congegnati dalla Christie (il libro a cui si ispira, almeno in parte, è Hallowe'en Party, da noi tradotto come Poirot e la strage degli innocenti) e che ha come premessa l'abbandono della professione da parte del famoso investigatore e la scelta di rifugiarsi a Venezia per godersi la meritata pensione. Siamo nel 1949 e dal buen retiro va a stanarlo una vecchia amica, la scrittrice di bestseller (gialli, ça va sans dire) Arianne Oliver, che lo convince ad assistere a una seduta spiritica organizzata dall'ex cantante d'opera Rowena Drake nel palazzo di sua proprietà dalla storia "stregata" e maledetta, la quale vuole entrare in contatto con la figlia che lì ha incontrato una morte misteriosa qualche tempo prima, apparentemente un suicidio per pene d'amore. Il razionalista Poirot si fa coinvolgere più che altro per smascherare l'impostura della medium chiamata a fare da intermediaria coi trapassati e si trova, come da copione, a risolvere non solo il caso della morte della ragazza, in questa casa apparentemente infestata dai fantasmi di bambini vendicativi che a suo tempo vi furono ospitati, ma quella di due omicidi "live" avvenuti nel corso della nottata in cui si pretende che si svolga tutta la vicenda: quello della medium e quello del medico che aveva in cura la figlia di Rowena Drake. Il classico caso del delitto nella stanza (quasi) chiusa, insomma. Atmosfera a tinte fosche, suggestioni horror, o "gotiche" come usa dire certa critica militonta, che finiscono per fagocitare anche un detective così poco suggestionabile: l'ambientazione in un lugubre palazzo abilmente ricostruito (siamo dalle parti del consolato tedesco, nei pressi del Ponte dell'Accademia) contribuisce al clima di tensione ma rende il tutto ancora più farsesco. Rimedia in parte la bravura degli interpreti, fra cui brilla, a mio avviso, Camille Cottin, nel ruolo della governante, una ex suora, il motivo principale per cui mi sono avventurato a vedere il film. Il resto è paccottiglia, colpi di scena tanto a effetto quanto improbabili, ma quello che indispone fin dall'inizio è la premessa, ossia un falso storico: nel 1949 nessuno in Italia sapeva cosa fosse Halloween e si è cominciato a "festeggiarlo" soltanto a inizio degli esiziali anni Ottanta. Meno che mai celebravano la "ricorrenza" gli orfanelli veneziani in quell'anno di grazia, che pure vide, con l'apertura della Collezione Peggy Guggenheim, l'inizio di una sorta di colonizzazione culturale americana che avrebbe avuto i suoi affetti a venire, ma certamente non ancora all'epoca. Alla fine, una pellicola presuntuosa e indisponente. Ancora più fa incazzare venire a sapere che Assassinio a Venezia in Italia è campione di incassi al botteghino in queste settimane, superando ampiamente un film importante e bellissimo come Io capitano. Ma questi sono i tempi che corrono, grazie anche a chi indirizza un pubblico sprovveduto e rincoglionito a dovere. Mi dispiace di aver contribuito al suo successo. 

mercoledì 20 settembre 2023

Io capitano

"Io capitano" di Matteo Garrone. Con Seydou Sarr, Mustafa Fall, Issaka Sagawondo, Hichem Yacoubi, Doodou Sagna, Josep Beddelem, Bamare Kane, Henri Didier Njikam e altri. Italia, Belgio 2023 ★★★★1/2

E' stato sottolineato da più parti come Io capitano, Leone d'Argento all'ultima Mostra del Cinema di Venezia, che racconta l'odissea del viaggio dal Senegal all'Italia di due cugini sedicenni, Seydou e Mussa, si collochi sulla scia di Pinocchio, il precedente film di Matteo Garrone: racconto di formazione di due ragazzi alla ricerca di una dimensione diversa (in questo caso l'ambizione è sfondare nel mondo della musica e firmare autografi agli europei), inserendo la loro avventura nel contesto attuale e nella realtà del fenomeno migratorio che da alcuni decenni ormai è al centro di dispute politiche e ideologiche che sistematicamente ignorano la dimensione individuale e, soprattutto, umana della questione. Introducendo un elemento fiabesco (peraltro presente in altri suoi film precedenti come L'imbalsamatore e Il racconto dei racconti) Garrone contribuisce a spiazzare e mettere fuori gioco la canea emergenzial-sovranista, evitando di buttarla su un piano "idelolgico"; inoltre la vicenda, emblematica, esce non solo dagli schemi con cui l'emigrazione viene solitamente raccontata dai media, ma mostra in maniera molto credibile il punto di vista di chi fa questa scelta e vive vicende allucinanti come questa doppia traversata, del deserto (il Sahara) e poi del mare (Mediterraneo). Nonostante la povertà, comunque dignitosa, a Dakar Seydou e Mussa vivono una vita normale, inseriti in un ambiente famigliare come tanti, sano e affettuoso, e hanno gli stessi sogni e aspirazioni di qualsiasi ragazzo europeo: ascoltano la stessa musica, guardano gli stessi video sui loro smartphone: è il sogno di diventare delle Star che li motiva a lavorare nelle ore libere per accumulare il danaro necessario per il "grande viaggio", benché vengano sconsigliati da chiunque: dalle rispettive madri, da chi lo ha già affrontato, da chi sa a cosa andranno incontro, sia durante il trasferimento, sia una volta giunti, eventualmente, all'agognata meta. La prima parte del film, dunque, è incentrata sulla vita quotidiana dei due ragazzi nella capitale senegalese, fino alla decisione, molto combattuta da parte di Seydou, di partire di nascosto. Quella che segue è la storia comune a decine, centinaia di migliaia di schiavi moderni (schiavi "volontari", si potrebbe dire) che a ogni passaggio vengono spennati e vessati: ammassati su mezzi  di trasporti perlopiù inadatti, fatti camminare per giorni in mezzo al deserto (splendide le immagini del tragitto tra Senegal, Mali, Niger e Libia, girate però giocoforza in Marocco), incarcerati, torturat e ricattati da bande di ribelli libici per ottenere i numeri di cellulare con cui contattare i famigliari da ricattare per succhiare altri soldi; lavoratori in nero una volta giunti a Tripoli, in attesa di affrontare la traversata verso l'Italia. Nel frattempo Seydou e Mussa si perdono di vista, perché il secondo rimane prigioniero dei banditi libici, ma dopo mille peripezie Seydou, che nel frattempo ha avuto modo di maturare rapidamente, lo rintraccerà proprio nella capitale libica, ferito, e l'urgenza di curare la gamba di Mussa, perforata da un proiettile, lo indurrà ad accettare l'offerta dei trafficanti di condurre lui stesso il battello con cui raggiungere la Sicilia, benché non ne abbia mai portato uno e non sappia nemmeno nuotare: è l'assunzione di responsabilità nei confronti non solo del cugino, ma del suo prossimo, da parte del ragazzo, più che la traversata che avviene senza eccessivi problemi, il cuore dell'ultima parte di questo film e, in sostanza, di tutto il racconto di questa piccola grande epopea narrata con uno spirito autenticamente umanista di cui va ringraziato di cuore Matteo Garrone. Notevole quanto credibile l'interpretazione di Seydou Sarr, premiato a Venezia all'esordio come attore che, come l'amico e "collega" Mustafa Fall, è musicista e canta pure (una bella voce) nella colonna sonora della pellicola. Io capitano è un film notevole, che parla del fenomeno migratorio senza preconcetti e lontano dai luoghi comuni, che vale la pena di essere visto e sarebbe indicato soprattutto per quelli che ne parlano a vanvera e si bevono il ciarpame intriso di razzismo e pregiudizi propalato dai mezzi d'informazione e dai politicanti di ogni risma, salvo rarissime eccezioni. Proprio per questo non avrà il successo di botteghino che si meriterebbe ampiamente.

lunedì 4 settembre 2023

Oppenheimer

"Oppenheimer" di Christopher Nolan. Con Cillian Murphy, Emily Blunt, Robert Downey Jr., Matt Damon, Florence Pugh, Jack Quaid, Rami Malek, Bennie Safdie, Michael Angarano, Josh Hartnett, Kenneth Branagh, Jason Clarke, Dane DeHaan, Matthew Modine, Dylan Arnold e altri, USA 2023 ★★★1/2

L'aspetto positivo del pompaggio a manetta, francamente eccessivo, dell'ultimo film di Christopher Nolan, basato sulla biografia di J. Robert Oppenheimer scritta da Kai Bird e Martin J. Sherwin (titolo originale America Prometheus), è stato la riesumazione di Following, film d'esordio del regista britannico, presentato per l'occasione in contemporanea con l'uscita di Oppenheimer; quello negativo, inevitabile quando si esagera nel creare aspettative, è di averne indotte troppe, per cui alla fine la delusione è in agguato. Così come è inevitabile andare a cercare i difetti di un film che è si tecnicamente di altissimo livello, e ci mancherebbe anche altro, col budget che il regista, e qui anche sceneggiatore, si è trovato fra le mani, così come un cast di prim'ordine, ma non il capolavoro che era stato fatto balenare dagli imbonitori che bivaccano nelle redazioni degli spettacoli di giornali, radio e TV in una unanime celebrazione anticipata, prima ancora che uscisse nelle sale. Come sempre in Nolan la narrazione scorre su diversi livelli temporali: da un lato cronologicamente incentrata sull'evoluzione del fisico, nato a New York da famiglia ebreo-tedesca ma formatosi in Europa, a partire dal 1926, quando si trovava prima a Cambridge e poi a Göttingen, a contatto con i fondatori della fisica quantistica, una dimensione completamente nuova di vedere e interpretare la materia di cui si occupava (non in esclusiva, perché i sui interessi erano molteplici e spaziavano in discipline diverse), la sue convinzioni progressiste, i contatti ravvicinati con esponenti comunisti (che poi gli sarebbero stati rinfacciati) che non impedirono a Roosevelt di volerlo a capo del Progetto Manhattan, ossia lo sviluppo della bomba atomica, che avvenne in gran segreto a Los Alamos, New Mexico, in un sito voluto da Oppenheimer stesso in una zona che conosceva bene, in un count-down serrato fino al primo test nel deserto, chiamato Trinity, poche settimane prima che due ordigni venissero sganciati su Hiroshima e Nagasaki; dall'altro, in un bianco e nero che ben evidenzia posizioni diverse, le udienze "private", avvenute nel 1954, piena epoca maccartista di "caccia allestreghe", leggi comunista, in seguito alle quali gli sarebbe stato negato il nulla osta per la sicurezza, per una vendetta di Lewis Strauss, a suo tempo presidente della Commissione per l'energia atomica e aspirante segretario di Stato per il commercio. Due filoni, dunque, che si intrecciano di continuo nell'arco delle tre ore che dura il film, che comunque regge la durata e non annoia. E veniamo alle pecche. Oppenheimer era ben cosciente, anche per formazione, di cosa avrebbe comportato lo sviluppo dell'arma nucleare, e oltre a raggiungere l'obiettivo di battere sul tempo i nazisti nello sviluppo dell'arma definitiva, contava sull'effetto "deterrente" che avrebbe dovuto indurre a una soluzione diplomatico-politica per una cooperazione in campo nucleare, ma la sua visione filosofica, come il suo retroterra culturale, è tratteggiato un po' troppo sommariamente e rischia di risultare incomprensibile a chi non conosce la storia del personaggio e certi dettagli; era dunque un uomo geniale, combattuto, come segnato da un destino (dharma) che sentiva incombere su di lui, e ben lo interpreta uno smagrito Cillian Murphy, già presente in altri film di Nolan, in un ruolo paradossalmente simile al Thomas Shelby di Peaky Blinders, serie TV britannica di gran successo sulle vicende di una banda di zingari nell'Inghilterra degli anni Venti e Trenta. Sempre a proposito di serie TV, tutta la fase di Los Alamos ricorda molto da vicino Manhattan, due stagioni uscite nel 2014 e 2015, dove pure era presente Oppenheimer, in quell'occasione interpretato da Daniel London, che a mio parere ha illustrato meglio che qui le tensioni fra gli scienziati coinvolti nel progetto. Sull'altro filone, quello dell'incalzante interrogatorio del "padre dell'atomica" per verificarne la "fedeltà" e compatibilità al sistema americano incarnato da Edgar J. Hoover, onnipotente direttore del FBI, mi è venuto in mente Good Night and Good Luck di George Clooney del 2005 (anche lì c'era Robert Downey Junior, che qui interpreta magistralmente Lewis Strauss, il migliore di tutto il cast, e il rapporto tra lui il fisico inevitabilmente mi ha ricordato quello fra Salieri e Mozart nell'Amadeus di Miloš Forman): non intendo alludere a una scopiazzatura, ma mi pare che in entrambi i casi gli autori abbiano centrato meglio il bersaglio. Certo, qui il personaggio e il fulcro è Oppenheimer, ma alla fine si ha come l'impressione di non avere del tutto capito il personaggio, come invece succede per la moglie Katherine (Emily Blunt), Jean Tatlock, l'amante comunista e suicida con cui era rimasto vivo un legame molto intenso, anche intellettualmente, e lo stesso ambizioso e vendicativo Lewis Strauss. Insomma, bel film, da vedere, ma non così mirabolante come c'era da attendersi. 

sabato 2 settembre 2023

La lunga corsa

"La lunga corsa" di Andrea Magnani. Con Adriano Tardiolo, Giovanni Calcagno, Nina Naboka, Maksim Kostyunin, Aylin Prandi, Barbora Bobulova, Stefano Cassetti e altri. Italia, Ucraina 2022 ★★★1/2

Sempre distribuito dalla benemerita Tucker Film di Udine, Andrea Magnani torna nelle sale col suo secondo lungometraggio, una piacevole garbata commedia surreale in linea con il precedente Easy e, come quello, una produzione italo-ucraina, in buona parte girato in quel disgraziato Paese. Questa volta non è un'avventura on the road, per quanto sui generis ma, al contrario, la vicenda umana, quasi agorafobica, di Giacinto, un disadattato dalla nascita che doveva chiamarsi Rosa, figlio di due reclusi che non sanno che farsene, salvo usarlo per tentare la fuga (riuscita, nel caso del padre e fallita in quello della madre) nato, cresciuto e vissuto all'interno di un carcere, accudito amorevolmente da Jack, il burbero ma affettuoso comandante delle guardie, fino all'età di 18 anni, quando viene trasferito in un una casa d'accoglienza gestita da preti. Vessato dai coetanei, completamente ignaro delle regole di vita "fuori", compie un reato (tira uno sganassone a un poliziotto) per poter tornare nell'unica realtà che conosce e che percepisce come "casa", fino a diventare a sua volta un secondino, ma a modo suo, perché coi detenuti ha un rapporto non esattamente professionale: per bontà d'animo e ingenuità, senza alcuna malafede. In particolare con Rocky, una massiccia ergastolana tatuata e inquietante, in gattabuia da un'eternità e ritenuta particolarmente pericolosa (non si fa, giustamente, alcun accenno pruriginoso alla "malvagità" del reato commesso). Inizialmente pressoché afasica, lo prende sotto la sua "ala protettrice" esattamente come Giacinto fa con lei, ed è l'unica che intuisce subito che il ragazzo ha paura della libertà, di cui non conosce le "modalità d'uso", del mondo esterno, e sarà lei a fornirgli, come regalo postumo, le "ali" di cui il giovane avrà bisogno, che poi sono i suoi piedi (e da qui il riferimento al titolo). A Giacinto dà il volto, e l'espressione straniata, Adriano Tardiolo, già visto all'opera in Lazzaro Felice (felice la sua interpretazione del personaggio al contrario del film, invero deludente), mentre l'ottimo Giovanni Calcagno è nel ruolo di Jack, Nina Naboka è Rocky e Barbora Bobulova la direttrice del carcere: significativamente, tutte e tre le donne del film, compresa la madre del giovane, hanno problemi a un occhio, di vetro la prima, coperto da una benda la seconda, ammaccato l'ultima. Ironia lieve e ad ampio spettro, gusto del paradosso, ma anche uno sguardo non banale verso un mondo "a parte" come quello carcerario, preso più sul serio di quel che potrebbe sembrare, come conferma la carrellata di immagini degli ingressi di raro squallore di una serie di autentiche case circondariali italiane in piena attività, che scorrono sui titoli di coda. Forse meno "frizzante" del film d'esordio, ma altrettanto godibile.

venerdì 1 settembre 2023

La bella estate

"La bella estate" di Laura Luchetti. Con Yile Yara Vianello, Deva Cassel, Nicolas Maupas, Alessandro Piavani, Adrien Dewitte, Anna Bellato, Andrea Bosca, Marilina Succo e altri. Italia 2023 ★★★★-

E' la prima  volta che ho l'occasione di vedere un lavoro di Laura Luchetti, autrice poco prolifica ma certamente di qualità, che in questa occasione affronta la trasposizione di questo celebre romanzo breve che Cesare Pavese scrisse nel 1940, e lo fa in maniera encomiabile, con grande garbo e fedeltà al testo, cogliendone l'atmosfera e smussando semmai alcune durezze, come la raffigurazione di alcuni dei caratteri maschili, la cui vacuità lo scrittore aveva descritto senza pietà. Siamo nel 1938, e al centro del racconto è Ginia (la bravissima sorprendente Yila Yara Vianello, un talento sicuro), una promettente giovane sarta (lavora in un prestigioso atelier) che dalla campagna si è trasferita a Torino assieme al fratello Severino (Nicolas Maupas, giovane volto già abbastanza noto e a sua  volta convincente) che cerca di studiare mentre lavora come operaio nell'azienda del gas. La ragazza, nella fase di passaggio dall'adolescenza alla realtà, è man mano attratta, attraverso l'amicizia con Amelia, una quasi coetanea che di mestiere fa la modella per alcuni pittori, dall'ambiente bohemien della città (quello preso di mira da Pavese). Se il filo conduttore è il rapporto di amicizia (e forse qualcosa di più, ma non c'è nulla di morboso nel modo in cui viene rappresentato) tra le due ragazze, Luchetti è bravissima a raccontare il processo di formazione e al contempo la sensazione di spaesamento di Ginia, per la quale la scoperta di un mondo a lei completamente estraneo va di pari passo con la progressiva presa di coscienza del proprio corpo, la sua percezione sia da parte propria, con l'insorgere del desiderio, sia da parte del prossimo, ossia i pittori con cui viene in contatto per mezzo di Amelia, tanto da indurla a chiedere loro di "copiarla" così come fanno con la sua amica. Sperimenta, insomma, come tutti i giovani, sia quel che non conosce ancora (il sesso), sia il "proibito" (l'attrazione verso Amelia), sbandando fino al punto di perdere il lavoro, a cui tanto teneva e in cui era particolarmente versata, salvo alla fine rimanare delusa sia dalle esperienze sia dalle persone con cui ha avuto a che fare durante quell'estate che precede di poco la Seconda Guerra Mondiale, ma capace di recuperare i punti fermi, che sono il fratello e alcuna vecchie certezze, anche se ferma resterà l'amicizia con Amelia, che anzi si rafforzerà quando quest'ultima scoprirà di essersi ammalata di sifilide dopo essere stata contagiata non da un uomo, ma da una donna. Fluido lo scorrere della vicenda, ottima la fotografia così come la colonna sonora, davvero pregevole la ricostruzione ambientale; unica nota di perplessità, l'interpretazione di Amelia da parte della figlia d'arte Deva Cassel, che dalla madre Monica Bellucci ha preso l'aspetto "bambolescente" ma non l'intronamento e la totale inespressività. Qualcosa ha pur preso anche da padre: quantomeno non è dislessica e completamente inetta come la genitrice, e nonostante tutto è discretamente nella parte. Però recitare è tutta un'altra cosa: vedi la Vianello, per l'appunto. Insomma, ancora tanta strada da fare, ma per il resto un ottimo film.