"Un giorno di pioggia a New York" (A Rainy Day in New York) di Woody Allen. Con Timothée Chalamet, Elle Fanning, Selena Gomez, Jude Law, Diego Luna, Liev Schreiber, Cherry Jones, Kelly Rohrbach e altri. USA 2019 ★+
Per fortuna i film di Woody Allen di solito non sono molto lunghi, perché difficilmente avrei resistito oltre l'ora e mezzo che dura questo sua ultima, francamente penosa pellicola, la 49ª della serie, la cui diffusione era rimasta impantanata per un paio d'anni in seguito a una causa milionaria tra il regista e la Amazon Studios che l'aveva prodotta e poi ne aveva bloccato l'uscita in seguito allo scoppio del "movimento" #MeToo. Penosa perché stancamente ripetitiva, sempre New York, anzi: Manhattan; sempre gli stessi ambienti; sempre le stesse battute, e sempre più stantìe; in più citazioni colte a go-gò, specie in bocca al personaggio principale, di nome, guarda caso, Gatsby, un giovane, presuntuoso e irritante ricco rampollo newyorkese (Chalament, una faccia da sberle adeguata al ruolo) e che gioca a fare il dandy, che per ripicca a un'educazione rigida e pedantesca voluta dalla madre, ripiega su un college di seconda fila anziché continuare a studiare in un'università dell'Ivy League, fuori città, dove fa gli riesce bene fare l'intellettuale ribelle, vissuto e anche vizioso (fuma, beve, gioca e vince pure); lì conosce Ashleigh (Fanning: pessima), la classica bambolotta americana bionda e scema col fisico da cheerleader e vestita in maniera improbabile per una ventenne, di Tucson, Arizona, la cui famiglia possiede numerose banche in quello Stato, che per il giornale dell'Università è stata incaricata di fare un'intervista al famoso regista Polland, giusto a Manhattan, così i due ragazzi decidono di approfittarne per trascorrere un fine settimana là e lui avrà da un lato l'occasione per spandere ulteriore merda e mostrare alla povera scema provinciale quelle parti della città che predilige (piano bar rétro, il MoMa, l'albergo di lusso dove alloggiano e altri posti simili) evitando accuratamente di partecipare all'annuale party letterario organizzato dalla genitrice. Peccato che niente vada come avevano programmato: l'intervista invece che un'ora coinvolge la ragazza per tutta la giornata in una serie di avventure inaspettate, dalla visione in anteprima del film di Pollard, alle crisi creative e depressive di quest'ultimo, all'incontro con il di lui sceneggiatore (rispettivamente Leiv Schreiber e Jude Law, che si salvano) e infine con un celebre attore latino americano che la seduce; lui nel frattempo gira per la città, incontra vecchie conoscenze tra cui Shannon (Selena Gomez: inguardabile, e per di più doppiata da cani), la sorella minore di un'ex fidanzata... Infine durante la visita di una mostra incrocia dei parenti per cui non potrà negare di essere in città e dovrà partecipare al raduno famigliare: spenderà 5000 dollari per farsi accompagnare da una escort che incontra mentre si sta sbronzando perché ha scoperto, da un servizio in TV, che Ashleigh l'ha tradito col bellimbusto ispanico. Una storiella senza succo e senza un perché che è una scusa per introdurci per l'ennesima volta negli unici ambienti che Allen pare conoscere: quelli degli intellettuali nevrotizzati e un po' nostalgici da un lato e quelli danarosi dall'altro, dove esistono solo bianchi e uno su due è ebreo, i neri non risultano e gli ispanici sono soltanto attori; per di più, da parte dei protagonisti, recitata in maniera imbarazzante, tutta smorfie e mossettine. Il tutto mentre fuori piove ma si sa: Manhattan è sempre magica, per come la vede Allen, e unica. Si salvano il jazz e un'unica trovata geniale, quando la madre del giovane stronzo lo prenderà in disparte e gli rivelerà che è un autentico figlio di puttana. Perché anche i soldi e tutta la prosopopea da bifolchi rifatti viene da qualcosa di inconfessabile. Insomma, decisamente poco e non sufficiente per giustificare un simile inciampo. Che non è imputabile soltanto alla veneranda età dell'autore, che anche di recente aveva saputo mostrare ben altra vena. Qui si avverte solo stanchezza e noia.
Per fortuna i film di Woody Allen di solito non sono molto lunghi, perché difficilmente avrei resistito oltre l'ora e mezzo che dura questo sua ultima, francamente penosa pellicola, la 49ª della serie, la cui diffusione era rimasta impantanata per un paio d'anni in seguito a una causa milionaria tra il regista e la Amazon Studios che l'aveva prodotta e poi ne aveva bloccato l'uscita in seguito allo scoppio del "movimento" #MeToo. Penosa perché stancamente ripetitiva, sempre New York, anzi: Manhattan; sempre gli stessi ambienti; sempre le stesse battute, e sempre più stantìe; in più citazioni colte a go-gò, specie in bocca al personaggio principale, di nome, guarda caso, Gatsby, un giovane, presuntuoso e irritante ricco rampollo newyorkese (Chalament, una faccia da sberle adeguata al ruolo) e che gioca a fare il dandy, che per ripicca a un'educazione rigida e pedantesca voluta dalla madre, ripiega su un college di seconda fila anziché continuare a studiare in un'università dell'Ivy League, fuori città, dove fa gli riesce bene fare l'intellettuale ribelle, vissuto e anche vizioso (fuma, beve, gioca e vince pure); lì conosce Ashleigh (Fanning: pessima), la classica bambolotta americana bionda e scema col fisico da cheerleader e vestita in maniera improbabile per una ventenne, di Tucson, Arizona, la cui famiglia possiede numerose banche in quello Stato, che per il giornale dell'Università è stata incaricata di fare un'intervista al famoso regista Polland, giusto a Manhattan, così i due ragazzi decidono di approfittarne per trascorrere un fine settimana là e lui avrà da un lato l'occasione per spandere ulteriore merda e mostrare alla povera scema provinciale quelle parti della città che predilige (piano bar rétro, il MoMa, l'albergo di lusso dove alloggiano e altri posti simili) evitando accuratamente di partecipare all'annuale party letterario organizzato dalla genitrice. Peccato che niente vada come avevano programmato: l'intervista invece che un'ora coinvolge la ragazza per tutta la giornata in una serie di avventure inaspettate, dalla visione in anteprima del film di Pollard, alle crisi creative e depressive di quest'ultimo, all'incontro con il di lui sceneggiatore (rispettivamente Leiv Schreiber e Jude Law, che si salvano) e infine con un celebre attore latino americano che la seduce; lui nel frattempo gira per la città, incontra vecchie conoscenze tra cui Shannon (Selena Gomez: inguardabile, e per di più doppiata da cani), la sorella minore di un'ex fidanzata... Infine durante la visita di una mostra incrocia dei parenti per cui non potrà negare di essere in città e dovrà partecipare al raduno famigliare: spenderà 5000 dollari per farsi accompagnare da una escort che incontra mentre si sta sbronzando perché ha scoperto, da un servizio in TV, che Ashleigh l'ha tradito col bellimbusto ispanico. Una storiella senza succo e senza un perché che è una scusa per introdurci per l'ennesima volta negli unici ambienti che Allen pare conoscere: quelli degli intellettuali nevrotizzati e un po' nostalgici da un lato e quelli danarosi dall'altro, dove esistono solo bianchi e uno su due è ebreo, i neri non risultano e gli ispanici sono soltanto attori; per di più, da parte dei protagonisti, recitata in maniera imbarazzante, tutta smorfie e mossettine. Il tutto mentre fuori piove ma si sa: Manhattan è sempre magica, per come la vede Allen, e unica. Si salvano il jazz e un'unica trovata geniale, quando la madre del giovane stronzo lo prenderà in disparte e gli rivelerà che è un autentico figlio di puttana. Perché anche i soldi e tutta la prosopopea da bifolchi rifatti viene da qualcosa di inconfessabile. Insomma, decisamente poco e non sufficiente per giustificare un simile inciampo. Che non è imputabile soltanto alla veneranda età dell'autore, che anche di recente aveva saputo mostrare ben altra vena. Qui si avverte solo stanchezza e noia.
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