venerdì 6 dicembre 2019

Toilet

"Toilet" (Ek Prem Katha) di Shree Narayan Sing. Con Akshay Kumar, Bhumi Pednekar, Anupam Kher, Rajesh Sharma, Divyendu Sharma, Sudhir Pandey e altri. India 2017 ★★★★★
Di regola in questo blog recensisco unicamente film che vedo su grande schermo, spettacoli dal vivo e partire di calcio cui assisto allo stadio: faccio però volentieri eccezione, su richiesta di mio cugino Ado, un'anima punk, autentico gourmand del kitsch nonché riconosciuta autorità in nefandezze multimediali, che già da tempo mi aveva segnalato questo titolo particolarmente stimolante come un capolavoro e che ho rintracciato su Netflix. La visione ne è valsa la pena, concordo col suo giudizio e lo consiglio a chiunque, ma particolarmente a coloro che dell'India hanno un'idea mediata da suggestioni misticheggianti o, altrimenti, influenzata dalle proprie proiezioni. Toilet (inteso come letteralmente come cesso) è il titolo internazionale della pellicola che invece, nella lingua d'origine, suona come Una storia d'amore e non si riferisce a uno dei due soggetti, maschile e femminile, della coppia che ne è protagonista (Bhumi Pendekar, che interpreta Yaya, una studentessa universitaria "evoluta" è decisamente una bella ragazza e anche Akshay Kumar, attore famosissimo in India e in questo caso coproduttore del film è un uomo dall'aspetto gradevole) bensì proprio al water e, per esteso, al locale in cui si espletano le funzioni fisiologiche: è proprio attorno a questo oggetto che ruota la vicenda, che è una storia d'amore sì, in stile bollywoodiano (che, bisogna riconoscerlo, ha un suo perché e, tecnicamente, ha poco da invidiare a quello americano a cui fa il verso), ma anche e soprattutto di emancipazione, dove il film (con tanto di canzoni sdolcinate, balletti e coreografie spettacolari e multicolori, doppi sensi e battute che evidentemente piacciono al pubblico locale che, non dimentichiamolo, è quello più "cinematografaro" sull'intero pianeta) ha una funzione educativa e civile, il tutto in una visione sorprendentemente umanista e laica, profondamente tollerante. Brevemente la trama: Keshav è un trentaseienne che, col fratello, gestisce un negozio di biciclette in un villaggio dell'Uttar Pradesh (quasi ai confini col Nepal) ed è vittima sacrificale dei pregiudizi del padre, un bramino tradizionalista che lo costringe a contrarre un matrimonio rituale con una bufala nera perché questo porta vantaggi alla comunità e asserisce che, per non contraddire le indicazioni dell'oroscopo natale, potrà sposarsi con una donna in carne e ossa soltanto se la prescelta sarà in possesso di due pollici sulla stessa mano: quando incontrerà Yaya, una giovane studentessa pure lei proveniente da una famiglia di bramini, però decisamente laici, scoppierà l'idillio e, per  convincere il padre, la doterà di un pollice fuoriserie, ossia posticcio. Come da tradizione, dopo il matrimonio la sposa si traferisce nella casa paterna dello sposo, ma c'è un problema: nell'abitazione manca un bagno come lo intendiamo noi, perché tradizione vuole che gli uomini provvedano a fare i propri bisogni all'esterno (cosa tutt'ora piuttosto frequente in India, specie in ambiti rurali), e non necessariamente in luoghi particolarmente appartati, mentre le donne sono costrette a uscire dal villaggio e lo fanno prima del sorgere del sole, coordinandosi tra loro (in tutti i sensi: anche i ritmi della defecazione) per farlo in gruppo, cercando di evitare incontri imbarazzanti o, peggio, di essere vittime di agguati sessuali. Yaya ne è sconvolta, essendo abituata a una gestione privata della feccenda in un locale adeguato, e si ribella: dapprima Keshav si ingegna con qualche rimedio che però rimane sempre un escamotage, come già fu quello del pollice, per ingannare il padre, ma la ragazza si stufa di questi mezzucci, e dopo aver tentato di guidare alla rivolta le altre donne del villaggio ed essersi scontrata col suocero, pur essendo innamorata del marito si separa da lui tornando dai genitori. A questo punto Keshav si convince che deve prendere in mano la situazione e provvedere, e alla fine affronterà padre, tradizioni che nascono da pregiudizi, amministrazione locale (la burocrazia indiana è mitica per la sua elefantiasi e complessità delirante), politici (corrotti), media e alla fine, come in ogni buona commedia di questo genere, il bene, o meglio: il buon senso trionferà, ma il fatto che si tratti anche, se non soprattutto di cinema civile, nonostante le apparenze, non sfugge: per di più non annoia e mette di buon umore, e aiuta a capire almeno un po' un Paese che è un vero subcontinente, tanto è complesso, così lontano ma anche così vicino e, per tanti versi, famigliare: si respira un'"aria di casa" come da nessun'altra parte in Oriente, compreso quello medio, o almeno è quello che ho provato io quando, una quindicina di anni fa, l'avevo visitato. Se vi capita sotto mano, guardatelo e fatemi sapere!

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