mercoledì 12 novembre 2025

Un semplice incidente

"Un semplice incidente" (Yak taṣādof-e sāde) di Jafar Panahi. Con Vahid Mobasseri, Mariam Afshari, Ebrahim Azizi, Hadis Pakbaten, Majid Panahi, Mohamed Ali Elyasmer, Delmaz Najafi, Afsaneh Najmabadi e altri. Iran, Francia, Lussemburgo 2025 ★★★★1/2

Risolti, si spera definitivamente, i seri problemi giudiziari avuti nel corso degli anni col regime degli ayatollah iraniani, e nonostante i limiti posti alle sue attività, che non sono comunque riusciti a impedire a Jafar Panahi di fare sentire la sua voce escogitando sempre una maniera per esercitare la sua professione di autore e regista e dire la sua, ecco finalmente nelle sale italiane il film con cui ha ottenuto la Palma d'Oro all'ultimo Festival di Cannes. Un semplice incidente (come da titolo), un cane che di notte finisce sotto le ruote di un'auto (i mezzi di trasporto sono una costante nei lavori di Panahi) e costringe la famigliola a una sosta per una riparazione in un paesino poco lontano da Teheran, dà il via a una serie di eventi in parte grotteschi e rocamboleschi, che ammantano di toni da commedia a tratti noir un film che è da una parte di denuncia della ferocia dell'apparato repressivo e dall'altra una riflessione su quanto la violenza esercitata dal potere, qualunque esso sia, possa agire da innesco per una risposta altrettanto feroce da parte di chi la subisce, insomma sull'umanità di tutte le persone coinvolte. Nell'officina in cui viene ricoverata l'automobile danneggiata, un meccanico rimane nascosto perché riconosce nella camminata del proprietario quella dell'aguzzino che l'aveva torturato durante la sua detenzione: quella di un uomo con una gamba artificiale, arto che l'ufficiale in questione si vantava di aver perso in guerra in Siria. Decide di rapirlo, lo carica su un furgone e lo porta nel deserto dove scava una fossa per seppellirlo vivo, ma gli viene un dubbio: prima di procedere, vuole essere assolutamente certo della sua identità, e così coinvolge una serie di personaggi (una ex giornalista ora fotografa di matrimoni, la coppia che sta per sposarsi, il suo ex fidanzato), tutti a loro volta reduci da trattamenti analoghi durante la loro prigionia. Prende il via una serie di situazioni ai limiti dell'assurdo ma che sono capaci più di tanti lunghi discorsi o documentari di descrivere la realtà di un Paese dove comunque l'opprimente cappa liberticida e oscurantista imposta dagli Imam ha allentato la sua presa, perché comunque la gente comune ha sempre trovato il modo di resisterle o di sfuggirle, magari prendendosene gioco, non perdendo mai la propria dignità. Qualcosa insomma sta cambiando, da quelle parti, come testimonia il numero di donne senza velo nella pellicola, soprattutto dopo le rivolte femminili (e non solo) del 2022: Panahi lo testimonia ma, come accennavo, oltre a denunciare le persecuzioni il regista, pur con molta ironia, non manca di sottolineare quanto una realtà fatta di violenza e arbitrio riesca a turbare la capacità di giudizio e indurre anche le persone più ragionevoli a reazioni incontrollate, in un cerchio che non si chiude. La risposta non c'è e il finale non è esattamente ottimista, ché lascia intendere come gli incubi possono sempre ritornare, specialmente per chi li ha già sperimentati. Però un sorriso a tratti beffardo è sempre un ottimo antidoto. Così come questo suo ennesimo bellissimo film.

mercoledì 5 novembre 2025

La voce di Hind Rajab

"La voce di Hind Rajab" (The Voice of Hind Rajab) di Kaouther Ben Hania. Con Saja Kilani, Amer Hlel, Clara Khouri, Motaz Malhees e altri. Tunisia, Francia 2025 🌹💔

Il cinema si esprime, per definizione, per immagini. Non in questo caso, per il film che ha meritoriamente ottenuto il Gran premio della giuria nonché il Leone d'Argento all'ultima Mostra del Cinema di Venezia, dove si limitano a illustrare la parte di finzione della pellicola, ambientata nella sede di Ramallah, in Cisgiordania, della Mezzaluna Rossa (l'equivalente della Croce Rossa che conosciamo in Europa), dove il 29 gennaio del 2024 gli operatori ricevono una chiamata da Gaza. A parlare è Layan, una ragazzina rimasta intrappolata in un'auto dopo un bombardamento israeliano. Con lei la cuginetta Hind, di 5 anni: sono le uniche sopravvissute della famiglia, attorno a loro i cadaveri degli zii e dei due cugini di Hind. Cade la linea, i centralinisti richiamano e risponde una voce diversa: è Hind, per l'appunto, ché nel frattempo è rimasta uccisa anche la cuginetta, vittima dell'ennesima sparatoria. Il film racconta i tentativi di organizzare il soccorso da remoto: la burocrazia e le procedure più deliranti si rivelano ostacoli insormontabili anche in un caso di emergenza e per di più di puro intervento umanitario e sanitario e hanno il sopravvento su ogni buon senso, come ben illustra lo scontro fra il centralinista che raccoglie le telefonata e il suo "superiore" che è obbligato a "seguire il protocollo", ossia ottenere dalle "autorità competenti", ossia l'esercito che da due anni ha invaso e bombarda la Striscia di Gaza, una sorta di lasciapassare per un'ambulanza che si trova a 8 minuti di distanza dal luogo dove è bloccata l'auto in cui, in mezzo a 5 cadaveri, è immobilizzata, terrorizzata, la piccola Hind. Operatore e operatrice cercano di confortarla, ottenere informazioni sulla situazione, rassicurarla; la psicologa del gruppo prova a  stemperare le tensioni nell'ambiente e a fare la sua parte con la bambina. Dopo ore di insistenza si riesce a fare partire un'ambulanza della Mezzaluna Rossa: dalla radio di bordo si sentono crepitii ed esplosioni, cade nuovamente la linea, definitivamente. Il glorioso esercito della Nazione degli ebrei, il Popolo Eletto, di Israele, l'Unica democrazia del Medio Oriente, ha cannoneggiato e disintegrato anche quella (fatto a pezzi tutto l'equipaggio) e la macchina in cui, cadavere, verrà rinvenuta Hind, verrà ritrovata crivellata da quasi 400 proiettili. Già, perché qualsiasi palestinese è per definizione terrorista, almeno potenziale, e Hind, 5 anni, una terrorista in erba. Filo conduttore è, per l'appunto, la voce di Hind Rajab, quella vera, perché i colloqui sono stati registrati. Non aggiungo altro, salvo fare i complimenti alla regista, tunisina, e a chi ha avuto il cuore e il coraggio di produrre il film, tra cui Brad Pitt, Joaquin Phoenix, Rooney Mara e Alfonso Cuarón.

giovedì 30 ottobre 2025

Bugonia

"Bugonia" di Yorgos Lanthimos con Jesse Plemons, Emma Stone, Aidan Delbis, J. Carmen Galindez Barrera, Marc T. Lewis, Vanessa Eng, Cedric Dumornay, Alicia Silverstone e altri. GB 2025
★★★★1/2

Presentato in concorso all'ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia Bugonia, più che un rifacimento in inglese di un film coreano del 2003, il fantascientifico Save the Green Planet, sembra uscito dalle costole dell'ultimo lavoro del regista ateniese, Kinds of Kindness. Dall'originale riprende la trama: il tentativo di sventare un complotto di alieni per distruggere la Terra e i suoi abitanti, ma sviluppata sul terreno della tragicommedia nera, dove i protagonisti sono due disgraziati a cui non rimane altro che rifugiarsi nelle teorie complottiste più allucinate, dopo che ogni forma di lotta è ormai stata neutralizzata per via del rimbecillimento generale ottenuto dall'élite al potere e dalla sua totale capacità di controllo e manipolazione della collettività. Ted (un esse Jesse Plemons divelto) è un apicoltore per diletto che vede il progressivo svanire di un animale che più degli altri simboleggia la vita, che abita in un qualche posto della Georgia (USA), in una tipica casetta di legno nei boschi, con tanto di bandiera a stelle e strisce d'ordinanza, e che lavora in un'industria farmaceutica come imbustatore. Assieme al cugino Don, affetto da autismo, decide di rapire la potente amministratrice delegata dell'azienda stessa, Michelle Fuller (una sempre immensa Emma Stone), convinto che sia un'andromediana, infiltratasi sulla Terra per distruggere l'umanità. Portato a termine, per quanto maldestramente e in maniera fortuita quanto grottesca il sequestro di persona, la donna viene rasata a zero nella convinzione che così non possa contattare la sua astronave-base: mancano pochi giorni all'eclisse di luna e Ted, durante un serrato interrogatorio, vuole convincere la donna a intercedere presso l'imperatore alieno per avere un incontro diretto con lui in quell'occasione unica e definitiva. Un confronto serrato, che avviene nei sotterranei della malmessa abitazione di famiglia di Ted, la cui madre, si scopre, è stata una cavia degli esperimenti dell'azienda della Fuller e mantenuta in vita artificialmente a sue spese. Il confronto tra i due è allucinato e somiglia da molto vicino a quanto avviene ogni sera nei "talk show" che hanno sostituito l'informazione a cui eravamo abituati fino a un paio di decenni fa, ossia un dialogo, si fa per dire, tra due mondi, l'alto e il basso, inconciliabili benché direttamente connessi: quanto Ted sia per Fuller uno psicopatico, tanto lei è per lui del tutto un'aliena, anzi, alla fine di una cavalcata folle e con alcuni aspetti "tarantiniana", si rivelerà a tutti gli effetti l'imperatrice degli alieni e un'andromediana consapevole, e la fine del film, sulle note di Where Have All the Flowers Gone di Peter Seeger interpretata da Marlene Dietrich, svelerà l'unico destino possibile per un'umanità ormai del tutto corrotta, una fine inevitabile per la salvezza del resto del pianeta. Bugonia è una saggia e ineccepibile favola noir, in cui è reso evidente quanto la distopia si viva già nel quotidiano, e non sia più distinguibile dalla allucinata realtà di tutti i giorni. Ovviamente non ha molto senso aggiungere dettagli della trama a un film che va visto e goduto in tutti i suo aspetti: non facile, però probabilmente meno impegnativo di altri film di Lanthimos, in ogni caso sempre rigoroso, formalmente indiscutibile e coinvolgente, in un formato, 35 mm, un po' datato ma efficacissimo. Interpretazioni di alto livello, Plemons e Stone una doppia garanzia, ineccepibile anche Aidan Delbis, autenticamente e orgogliosamente "neurodivergente" quanto Emma Stone rasata a zero, e colonna sonora che è parte integrante di uno spettacolo a tutto tondo. Avanti così!

domenica 19 ottobre 2025

Una battaglia dopo l'altra

"Una battaglia dopo l'altra" (One Battle After Another) di Paul Thomas Anderson. Con Leonardo DiCaprio, Sean Penn, Benicio Del Toro, Regina Hall, Teyana Taylor, Chase Infiniti, Wood Harris, Alana Haim e altri. USA 2025 ★★★★★

Regista, sceneggiatore, produttore, direttore della fotografia, il californiano Paul Thomas Anderson è un cinematografaro a tutto tondo come il suo collega e sodale Quentin Tarantino, e come quest'ultimo ha un orecchio musicale piuttosto sviluppato, per cui le colonne sonore dei suoi film sono sempre molto potenti e utilizzate con precisione chirurgica e, come il suo amico, non ha paura di affrontare trame complesse e apparentemente deliranti, e riempire le sue opere dei tipi umani più disparati, che vanno e vengono, a tratti sembrano messi lì per caso e invece hanno sempre un loro scopo ben preciso. I risultati sono talvolta altalenanti e non sempre i suoi lavori incontrano i gusti di tutti, ma che da almeno 25 anni sia tra i più bravi dietro alla macchina da presa non c'è alcun dubbio, e questa volta mi associo a quanti hanno decretato che Una battaglia dopo l'altra sia uno dei migliori film visti quest'anno: due ore e 40' di spettacolo allo stato puro, il tempo che vola. In una California di confine col Messico, in un tempo imprecisato, forse negli anni Ottanta, un gruppo di rivoluzionari del gruppo French 75 libera un nutrito gruppo di migranti rinchiusi come bestie in un centro di detenzione, beffando il comandante di quest'ultimo, il colonnello Lockjaw (Sean Penn: immenso), un reduce razzista e fascistoide già paranoico di suo, ma che passerà il resto della sua carriera a cacciare (e non solo) chi lo ha ridicolizzato, innanzitutto Perfidia Beverly Hills (Teyana Taylor), guerrigliera indomita e sfrontata che guida i ribelli all'azione anche se incinta al nono mese, e il suo compagno, Bob Ferguson (Leonardo DiCaprio, bravissimo ma non eccelso come il suo collega Penn), l'esperto in esplosivi. Lockjaw riuscirà a neutralizzare il gruppo, compresa la sua guida (non accennerò al come, tranne al fatto che le sue psicosi diventeranno sempre più intense e paradossali). Sedici anni dopo, però, le strade del militare e di Bob si incrociano nuovamente, quando quest'ultimo si è ormai ritirato da tempo dalla lotta facendo vita riservata in una casa immersa nei boschi di sequoie di quello Stato, padre apprensivo, affettuoso quanto spaesato (a forza di canne e birrette) di Willa (Chase Infiniti), adolescente esperta in arti marziali, avuta da Perfidia. E qui si aprono definitivamente le danze, perché i due sono un ostacolo alle ambizioni di Lockjaw, divenuto nel frattempo generale, che ambisce entrare a far parte di una setta suprematista i cui criteri di ammissione sono molto stringenti e particolari. Così rapisce Willa per nascondere alcune... "tracce" e Bob riprende la lotta per recuperarla, ma rientrare nei ranghi della French 75 non è così facile (esilarante la richiesta della parola d'ordine, ovviamente dimenticata) e ci riuscirà solo dopo aver fatto intercedere Sergio San Carlos, un grandioso Benicio Del Toro, diventato un sensei (Maestro) che dirige una palestra di arti marziali e si esprime attraverso koan come i suoi adepti latinos. Liberamente ispirato a Vineland di Thomas Pinchon (di cui confesso di non aver mai letto una riga), Una battaglia dopo l'altra è uno hellzapoppin delirante in forma di film d'azione senza un attimo di pausa, un caleidoscoipo impazzito di traumi personali e collettivi, legami famigliari, crisi d'identità, reducismo (non estraneo a quelli della mia generazione) ma divertito e nemmeno nichilista, ossessioni, smania di potere, sopraffazione di pochi sui molti con relativa preservazione del proprio potere e dei propri privilegi che si scontra con una pur sempre viva resistenza, una voglia di reagire e di combattere che cova sempre sotto traccia pronta a riesplodere, alla fine un inno alla lotta e alla sua necessità per rimanere vivi. Un grido di ribellione: un non mollare! fatto di immagini che si susseguono a ritmo incalzante, citazioni non banali, piani sequenza allucinati, un montaggio al cardiopalma e una fotografia da urlo. Un film che è una bomba con degli interpreti da urlo.

venerdì 3 ottobre 2025

La valle dei sorrisi

"La valle dei sorrisi" di Paolo Strippoli. Con Michele Riondino, Giulio Ferri, Paolo Pierobon, Romana Maggiora Vergano, Sergio Romano, Roberto Citran, Anna Bellato, Sandra Toffolatti e Altri. Italia, Slovenia 2025 ★★★★

Nelle mie scelte cinematografiche non mi lascio influenzare più di tanto dalle recensioni che leggo in giro, facendo più affidamento sul passaparola di persone credibili, però seguo una regola aurea: quando un film non incontra i raffinatissimi gusti di Federico Pontiggia, arzigogolati quanto la sua prosa psichedelica, mi precipito a vederlo, quasi sempre con mia grande soddisfazione; quando invece ne fa il panegirico, prima di rischiare cerco conferma e conforto nelle parole del mio Vate in materia, Gianmatteo Pellizzari, che scrive (bene) di cinema sul Messaggero Veneto nonché su Overground, il suo account Instagram. Viceversa, se quest'ultimo ne raccomanda uno, mi fido ciecamente e vinco anche le reticenze che nutro per un genere, come lo horror, che di suo non mi garba un granché. Genere a cui dichiaratamente si rifà, anche in questo suo terzo film, il talentuoso Paolo Strippoli, ma con cui gioca, peraltro molto abilmente, per parlare d'altro: superstizione, capri espiatori, rimozione, rapporti tra genitori e figli, turbe adolescenziali, dolori esistenziali e inevitabili. In più, La valle dei sorrisi è stato girato in Alta Carnia, con contributo della Friuli Film Commission, che è piuttosto oculata nei progetti da finanziare, ed è prodotto dalla Fandango di Domenico Procacci, di per sé una garanzia. Sergio (Michele Riondino) è un insegnante di educazione fisica ed ex campione di judo che arriva da Taranto nel villaggio dolomitico di Remis per una supplenza di qualche mese: è psicologicamente devastato per avere perso il figlio in circostanze che scopriremo più avanti nel dipanarsi della trama: si abbandona all'alcol e ha inizialmente un rapporto scostante coi suoi nuovi allievi, tra i quali nota subito Matteo, che sta appartato, è esentato dalla ginnastica e oggetto da stretta sorveglianza e cura da parte del padre (Paolo Pierobon) e dal prete della comunità(Roberto Citran). Non tarda a scoprire, frequentando la titolare dell'osteria del paese, il motivo per cui gli abitanti di Remis sembrino tutti straordinariamente felici, e lo diventa anche lui quando la ragazza lo porta a un incontro che settimanalmente si tiene in una sorta di sala-santuario, gestita dal padre di Matteo e dal prete, in cui la popolazione riceve la sua "dose" di felicità che viene, per l'appunto, dispensata dal ragazzo, agghindato con una tunica e un portamento da vittima sacrificale, tramite abbracci. La crisi d'astinenza si manifesta con attacchi di prurito che colpiscono in particolare le braccia e portano chi li subisce a grattarsi furiosamente e a sangue, e il rimedio è prendere appuntamento per un "trattamento" extra. Così fa anche Sergio, e in effetti anche lui si sentirà sollevato e quasi felice dopo essersi abbracciato con l'allievo, diventa più amichevole coi suoi studenti e li coinvolge nello sport di cui è stato elemento di spicco, ma non per questo smette di indagare sullo strano fenomeno che rende tutti apparentemente soavi, che trae invece origine da uno spaventoso incidente ferroviario che una quindicina d'anni prima è avvenuto nella stazione del paese. Nelle cui rovine avrà luogo, dopo varie vicissitudini che tengono lo spettatore inchiodato sulla poltrona, l'epilogo piuttosto macabro, ma non compiaciuto e buffonesco come si potrebbe temere, che rappresenta la chiusura del cerchio di tutta la misteriosa vicenda. Che ovviamente mi guardo bene dallo svelare, per cui non vado oltre nel racconto dei dettagli. Ma ci sarà una spiegazione a tutto e, oltre alla tensione e ai colpi di scena, in questo alternarsi di normalità (artificiale) e mistero, motivo per riflettere. In poche parole, una pellicola molto valida, solida, interpretato da uno cast di spessore e assoluto affidamento. Bravo Strippoli e grazie a chi ha avuto fiducia in lui.

lunedì 29 settembre 2025

Le città di pianura

"Le città di pianura" di Francesco Sossai. Con Pierpaolo Capovilla, Sergio Romano, Filippo Scotti, Andrea Pennacchi, Roberto Citran e altri. Italia, Germania 2025 ★★★★★

Evviva! E' con grande piacere che segnalo il più sorprendente film italiano dell'anno, secondo lungometraggio del bellunese di Feltre Francesco Sossai, il cui sottotitolo è, non a caso, Andiamo a bere l'ultima?: a Pedavena, nelle immediate vicinanze, ha sede la più grande birreria d'Italia, nella sede dell'omonimo storico birrificio. L'esordio, quattro anni fa, avvenne con Altri cannibali, che mi ero sciaguratamente perso e vedrò di recuperare, lungometraggio di diploma degli studi di regìa presso la Deutsche Film und Fernsehakademie di Berlino, dove aveva seguito i corsi, fra gli altri, del grande Béla Tarr. Qui ha confezionato un apparentemente stralunato road movie sulle strade di casa, quel Veneto di pianura situato tra le Dolomiti e la Laguna veneziana stravolto e cementificato nel corso degli ultimi quarant'anni dalla miriade di capannoni industriali, aziende, officine, centri commerciali, palazzine obbrobriose e villette bifamiliari che hanno spazzato via il paesaggio rurale di un tempo dando vita al cosiddetto "sviluppo" e arricchimento, unicamente in termini di schei e immiserimento umano di quella che da sempre è stata la terra di più forte emigrazione italiana all'estero, ben più del meridione, isole comprese; la regione del nuovo miracolo economico della micro e media imprenditorialità avviato nel secondo dopoguerra ed esploso negli anno Ottanta, che ha catapultato nella "modernità" il NordEst, snaturandolo. La devastazione e spersonalizzazione è tanto paesaggistica quanto umana, e lo testimoniano due cinquantenni, Carlobianchi e Doriano detto Dori, rispettivamente gli ottimi Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla, già lavoratori presso un'azienda che produceva occhiali, e travolti dalla crisi del 2008: ora, sopravvivono con lavori socialmente utili nel piccolo comune di residenza e si dedicano alla rievocazione dei ricordi nonché alla ricerca delle tracce del passato in ciò che ne sopravvive nelle rare bettole e osterie rimaste in vita, tra fiaschi di vino, fette di sopressa, e tocchi di formaggio, grappe, qualsiasi intruglio che contenga alcol e alla costante ricerca del luogo in cui bere l'ultima birretta, un dovere ineluttabile di cui Carlobianchi, diplomato ragioniere e non privo di nozioni fondamentali di macroeconomia, dimostra la necessità in base alla teoria dell'utilità marginale. Li ritroviamo una sera, addormentati in macchina, mentre sono in viaggio per andare all'aeroporto a prendere l'amico Genio (Andrea Pennacchi), col quale nella fabbrica dove lavoravano avevano messo in piedi un commercio parallelo di occhiali che sottraevano all'azienda per arrotondare lo stipendio, il quale rientra dopo svariati anni dall'Argentina dove si era rifugiato per sfuggire alla giustizia: il reato è finalmente prescritto, lui non li ha traditi e si favoleggia che abbia nascosto il gruzzolo prima di partire nella zona. Peccato che Venezia di aeroporti ne abbia due, e in prima battuta optano, sbagliando, per Tessera (l'altro è Treviso) ma è presto, per cui arrivano in città, in uno dei rari bacari sopravvissuti, vicino alla sede dello IUAV ai Tolentini, dove si imbattono in Giulio (Filippo Scotti), un ingenuo e disarmante studente di architettura perdutamente innamorato della protagonista di una festa di laurea. Comincia un delirante viaggio proprio nell'orripilante panorama semiurbano della pianura del titolo, dove ogni tanto spunta una testimonianza del passato (una decadente villa con splendidi affreschi in rovina, il Memoriale Brion di Altivole realizzato dall'architetto Carlo Scarpa, i resti di mitiche osterie dove Carlobianchi, Dori e Genio andavano a divorare lumache e polenta e a tracannare vino per poi proseguire alla ricerca di innumerevoli "ultime"): per il ragazzo è un'iniziazione e una rivelazione, perché attraverso i racconti dei due mentori comincia a guardare il mondo e la realtà da una prospettiva completamente diversa da quella abituale, ma almeno altrettanto valida e plausibile, mentre i due cinquantenni trovano un senso alle loro peregrinazioni attraverso lo "svezzamento" del ragazzo, una buona azione a base di buon senso e generosità disinteressata e a loro volta imparano da Giulio a vedere quanto il loro ambiente di un tempo, quella che era una terra agricola e un paesaggio incantevole, sia diventata semplicemente territorio da occupare, edificare in modo quasi sempre osceno e poi abbandonare, una volta sfruttato; un panorama dove non si hanno punti di riferimento, uguale dappertutto in una landa pressoché desolata dove ci si avventura soltanto di passaggio e destinata ad una americanizzazione ormai completa. Alla fine di una "due giorni" ad alto tasso alcolico (e filosofico) ritroveranno pure Genio, che però non sarà a sua volta in grado di recuperare il malloppo nascosto in un campo non lontano dalla sua abitazione, perché finito sotto le fondamenta dell'ennesimo "marnone" di cemento  armato, peraltro abbandonato in rovina. Davvero grande cinema, un film perfetto, pieno di citazioni mai stucchevolmente compiaciute, ma da cui si può imparare; stilisticamente sono evidenti le influenze di maestri come Wenders (in particolare Nel corso del tempo), Kaurisimäki, ma anche Carlo Mazzacurati, non a caso anche lui veneto, e pure il Dino Risi de Il sorpasso, per rimanere agli europei; davvero bravissimi gli interpreti, perfetta e potente la colonna sonora di Krano, che ibrida la musica country con la tradizione e il dialetto locale. 

mercoledì 24 settembre 2025

Downton Abbey - Il Gran Finale

"Downton Abbey - Il Gran Finale" (Downton Abbey - The Gran Finale) di Simon Curtis. Con Hugh Bonneville, Jim Carter, Michelle Dockery, Elizabeth McGovern, Paul Giamatti, Penelope Wilton, Joely Richardson, Dominic West, Alessandro Nivola, Joanne Froggatt, Allen Leech, Phyllis Logan, Sophie McSheera, Brendan Coyle, Laura Carmichael e altri. GB. USA 2025 ★★★=

Staremo a vedere se questa sarà davvero l'ultima puntata ( fin qui la terza) del seguito cinematografico dell'omonima serie televisiva di successo planetario: capacissimi che si inventino una qualche ulteriore derivazione, ovvero spin-off, come si dice in gergo. Non rimane niente da aggiungere a quanto già detto in quelle precedenti: la prima del 2019 e la seconda, del 2022, salvo che il livello qualitativo decresce con il susseguirsi degli episodi, mentre aumentano scontatezza e noia. Quindi non rimane che da dire qualcosa sulla trama: siamo nel 1930 e la famiglia Crowley subisce di rimbalzo gli effetti della crollo di Wall Street dell'anno prima, perché Harold (Giamatti) cognato del capofamiglia Robert, ha sperperato buona parte del patrimonio della sorella e degli investimenti di famiglia ed è venuto in visita dagli USA assieme al personaggio a cui si era affidato, un sedicente finanziere che si rivelerà un truffatore pluricondannato. Nel frattempo The Times There are A Changing e la parola d'ordine è "cambiamento" (pur sempre nella continuità: il gattopardismo non è certo una specialità italiana). Questo in entrambi i mondi messi in scena dalla serie e dai tre film: quello della nobiltà e quello della sua servitù, strettamente interconnessi, in rapporto quasi simbiotico. Il cambio della guardia è d'attualità sia in cucina, tra la cuoca anziana e quella giovane, sia tra chi di fatto ha governato l'enorme e prestigiosa magione di Dowton Abbey nello Yorkshire, il maggiordono Crowley, restio ad abbandonare il suo ruolo, e il suo successore Parker, ma è ancora più dura per il Conte Robert cedere le redini a sua figlia Mary, peraltro malvista dall'aristocrazia della capitale, e di conseguenza anche da quella locale perché divorziata: dovrà sudarsi l'accettazione da parte di quest'ultima, di cui ha bisogno per amministrare oltre alla costosissima dimora anche i terreni che la famiglia possiede nella contea, di cui è quella più in vista, ma soprattutto convincere il padre recalcitrante a vendere a vendere la Grantham House, residenza dei Crowley a Londra, e trasferirsi in un appartamento per essere in grado di coprire le spese della proprietà intoccabile su nel Nord, per l'appunto Dowton Abbey. Attori consumati e ineccepibili, a cui si deve la benevole sufficienza nel giudizio finale, happy end immancabile, battute sempre più fiacche ma ancora accettabili, ma per non cadere nel ridicolo meglio fermarsi qui.  

mercoledì 17 settembre 2025

Elisa

"Elisa" di Leonardo Di Costanzo. Con Barbara Ronchi, Roschdy Zem, Diego Ribon, Valeria Golino, Hippolyte Girardot, Monica Codena, Roberta Da Soller e altri. Italia, Svizzera 2025 ★★★★1/2

Peccato che questo bellissimo film non fosse in concorso a Venezia per il Leone d'Oro, dove è stato presentato poche settimane fa, perché tra regista e interpreti aveva tutto per eccellere, anche se dubito che sarebbe stato premiato, conoscendo l'andazzo festivaliero, però magari almeno Barbara Ronchi avrebbe ottenuto il riconoscimento per la migliore interpretazione femminile. Lei è l'Elisa del titolo, sui 35 anni, da dieci detenuta per avere ucciso la sorella, bruciandone il cadavere e tentato di strangolare anche la madre. Nella sentenza di condanna le era stato riconosciuto di avere agito in uno stato di semi infermità mentale e una  condizione di amnesia dopo l'evento, che apparentemente ha del tutto rimosso. Sconta la pena in una struttura aperta, in un qualche luogo boschivo di un Cantone svizzero, probabilmente il Vallese, in parte francofono, un insieme di bungalow che ospitano ciascuno due detenute che si muovono liberamente nel comprensorio che fa capo a una struttura centrale con caffetteria, laboratori, attività varie. Insomma il contrario del carcere di tipo tradizionale, un panopticon come in Ariaferma, il precedente bellissimo lungometraggio di Leonardo Di Costanzo, che nasce validissimo documentarista ma che nei suoi lavori di finzione ha sempre confezionato lavori di notevole intensità. Gentile, riservata, timida, Elisa acconsente a incontrare il professor Alaoui, interpretato dal grande Roschdy Zem, memorabile interprete di Roubaix, una luce nell'ombra, attore e anche regista franco marocchino, un criminologo che sostiene che si debba indagare in profondità sulle motivazioni di chi commette un reato, per quanto efferato, non per giustificarlo ma per comprenderne appieno la personalità: solo così, secondo lui, si può aiutarne il recupero. Man mano che i colloqui proseguono, trasformandosi in una sorta di auto-psicoterapia, in Elisa riemergono i ricordi (cosicché riviviamo in successivi flash back le fasi del suo delitto) per cui progressivamente si chiude e va in crisi, rifiutandosi persino di vedere l'affettuoso padre (il sempre ottimo Diego Ribon), che ogni settimana va a trovarla, mentre la madre ha del tutto rotto i ponti con lei; lui l'ha perdonata fin da subito, cosa che non riesce alla donna che segue le lezioni del professore, interpretata in un cameo da Valeria Golino: suo figlio è stato ucciso da una gang di ragazzini, e non vuole capirli né tantomeno perdonarli, ché altrimenti è cosciente che crollerebbe il suo equilibrio. Mentre nel carcere in dismissione di Ariaferma uno spazio di libertà e di comprensione reciproca avviene all'interno di uno spazio claustrofobico, qui la situazione è opposta: in una dimensione ideale, all'aria aperta, in mezzo agli alberi e con ampia libertà di movimento, la protagonista si rende conto di essere sempre stata prigioniera di sé stessa, delle proprie paure e del proprio "dover essere" nel tentativo pervicace di essere accettata dal prossimo, per cui era come trasparente, e prima sospende i colloqui col professor Alaoui, poi si rinchiude in sé stessa man mano che prende coscienza della gabbia in cui si è messa da sola per una serie di circostanze, di cui il regista accenna ma senza giustificare in alcun modo i suoi atti. Né li giustifica Elisa, e tantomeno il criminologo, con il quale decide di riprendere i contatti, ma che è riuscito a capirne le motivazioni così come le ha comprese lei stessa: che è la prima condizione per fare un passo avanti, dato che ciò che è stato non è mutabile. Ed è anche la prima condizione per cui non si ripeta. La potente fotografia è di Luca Bigazzi, l'accompagnamento musicale sempre adeguato, tutto quanto ineccepibile: un film profondo e coinvolgente, Ronchi e Zem a livelli di eccellenza. 

lunedì 8 settembre 2025

I Roses

"I Roses" (The Roses) di Jay Roach. Con Olivia Colman, Benedict Cumberbatch, Andy Samberg, Kate McKinnon, Allison Janney, Sunita Mani, Ncuti Gatwa, Zoe Chao, Jamie Demetriou e altri. USA 2025 ★★1/2

Eccoci al rifacimento, 36 anni dopo, de La guerra dei Roses, tratto dall'omonimo romanzo di Warren Adler e diretto da Danny De Vito: commedia noir sulla disastro finale di una relazione coniugale apparentemente perfetta, almeno fino allo scoppio della crisi, era un film di una cattiveria fumigante, scorretto, rimasto nella memoria anche per l'interpretazione superba dei due protagonisti, Michael Douglas e Kathleen Turner. Questo ne è la versione edulcorata e buonista, se non pensata espressamente per l'infanzia, per un livello di apprezzamento non molto più in là, non a caso  prodotta dalla Disney: i dissidi di coppia sono perlopiù verbali e si sostanziano in battute spesso sagaci di humor tipicamente inglese, che contrastano con l'ambientazione invece californiana. E inglese è la coppia di interpreti, che di per sé è l'unico aspetto che giustifica il prezzo del biglietto, dove Cumberbatch è Theo, un ambizioso architetto frustrato dai dormitori a forma di cubo che gli tocca progettare nello studio in cui lavora e la Colman è Ivy, una fantasiosa e irriverente chef di un ristorante alla moda dove le archistar londinesi usano cenare. Lui si intrufola in cucina, si punzecchiano verbalmente e si amano al primo scambio di frecciate. Nascono due figli e la coppia si trasferisce in California (non si capisce bene perché) e quando i ragazzi ormai sono sui 10 anni e non hanno più bisogno che la madre li segua tutto il giorno, Ivy, su idea del marito, apre un modesto ristorantino per rinverdire la sua passione gastronomica. Gli yankees, si sa, sono degli analfabeti in materia ed è sufficiente che qualcuno proponga qualcosa di diverso da hot dogs, donuts, thamurgers, tacos e quella cosa che loro osano chiamare pizza per ottenere un successo che diventa travolgente quanto inaspettato. Nel frattempo, Theo ha costruito un suggestivo e stravagante museo nella cittadina sulla costa in cui vivono, dotato di una vela sul tetto: durante un violento nubifragio, questa non solo si stacca ma causa il crollo dell'intera struttura. Come se non bastasse, il tutto, compreso Theo che smadonna e si dispera, viene filmato e divulgato in rete, diventando virale. Carriera rovinata, i ruoli della coppia si ribaltano e sarà lui dovere occuparsi della casa e dell'educazione della prole mentre lei seguirà il locale, che avrà così tanto successo da avere delle gemmazioni, in franchising, in tutto lo Stato. I rancori e la frustrazione covano sotto la cenere benché Ivy, generosamente, incarichi Theo di progettare e costruire, in mezzo ai boschi e con vista Oceano, la casa dei loro sogni: un progetto all'altezza delle sue (esagerate) ambizioni professionali. Quando vedrà finalmente la luce, e sforato ampiamente ogni budget grazie alle fisime estetizzanti e cervellotiche tipiche dell'architetto à la page, e i ragazzi, indirizzati in modo maniacale all'atletismo dal padre, subodorando la crisi  di coppia hanno ormai preso il largo con la scusa di una borsa di studio sportiva in un liceo della Florida, dall'altro capo degli States, complice una cena di inaugurazione con due coppie di amici locali, uno più deficiente dell'altro, il conflitto, cresciuto a forza di invidia, competizione, risentimento, si scatena e avrà per oggetto la proprietà della casa in caso di divorzio, ma occupa uno spazio molto minore rispetto alla prima versione cinematografica, è platealmente poco credibile, e anche l'epilogo, con la morte di entrambi i contendenti, è di fatto uno happy end, cosa che manca del tutto nel film di De Vito, che è a ben altri livelli rispetto a questo Jay Roach, autore di pellicole sul cazzone andante. A loro modo divertenti ma senza mordente. Cose da bambini per l'appunto. Però qualche sommessa risata perfino I Roses riescono a strapparla. 

mercoledì 3 settembre 2025

L'ultimo turno

"L'ultimo turno" (Heldin) di Petra Biondina Volpe. Con Leonie Benesch, Sonia Riesen, Alireza Bayram, Selma Jamal Aldin, Urs Biehler, Jasmin Mattei, Andreas Beutler, Lale Yavas e altri Svizzera, Germania 2025 ★★★★★

Un film splendido, nella sua semplicità, perché vero e interpretato in maniera così credibile da far venire il dubbio che si tratti di un documentario oppure davvero del personale di un ospedale cantonale della Svizzera tedesca alle prese con dei pazienti reali. Siamo in un'affollata corsia di un reparto di medicina interna, che nel turno pomeridiano viene gestito da sue sole infermiere: Floria, la bravissima Leonie Benesch, a la collega Bea, che si occupa dell'altro settore, con l'unico supporto di una giovane tirocinante da istruire. La telecamera della regista la segue passo passo durante le sue frenetiche ore di servizio in lunghi piani sequenza che consentono allo spettatore di identificarsi con la protagonista: efficiente, precisa, ma soprattutto umana, riesce a stare dietro a tutti i ricoverati: chi in attesa ansiosa di un referto o della visita di un medico (non ne transiterà uno in tutto il pomeriggio, e Floria incontrerà una chirurga, altrettanto stressata dopo una giornata in sala operatoria, che rispondendole in malo modo rimanderà alla mattinata successiva il colloquio con un malato che l'attendeva ansioso fin dall'inizio della giornata), chi rassegnato alla fine, chi affetto da demenza senile, chi disobbediente, chi indisponente come un assistito con assicurazione privata sistemato in camera singola a pagamento, che pretenderebbe di avere un servizio da Grand Hotel senza rendersi minimamente conto della realtà in cui si trova a operare il personale della struttura. Come se non bastasse, le tocca avere a che fare anche coi parenti di una moribonda e gestirli dopo averne annunciato il decesso. Sempre in prima linea, anche  con problemi di comunicazione in una realtà, quella elvetica, dove la presenza di immigrati non del tutto integrata è ben più massiccia che in Italia. Un vero angelo, oltre che una eroina (Heldin), come da titolo in tedesco. E di eroismo del personale sanitario si era parlato ai tempi dell'epidemia di Sars CoV-2, alias Covid19, in tempi che oggi sembrano remoti, tanto li abbiamo rimossi dal nostro immaginario, eppure sono trascorsi soltanto quattro anni dalla fase più acuta, senza che dall'allucinante si sia imparata alcuna lezione. Se possibile, la situazione su lato sanitario è perfino peggiorata, specie nel settore pubblico, a causa dei continui tali di spesa (nell'UE si preferisce finanziare il riarmo e perfino concedere agli Stati di indebitarsi ulteriormente per esso), ma quello che è messo peggio è proprio il personale infermieristico, quello a più stretto contatto con i degenti: un lavoro durissimo che non è possibile fare se, oltre ad averne le capacità professionali e uno spirito di sacrificio sovrumano (i pazienti di Floria, compreso alla fine quello più odioso, le riconosceranno una caratura angelica) non si è dotati di un'empatia e una dedizione fuori dal comune. Bastano 90 minuti filmati in maniera essenziale quanto efficace per descrivere una realtà e denunciare una situazione che sta assumendo dimensioni drammatiche: in una dicitura al termine della pellicola si rimarca che in un Paese come la Svizzera, con un sistema sanitario che altri Paesi europei, a cominciare dal nostro, possono soltanto sognarsi e con degli stipendi di ben altro livello rispetto ai nostri, più di un terzo degli infermieri abbandona il lavoro dopo 4 anni di servizio ed entro il 2030 ne mancheranno almeno 30 mila di quelli specializzati. Questo con una popolazione che inesorabilmente invecchia in tutto il Continente. Sarebbe ora che chi governa (?) se ne occupi. Invece nei media prevalgono la propaganda bellica e il pettegolezzo sui VIP, tanto siamo messi male. E, per quanto riguarda il cinema, l'argomento è come si veste chi sfila sul red carpet sul Lido di Venezia alla Mostra del Cinema in corso. Oltre che ben fatto, un film necessario: ma lavori come questo un premio prestigioso non lo vinceranno mai. Nemmeno alla Berlinale, uno dei pochi festival seri rimasti, dove pure è stato presentato quest'anno.

giovedì 28 agosto 2025

Anora

"Anora" di Sean Baker (II). Con Mikey Madison, Mark Eydelshteyn, Yuriy Borisov, Karen Karagulian, Vache Tovmasyan, Ivy Volk, Lindsey Normington, Alena Gurevich, Paul Weissman, Darya Ekamasova, Aleksey Serebryakov e altri. USA 2024 ★★★-

Secondo "ripescaggio" estivo, Palma d'Oro a Cannes e cinque premi Oscar (tra cui miglior film, miglior regia e migliore attrice protagonista) nel 2024, un battage pubblicitario esagerato in cui è caduta la critica più corriva hanno fatto di Anora del semisconosciuto Sean Baker il fenomeno della passata stagione cinematografica, quando è nulla più di un film tipicamente newyorkese (che palle!), un assemblaggio di situazioni già viste mille volte, una commedia sexy-sentimentale-drammatico-gangsteristica con sfumature noir, che può essere tanto divertente quanto noiosa e a tratti irritante (140 minuti sono decisamente troppi), a seconda dei gusti e dell'umore dello spettatore. Anora (detta Ani) è una ventitreenne spogliarellista dall'aspetto esotico e particolarmente snodata specializzata in lap dance, che su richiesta offre servizi pagamento, insomma una sex worker, come si usa dire oggi, che "esercita" in un locale notturno di Brooklyn: una sera viene spedita in un privé dove è apparso Vanja, figlio scavezzacollo e alquanto cretino di un noto oligarca russo coi suoi amici, perché è l'unica a conoscerne la lingua, imparata dalla nonna uzbeka. I due si piacciono, lei fisicamente a lui, i sui soldi e la giocosità di Vanja a lei, tantoché dopo un paio di convegni erotici Anora viene ingaggiata dal ragazzo per fare la "fidanzata" in esclusiva per una settimana. Tra sesso e alcol a go-go, ci scappa un viaggio a Las Vegas dove, guarda caso, Anora riceve una proposta di matrimonio che, novella Pretty Woman, non può rifiutare perché la sua vita svolterebbe, ma anche quella di Vanja, che detesta i suoi genitori ed è negli USA con un permesso di studio: sposando una jankee, otterrebbe la tanto ambita Green Card che lo affrancherebbe dalla famiglia. La quale però gli manda alle calcagna T'oros, il faccendiere armeno di fiducia di stanza a New York che tiene d'occhio l'inaffidabile erede, e i suoi due scagnozzi, allo scopo di far annullare il matrimonio. Prima cercano di convincere la novella sposa, che non vuole mollare l'osso, e la "sequestrano", poi Vanja sparisce e il quartetto, ragazza compresa, lo cerca in un delirante viaggio notturno nei vari luoghi che avrebbe potuto frequentare, e lo beccano nell'ex locale in cui lavorava Anora a trastullarsi con la sua peggiore nemica tra le ex colleghe. Nel frattempo sbarcano a New York anche i genitori di Vanja e tutti insieme appassionatamente si ritrasferiscono a Las Vegas alla ricerca di un avvocato divorzista. Vanja alla fine cede ai genitori e Anora abbozza in cambio di 10 mila dollari e dell'anello di matrimonio, che ne vale ben di più e che non si trova: l'ha intascato e conservato Igor, uno degli scagnozzi, quello "buono" e dal cuore tenero che nel frattempo si è innamorato della ragazza, la quale per ringraziarlo gli si concede per una sveltina in macchina, ma quando lui tenta di baciarla, Anora scoppia in lacrime. Fine del film. Che subliminalmente vuole, forse, lanciare qualche messaggio, oltre ai soliti luoghi comuni sui russi, slavi e caucasici in generale: l'attrazione irresistibile per il denaro, tutto ciò che luccica, lo sfarzo, la volgarità. Battute a raffica, situazioni altamente improbabili, una buona dose di grottesco rendono la pellicola movimentata e sopportabile la sua durata, e relativamente divertente, ma non certo irrinunciabile. Insomma, tanto rumore, e tanto sberluccichio per poca roba, tutto sommato. Bravina (specie nelle contorsioni) Mikey Madison (Anora), sopra le righe, come da parte, Mark Eydelshteyn (Vanja), gli interpreti più convincenti risultano però Yuriy Borisov (Igor, il "gorilla" innamorato), Karen Karagulian (T'oros), e Darya Ekamasova (Galina Zacharova, la madre di Vanja). In gamba il regista a rendere alla fine abbastanza gradevole questa specie di delirio visivo. 

domenica 24 agosto 2025

La zona d'interesse

"La zona d'interesse" (The Zone of Interest) di Jonathan Glazer. Con Christian Friedel, Sandra Hüller, Johann Karthaus, Luis Noah Witte, Nele Ahrensmeier, Lilli Falk, Ralf Herforth, Max Beck e altri, GB, Polonia, USA 2023 ★★★+

La pressoché totale desertificazione della programmazione cinematografica estiva mi ha dato l'opportunità di ripescare un paio di film che mi ero perso nelle stagioni passate. Il primo, che ha ricevuto l'Oscar come miglior film internazionale e quello per il suono nel 2024, è La zona d'interesse. Sono numerose le pellicole sui campi di concentramento nazisti, ma questa è unica nel suo genere, perché non descrive lo sterminio metodico che avveniva all'interno di quello più famoso, Auschwitz, bensì la carriera professionale e la vita famigliare di chi lo aveva costruito e lo dirigeva: Rudolf Höß (qui reso in maniera eccellente da Christian Friedl). La "zona di interesse" era, per l'appunto, l'area di circa 25 mila miglia che lo circondavano, dove abitavano il comandante e la moglie Hedwig (la sempre brava Sandra Hüller) coi loro cinque pargoli, in una elegante villa dotata di tutti i comfort, piscina compresa, divisa soltanto da un muro dalle baracche in cui sopravvivevano a stento e ammassati i prigionieri e i forni dove venivano eliminati quelli non più abili al lavoro. Un'esistenza tranquilla e serena da famiglia borghese esemplare, Frau Höß a dirigere il personale domestico (ragazze locali, qualche volta per i lavori pesanti veniva reclutato qualche detenuto), dividersi tra la amiche vestiti e gioielli sottratti agli internati, ché tanto a loro non sarebbero più serviti, e soprattutto occuparsi del suo amato giardino, a cui si era devotamente occupata negli ultimi anni e di cui andava orgogliosa. Certo, qualche inconveniente c'era: qualche volta l'abbaiare furioso dei cani, fumi dall'olezzo dolciastro e persistente, ceneri "misteriose" che si depositavano nel torrente in cui in estate si andava a bagnarsi e il marito, occasionalmente, a pesca. Parallelamente, la carriera di Rudolf, che si lamentava dell'inefficienza della "macchina" nnché dei suoi sottoposti, e proponeva piani per il miglioramento della "produzione", specie dopo che a partire dal 1940 venne avviata la "soluzione finale" della questione ebraica: fu lui a incentivare l'utilizzo del Zykon B utilizzato nelle camere a gas. Quando nell'autunno del 1942 verrà richiamato a Oranienburg, presso Berlino, la moglie convinse il consorte di chiedere ai suoi superiori di autorizzarla a non seguirlo, perché i bambini potessero continuale a vivere all'aperto, in campagna, e respirare "aria pulita" invece che in città diventate ormai insicure e a Höß venne affidato un piano intitolato a suo nome, l'Aktion Höß, che prevedeva il trasporto capillare di 700 mila ebrei ungheresi nei vari campi di concentramento e che il nostro ufficiale delle SS portò a termine con la consueta minuziosa precisione permettendogli di tornare in quell'angolo di "piccolo paradiso famigliare" ad Auschwitz, dove entrò in funzione anche li secondo campo, quello di Birkenau. Insomma, l'illustrazione visiva ed acustica (non a caso, come accennato, il film è stato premiato per il sonoro) e subliminalmente olfattiva di quella che Hannah Arendt avrebbe descritto nel suo sempre citato (e sempre troppo poco letto) La banalità del male del 1963, un rapporto del processo contro Eichmann, tenutosi a Gerusalemme due anni prima. Anche qui abbiamo a che fare con un burocrate del genocidio alla sua altezza: fu invece giudicato a Norimberga e impiccato nel 1947 proprio davanti all'ingresso del campo di Auschwitz, ma di questo il film non parla, mostrandoci soltanto l'interno dell'attuale museo dell'Olocausto, straniante quanto il film nella sua quotidianità di attrazione turistica (con tanto di supermercati, caffè e negozi di souvenir, a sua volta orripilante banalizzazione dell'orrore: sconsiglio a chiunque di metterci piede, dopo averlo fatto di persona una ventina di anni fa). Insomma un film da vedere e su cui riflettere, inquietante e con uno sguardo originale quanto penetrante sull'argomento. E sui mostri che ci circondano e di cui volenti o nolenti facciamo parte (vedi Gaza).

venerdì 8 agosto 2025

Una sconosciuta a Tunisi

"Una sconosciuta a Tunisi" (Aïcha) di Mehdi Bersaoui. Con Fatma Sfarr, Nidhal Saadi, Yassmine Dimassi, Hela Ayed, Mohamid Ali Ben Jemaa, Ala Benhamad, Saoussen Maalej e altri. Francia, Tunisia, Italia, Qatar 2024 ★★★★

Il secondo lungometraggio di Mehdi Bersaoui ha ampiamente mantenuto tutte le aspettative che avevo, memore del notevole film d'esordio del regista tunisino, Un figlio,  presentato pure esso e premiato a suo tempo alla Mostra del Cinema di Venezia del 2019: mentre quello era un dramma famigliare che si svolgeva sullo sfondo della Rivoluzione dei Gelsomini del 2011 in Tunisia, questo si ispira a un fatto di cronaca avvenuto in seguito a quella rivolta, in un Paese sì pacificato e liberato dalla dittatura ma pur sempre in preda di profonde contraddizioni, fra tradizione e presente, città e campagna, emancipazione femminile e retaggi maschilisti: in più, dopo anni di oppressione, difficile fidarsi di uno Stato inefficiente, in questo caso rappresentato dalla polizia. Mehdi Bersaoui si affida alla vena di Fatma Sfarr, nella sua metamorfosi da Aya ad Amira infine ad Aïsha, adeguandosi alla trasformazione sia fisica sia psicologica di una giovane donna. Quasi trentenne, Aya vive a Tozeur, nel Sud del Paese, mantenendo dai suoi 14 anni i genitori col suo lavoro di cameriera in un resort di lusso dove si reca quotidianamente a bordo di un minivan assieme ad altri impiegati dell'albergo. Fallito e muto il padre, la madre vorrebbe imporle un matrimonio combinato con un anziano abbiente al solo scopo di ricevere ancora più soldi, vantaggi e, magari, prestigio sociale. Come se non bastasse Aya, che oltre a non aver potuto proseguire negli studi, come avrebbe desiderato, non ha mai nemmeno visto il mare, ha una relazione tossica col direttore dell'albergo, che da anni le promette di lasciare la moglie per cominciare una nuova vita insieme ma ovviamente svicola. Un giorno il pullmino sul quale compie il suo tragitto quotidiano ha un incidente e precipita in un burrone: Aya, l'unica sopravvissuta, riesce a uscire dalle lamiere prima che bruci dopo l'esplosione del serbatoio e, sapendo che l'autista aveva preso a bordo un'ulteriore passeggera non compresa nella lista, coglie al balzo l'occasione perché il corpo della sconosciuto risulterà il suo, e lei sarà libera. Recupera quindi di nascosto del denaro nascosto dal suo amante in una cassaforte dell'albergo e con quello va a Tunisi, dove assume l'identità di Amira, prenderà in affitto senza documenti e sulla parola una stanza nell'appartamento di una studentessa, Lobna, che la introduce nella sfavillante vita notturna della capitale, che inizia a frequentare assieme a una coppia di amici, di cui uno, Rafik, un traffichino "intoccabile", si rende corresponsabile della morte di un ragazzo, Karim, con cui Amira aveva soltanto scambiato qualche sguardo in discoteca. La ragazza, priva di documenti, viene costretta da Rafik a rendere falsa testimonianza (nel pestaggio di Karim c'entrano anche due poliziotti che lavoravano in nero come buttafuori nel locale), così il caso viene derubricato a "incidente" e quindi insabbiato, anche per volere della commissaria responsabile dell'indagine. A non starci, però, è l'ispettore Fares, entrato in polizia proprio perché anni prima il fratello era deceduto in circostanze simili, mai chiarite. Il caso monta per iniziativa di parenti e amici della vittima, anche per la diffusione di notizie in rete, Amira/Aya va in crisi, molla la stanza e la amica, nel frattempo sono spariti pure i suoi soldi, e si rifugia presso la panettiera del quartiere in cui vive che diventa una sorta di madre e amica che non ha mai avuto. Una falla del sistema informatico la dà ancora in vita come Aya, ma sarà Fares a fornirle un'ulteriore, e stavolta sicura nuova identità in cambio della sconfessione della sua iniziale falsa testimonianza, assieme a un certificato di morte di Aya (in virtù del quale i genitori avranno un adeguato risarcimento con cui potranno pagare i propri debiti e l'avida madre avere soddisfazione), cosicché la ragazza, finalmente libera da legami, ricatti e catene, potrà davvero iniziare una nuova e consapevole esistenza come Aïcha. Come accennato i livelli del racconto sono diversi e, così come avviene la metamorfosi della protagonista. il film passa dalla commedia drammatica, al poliziesco, al film di denuncia ma anche e soprattutto di documentazione credibile dei contrasti di un Paese complesso e in evoluzione così come i suoi abitanti, Paese peraltro molto vicino e che con l'Italia ha legami stretti da millenni. Sicura la mano del regista, fotografia degna di nota, colonna sonora azzeccata, Fatma Sfarr magnifica ma bravi anche gli altri interpreti, specie quelle femminili, di personaggi non sempre positivi, come la madre di Aya/Aïcha, la commissaria, la convivente e "mezzana" Lobna. Gran bel film.

martedì 29 luglio 2025

100 litri di birra

"100 litri di birra" (100 litraa sahtia) di Teemu Nikki. Con Pirjo Lonka, Elina Knihtilä, Ville Tiihonen, Ria Kataja, Jakob Öhrman, Pekka Strang, Elmer Bäck, Jari Pekkonen, Pertti Sveholm, Vilma Melasniemi, Rami Rusinen e altri. Finlandia, Italia 2024 ★★★1/2

Una conferma per Teemu Nikki dopo il successo di La morte è un problema dei vivi, uscito lo scorso anno, pure in quel caso una produzione italo-finnica: se lì la coppia protagonista era quella di due stralunati becchini, qui sono due energiche sorelle sulla cinquantina che convivono una "nonostante" l'altra, in un insano rapporto simbiotico (la cui portata verrà rivelata sul finale del film), portando avanti la tradizione di famiglia, ossia la produzione di sahti, un tipo particolare di birra, con un processo artigianale che si tramanda da secoli, con l'obiettivo di ottenere la votazione massima, il 10, da parte del padre, sommelier e autorità massima nel paese sperso nella campagna finlandese in cui si svolge la vicenda. Tra un assaggio e l'altro, risse, alterchi coi clienti, abbondanti libagioni in coppia o di gruppo di cui non hanno alcun ricordo il giorno dopo, doposbronze catastrofici, Taina e Pirrko (rispettivamente Pirjo Lonka e Elina Knihtilä, una più dirompente dell'altra) si ritrovano con la cantina desolatamente vuota nell'imminenza del matrimonio della terza sorella, Päivi, trasferitasi a Helsinki dopo un incidente automobilistico (ovviamente conseguenza di una delle colossali bevute di tutti i trasportati) la cui responsabilità era caduta su Taina, cerimonia che si svolgerà nella cittadina natale e per il quale ha chiesto come regalo la produzione di 100 litri del prezioso nettare. La missione risulta pressoché impossibile, considerata sia l'inestinguibile sete e il conseguente costante stato di alterazione delle due sorelle e del loro stralunato aiutante Hauki, sia l'odio nei confronti del principale produttore rivale, l'unico che avrebbe a disposizione un quantitativo adeguato da vendere. Così, dopo aver vanamente cercato di recuperare i crediti coi vari clienti in maniera assai poco urbana, non rimane loro che provare di rubare del sahti in una delle feste che si svolgono in quei mesi estivi nel borgo: quella di laurea di una ragazza e un matrimonio, il tutto con esiti disastrosi, perché il maltolto finisce in fondo al lago e Pirrko finirà pure ricoverata in ospedale ferita e in coma etilico. E' a questo punto che, dopo 30 anni, si sciolgono i nodi del rapporto della strana coppia, e Taina scoprirà di averli vissuti in un costante senso di colpa alimentato proprio da Pirrko, che ha affogato nell'alcol le sue responsabilità nella menomazione di cui è stata vittima Päivi, fagocitando la sorella più debole. Nonostante tutto recupereranno il loro dono di matrimonio acquistando il sahti proprio dall'avversario storico (nonché cugino) e cedendogli pure l'attrezzatura in loro possesso da generazioni grazie alla quale riuscivano a ottenere risultati così spettacolari. Una storia dolce-amara, grottesca e spumeggiante quanto può esserlo una commedia scandinava, ma con quel tocco di follia tipicamente finlandese che caratterizza i film di Teemu Nikki e che ha il suo impareggiabile maestro in Ari Kaurisimäki, e che la rende gradevole in una calda serata estiva anche per il desolante stato della programmazione in sala di questa stagione estiva. 

giovedì 24 luglio 2025

El Jockey

"El Jockey" di Luis Ortega. Con Nahuel Pérez Biscayart, Úrsula Corberó, Mariana di Girolamo, Daniel Fanego, Daniel Giménez Cacho, Roberto Carnaghi e altri. Argentina, Spagna, Danimarca, Messico 2024 ★★★★1/2

Presentato in concorso all'ultima edizione del Festival di Venezia, El Jockey, pluripremiato in America Latina, non era passato inosservato ma non aveva entusiasmato i critici di mestiere, quelli che pascolano nel milieu cinematografaro, per cui è già un miracolo che sia stato distribuito in Italia, non a caso dalla Lucky Red di Andrea Occhipinti, grazie alla cui apertura mentale appaiono sui nostri schermi anche film poco convenzionali come questo. Disdicevole, poi, come ho già avuto più volte modo di far notare, è la scarsa attenzione al cinema del Continente Desaparecido, a cominciare da quello brasiliano e cileno, ma soprattutto argentino, benché almeno la metà della popolazione sia di origine italiana e perfino il castigliano parlato a quelle latitudini sia talmente italianizzato, tanto per il vocabolario quanto per la cadenza, da essere facilmente comprensibile anche senza l'ausilio dei sottotitoli (che comunque sono previsti nell'edizione originale che circola da noi da alcune settimane). Cinematografie di Paesi e realtà che ci sono molto più vicine e familiari di altre che ci vengono proposte e spesso imposte a profusione, a cominciare da quelle nordamericane o scandinave. Tornando a bomba, Remo Manfredini (Nahuel Pérez Byscayart, un Buster Keaton del Terzo Millennio, di una bravura strabiliante) è un fantino dal talento inarrivabile, che assieme alla fidanza Abril (Úrsula Corberó, universalmente nota come l'interprete di Tokyo ne La casa di carta) lavora per il Clan Sirena, ma è dipendente da alcol e da qualsiasi additivo chimico gli capiti a tiro, con risultati disastrosi per la carriera. Quando non è in condizione di montare, lo fa Abril al posto suo, pur essendone incinta, ma nella gara più importante della sua carriera, e dopo l'acquisto milionario (in dollari) di un cavallo giapponese da parte dei suoi capi, gli tocca correre di persona per saldare i debiti che ha accumulato coi suoi datori di lavoro. Pur essendo tenuto strettamente sotto controllo dagli scagnozzi del boss (tutte facce stupendamente inquietanti, pescate probabilmente nei bassifondi di Buenos Aires, e straordinariamente vere) riesce a bombarsi in maniera tale da tirare dritto sull'ovale del famoso Hípodromo Argentino de Palermo della capitale, sfondandone le transenne, accoppando il cavallo e fracassandosi completamente. Da lì in poi il Clan Sirena gli darà la caccia per fargli la pelle. Traumatizzato e con probabili lesioni al cervello, lo ritroviamo in ospedale con una fasciatura a turbante che gli dà un aspetto femminile: messo sull'allerta da Abril, raccatta una pelliccia lasciata su una sedia e una borsetta e si avventura per le strade di Buenos Aires senza una meta precisa, ma in fuga. Non solo dai Sirena, ma anche dalla sua vita e identità precedente, insomma da sé stesso, senza nemmeno rendersene conto. Perché, come già l'aveva avvertito Abril, cambiare registro si può, ma "ammazzando" l'io precedente. Lo aiuta un vagabondo alcolizzato che incontra in un sordido bar de barrio, e che poi raggiunge nel suo tugurio pur non sapendone l'indirizzo, e che si dimostra il suo unico e vero amico disinteressato e gli consente di difendersi dai Sirena procurandogli una rivoltella. Di cui Manfredini farà buon uso, ma finendo in un ospedale psichiatrico, dove lo ritroviamo ormai completamente femminilizzato, in permanente, sobriamente truccato, che di mestiere ora fa la parrucchiera. Del tutto surreale, a tratti picaresco, ironico e grottesco (i riferimenti a Almodóvar, Jodorowski e soprattutto Kaurisimäki sono evidenti), il film è però tipicamente argentino, i rock "leningradesi" del maestro finlandese sono sostituiti dai tango canción di Gardel, di cui proprio quest'anno ricorrono i 100 anni dalla scomparsa (nonostante ciò, nella considerazione dei porteños, El Troesma "cada día canta mejor"), ma anche da ritmi house parossistici sui quali la coppia Remo/Abril si esibisce con movenze disarticolate ed esilaranti. Potrebbe sembrare un film che ammicca al transgender, ma se lo fa è solo marginalmente, perché il tema vero è l'identità. E per quanto uno possa cercare la propria essenza e cercare di sfuggire agli schemi in cui è costretto dalle circostanze (famiglia, società, il coro stesso), ostaggio di convenzioni o regole rimarrà comunque un individuo, se va bene, in libertà vigilata. E sotto stretta sorveglianza. 96', conciso, timing perfetto, divertente, suggestivo ed evocativo. Io poi ci ho ritrovato un mondo e un ambiente umano che conosco abbastanza bene: un tuffo nel passato che per una volta non mi ha riempito soltanto di malinconia, perché è una realtà che ha una sua vitalità, nonostante tutto. Di Luis Ortega era già uscito, 6 anni fa, L'angelo del crimine, che non mi aveva del tutto convinto, con El Jockey ha fatto dei grandi passi in avanti. Spero di averne presto la riprova.

domenica 20 luglio 2025

Il Maestro e Margherita

"Il Maestro e Margherita" (Master i Margareta) di Michael Locksin. Con Evgheniy Tsyiganov, Yuliya Snigir, August Diehl, Claes Bang, Yuri Kolokolnikov, Polina Aug, Leonid Yarmolnik (II), Aleksandr Yatsenko, Aleksey Rozin, Aaron Vodovoz, Aleksei Guzov e altri. Russia 2024 ★★★★+

Il capolavoro di Michail Bulgakov è tra i miei tre libri preferiti in assoluto, letto e riletto, e ogni volta ne scopro un aspetto diverso e sorprendente. Romanzo al cui flusso ci si deve abbandonare, lo si può "filtrare" a diversi livelli: filosofico, melodrammatico, religioso, politico, ma quasi sempre, quando fa comodo, lo si intende come una denuncia contro la censura. Quella staliniana, visto che fu scritto e ambientato nell'URSS degli anni Trenta, quelli della edificazione dello Stato rivoluzionario (e della sua cristallizzazione in regime) nonché della cappa repressiva instaurata dal dittatore georgiano. Che, per quanto spietato, ammirava Bulgakov e, se non gli consentì di pubblicare il romanzo, certamente non infierì su di lui come su altri elementi che ci lasciarono le penne. Per quanto consapevole che un libro così complesso e stratificato sia impossibile da rendere in maniera in qualche modo fedele (ho vaghi ricordi di una versione italo-iugoslava del 1972 con Ugo Tognazzi e Mimsy Farmer, piuttosto piatto deludente), sono andato a vederlo nella versione di Michael Locksin, regista e autore statunitense di nascita ma di famiglia russa e pure cittadino russo (vive a Mosca), così come russo è il resto del cast, salvo il tedesco Diehl nel ruolo di Woland (il diavolo), dalla impressionante somiglianza con Christopher Walken con la metà dei suoi anni e altrettanto bravo. A maggior ragione perché la produzione è russa, e che sia in circolazione in Italia è un miracolo visto il clima di censura (a proposito...) nei confronti di qualsiasi espressione culturale e non provenga da quel diffamato Paese a partire dal 2022, ossia dall'inizio del conflitto con l'Ucraina. Tra l'altro in patria il film ha ottenuto un grande successo di pubblico, molto meno da parte della critica più allineata alle posizioni governative. E questa volta il risultato mi ha convinto, perché a mio parere il regista è stato in grado di trasporre in maniera efficace una sintesi delle diverse sfaccettature del romanzo, o almeno di come lo ha percepito lui, rinunciando ovviamente alla pretesa di farne un racconto cronologicamente lineare (cosa che non è nemmeno nel libro), intrecciando anche visivamente l'elemento fiction (ma realistico), ossia le vicende dell'autore (il Maestro, il bravissimo Evgheniy Tsyiganov) di una pièce teatrale incentrata sull'incontro fra Ponzio Pilato e Gesù Cristo, censurata e lui espulso dalla Società degli Scrittori Sovietici, la sua palpitante e delicata storia d'amore con Margherita, la dolce e intensa Yuliya Snigir, ispiratrice di un altro romanzo che diventa il filo conduttore del film, con quello fantastico, ossia l'incontro con Woland, i suoi due bizzarri aiutanti e il gatto Behemot, che completa la corte al servizio del diavolo in visita nella Mosca dei miscredenti. Internato in una  clinica psichiatrica dopo essere stato denunciato da un collega e amico (che ne occuperà anche la pittoresca abitazione sull'Arbat prima che venisse sventrata), il Maestro continuerà a scrivere il suo nuovo romanzo con la complicità di un'infermiera e le vicende della sua gestazione le apprenderemo dalle sue conversazioni con altri internati, in buona parte intellettuali, tra un "trattamento" ad alto voltaggio e un altro. Ma ci penserà Woland a riunire il Maestro e Margherita per l'eternità prima consentendo a lei, trasformata in una strega invisibile, che cavalca una scopa nei cieli notturni di Mosca, di vendicarsi dei persecutori del suo amato (più ancora della censura, nel mirino di Bulgakov, come credo anche oggetto delle attenzioni del regista, ci sono i leccaculo e i servi di regime), poi mandando per aria lui stesso la capitale del nuovo impero radendo al suolo le orride costruzioni che lo vogliono celebrare (magari fosse vero!). Al di là dell'esito della trasposizione del romanzo sullo schermo, secondo me pienamente riuscita nell'unico modo possibile, ossia filtrando quanto assorbito dall'autore e regista e tradotto in racconto cinemetografico, le due ore e mezzo abbondanti della pellicola scorrono via velocemente, senza intoppi, tra il verosimile e il fantastico, con una fotografia che sottolinea il lato immaginario, metaforico e a tratti beffardo del tutto. Bravi e bene assemblati tutti gli interpreti, complimenti a Locksin, un film che vale la pena vedere.

venerdì 6 giugno 2025

Fuori

"Fuori" di Mario Martone. Con Valeria Golino, Matilda De Angelis, Elodie, Corrado Fortuna, Antonio Gerardi, Stefano Dionisi e altri. Italia 2025 ★★★★+

Mario Martone e la letteratura, sia in ambito cinematografico, sia in quello teatrale, sono un binomio ineludibile, tante sono le trasposizioni di opere fondamentali di quella italiana come anche il racconto della vita di alcuni suoi protagonisti: questa è la volta di Goliarda Sapienza, un personaggio controverso che dal mondo culturale italiano, e romano in particolare, era stata prima mal sopportata e poi respinta. Il suo romanzo L'arte della gioia (10 anni di stesura, dal '67 al '76) era stato pubblicato postumo nel 1998 a cura del marito Angelo Pellegrino per Stampa Alternativa e passato pressoché inosservato, salvo essere ripubblicato da Einaudi 10 anni dopo, in seguito all'enorme successo avuto in Germania e in Francia a partire dal 2005, rivelando uno dei maggiori talenti letterari italiani del secolo scorso. Senza seguire un percorso lineare, con frequenti flashback, il film accenna soltanto alle vicissitudini professionali della scrittrice, una volta uscita dal carcere di Rebibbia in seguito al furto e alla vendita di alcuni gioielli rubati a un'amica del giro altolocato: siamo a Roma nell'estate del 1980, epoca di strascichi dei cosiddetti "anni di piombo". Minacciata di sfratto, emarginata dall'ambiente, si arrangia correggendo bozze e con qualche collaborazione giornalistica: si accontenterebbe anche di un lavoro qualsiasi, pure come domestica o in cucina, ma viaggiando verso i 60 anni nessuno la prende in considerazione. Spaesata, il conforto lo cerca frequentando due ex compagne di prigionia: Roberta (Matilda De Angelis, sempre più brava), anima inquieta, già coinvolta nella lotta armata e, sconfitta, caduta nell'eroina; l'altra, Barbara (la cantante Elodie, forse ancor più convincente come attrice), incarcerata per complicità con un malvivente. Perché per Goliarda, paradossalmente, l'esperienza carceraria è stata liberatoria, un momento della sua vita in cui è riuscita a essere autenticamente sé stessa. Intuendo che, all'interno della più tipica delle istituzioni totali, un essere umano, pur soggetto alla massima costrizione possibile e immerso in una sorta di bolla senza tempo e senza prospettive se non la sopravvivenza immediata, rivela la sua essenza senza più essere vincolato dalle regole e dalle  convenzioni che hanno determinato la sua esistenza "fuori": i rapporti tra chi sta "dentro" seguono regole diverse e non sono certo idilliaci, ma almeno non sono filtrati da schermi e difese, che riemergono, semmai, quando si frequentano, appunto, fuori dalle mura del carcere, nella cosiddetta libertà (comunque condizionata dalle convenzioni e dalla necessità di aderire a un ruolo). Goliarda (interpretata da una Valeria Golino che migliora con gli anni, in questo caso interprete perfetta sia per l'età, sia perché, in qualità di regista della miniserie L'arte della gioia, in onda su SKY, col personaggio della scrittrice siciliana ha abbondante confidenza) la libertà l'ha trovata a Rebibbia, un mondo ingabbiato per definizione, fisicamente, dove però le relazioni viaggiano sull'onda dell'essenzialità, del vero; mentre le vere sbarre, i muri, li  ritrova, per l'appunto fuori, e questo accade pure per le sue due compagne, specialmente Roberta. La pellicola di Martone, nei suoi avanti-e-indietro spazio-temporali tra queste due realtà speculari e opposte, e le bravissime interpreti a cui affida i suoi contraddittori ed emblematici personaggi, non sbava mai, coinvolge lo spettatore, riesce a esprimere una realtà che è difficile, se non impossibile, far capire a chi non ne ha avuto in qualche modo esperienza diretta, a meno di non mettere in dubbio le proprie aprioristiche certezze. Lo fa senza dare pugni nello stomaco, dolcemente e induttivamente, coinvolgendo lo spettatore. Decisamente uno dei suoi migliori lavori finora. 

domenica 1 giugno 2025

Epitaffio



Le partite, soprattutto le finali, si vincono e si perdono.

Ma si giocano.

Noi, stavolta, no.

Punto e a capo.

E grazie un cazzo.

martedì 27 maggio 2025

Il Mohicano

"Il Mohicano" (Le Mohican) di Frédéric Farrucci. Con Alexis Manenti, Mara Taquin, Theo Frimigacci, Paul Garatte, Marie-Pierre Nouveau, Michel Ferracci, Jean Michelangeli, Dominique Colombani, Didier Ferrari, Daniel Di Grazia, Flavio Dominici e altri. Francia 2024 ★★★★

Titolo da western per un dramma/noir che di fatto è un film dall'intento fortemente politico e di denuncia, ambientato in un'assolata Corsica, scritto e diretto da un còrso e interpretato prevalentemente da còrsi in lingua còrsa, e talvolta in un ibrido franco-italiano. Joseph è uno degli ultimi pastori a praticare l'allevamento di capre in un terreno in prossimità della costa e che le fa pascolare in riva al mare: l'appezzamento su cui si trova il suo ovile fa però gola agli immobiliaristi venuti da fuori che hanno in programma l'ennesima speculazione edilizia in favore del turismo cannibale che da decenni ormai imperversa sull'isola. A dar loro manforte è la mafia locale, che manda un suo emissario a convincere Joseph a vendere la sua proprietà: tutti i suoi vicini lo hanno già fatto, in cambio somme di denaro "a cui non si può rinunciare"; lui invece rifiuta la "generosa offerta" e finisce male, perché lo scagnozzo è entrato in casa sua armato e il pastore gli spara, uccidendolo. Un caso esemplare di legittima difesa, ma Joseph fugge, perché i malavitosi, in combutta con gli speculatori e, si fa capire, anche con la polizia, sono sulle sue tracce e lo vogliono vivo, perché quel che occorre è la sua firma, unico modo perché il trapasso di proprietà avvenga con tutti i crismi della legalità (formale). Un suo zio, solidale con lui, gli organizza un passaggio in Sardegna ma rimane a sua volta ucciso dai mafiosi e così Joseph continua la sua latitanza con la copertura e l'aiuto di buona parte della popolazione e, nel frattempo, la sua fama cresce e, grazie all'iniziativa di Vannina, una nipote che vive a Parigi e sta trascorrendo le vacanze sulla sua isola d'origine, che si è messa a diffondere le sue gesta e la sua versione dei fatti attraverso un utilizzo puntuale dei moderni mezzi di comunicazione sociale, sta trasformando le sue peripezie in una sorta di leggenda e il pastore diventa un eroe locale, simbolo sia dell'insofferenza contro l'invasione della Corsica da parte di speculatori senza scrupoli venuti dal continente e che favoriscono un turismo strafottente e volgare, sia di un mai sopito spirito indipendentista che sa sempre anima buona parte della popolazione, che spesso si è trasformato in episodi di vera e propria rivolta. Joseph diventa così il Mohicano, anzi: l'ultimo dei Mohicani, celebrato anche con una canzone scritta per lui e che spopola nei locali frequentati dagli indigeni, diventando un vero e proprio inno mentre la sua immagine stilizzata compare in ogni parte sui massi che costeggiano le suggestive strade di quest'isola selvaggia e orgogliosamente gelosa della propria identità. Non rivelo naturalmente il finale della storia, ma si esce dalla sala con la sensazione che, in qualche modo, una certa giustizia di fondo è fatta anche se la lotta contro lo scempio dei territori è pressoché impossibile da  vincere, considerata la coalizione di forze che lo sostengono per il proprio tornaconto e la protezione che godono da parte del potere politico, ma non lo è la presa di coscienza di chi vi si oppone. Film asciutto, essenziale, senza fronzoli, sentito e autentico: piace per questo e merita di essere visto.