domenica 13 aprile 2025

Nonostante

“Nonostante” di Valerio Mastandrea. Con Valerio Mastandrea, Dolores Fonzi, Lino Musella, Laura Morante, Giorgio Montanini, Justin Korovkin, Barbara Ronchi, Luca Lionello e altri. Italia 2024 ★★★★+

Alla sua seconda regia dopo l'esordio, nel 2018, con Ride, Mastandrea conferma dietro la camera da presa le stesse qualità che ha come persona e come attore (qui è anche il personaggio principale): un modo discreto, ironico e al contempo malinconico di guardare le cose della vita da un'angolatura non scontata, che dà un tocco volutamente surreale e leggero a eventi reali e imprevisti che vengono a scuotere la quotidianità. Là era un fatale incidente sul lavoro, qui è il coma, quella sospensione tra la vita e la morte in cui ogni possibilità è aperta, un risveglio come un definitivo soffio di vento che ti porta via, in cui tutto può succedere, una situazione senza tempo, dove non si ha memoria del passato né idea del futuro, che si immagina però anche, e non così paradossalmente, uno stato di assoluta libertà per il protagonista. Il suo corpo giace in un letto di ospedale, mentre il suo spirito, la sua essenza, vaga per il nosocomio, i suoi cortili e le strade circostanti, parla con quelli che sono nelle sue stesse condizioni: ogni comatoso reagisce alla sua condizione a modo suo, in attesa che evolva, in un senso o nell'altro, quasi rassegnata la donna interpretata da Laura Morante, il ragazzo di Justin Korovkin sul punto di andarsene, attaccato alla famiglia l'uomo di Lino Musella, quello più in confidenza con il nostro Valerio, per cui invece il coma è un momento di inattesa pausa dalla vita e dai problemi di tutti i giorni, una sorta di vacanza, in cui osserva gli altri senza dovere pensare a sé stesso, il cui corpo vede steso nel letto e attaccato alle apparecchiature che monitorano le sue funzioni vitali mentre lui schiaccia una pennica sul divano dopo una giornata a girovagare in totale assenza di gravità e senza essere visto, e in cui può a interagire soltanto con altri comatosi. Il gradevole, per lui, tran tran quotidiano viene stravolto quando la "sua" stanza viene occupata dalla vittima di un grave incidente stradale, Dolores Fonzi, ottima attrice molto nota in Argentina che è un vero piacere vedere in un film italiano, che invece è refrattaria ad accettare le "regole" che per Valerio sono invece una sorta di panacea. Prima infastidito dalla presenza e dal modo di fare della "intrusa", Valerio ne è sempre più attratto e alla fine si lascia andare e si innamora di lei nonostante, per l'appunto, sia impossibile che un rapporto vero nasca e nonostante tutto, in quello stato di assenza da sé stessi, funzioni. Morte, dolori: nonostante tutto bisogna vivere il presente, e tirare avanti, carpe diem nonostante tutto e nonostante ciò su cui non possiamo nulla e non sappiamo nemmeno definire. Piacevolmente surreale per quanto agganciato alla realtà, metafisico verrebbe da dire, il film suscita emozioni e considerazioni profonde senza mai essere strappalacrime o nemmeno banalmente ottimista o ridicolo: lieve ma non leggero, disincantato ma non triste. Mastandrea è bravo e misurato da regista quanto come attore, e così i colleghi che ha scelto accuratamente, la storia funziona, il commento musicale è perfetto. Cosa volere di più? Sembra una stagione positiva, per il cinema nostrano. Speriamo che continui così.

mercoledì 9 aprile 2025

Il malloppo


"Il malloppo" (Loot) di Joe Orton. Traduzione di Edoardo Erba Regia di Francesco Saponaro. Con Gianfelice Imparato, Marina Massironi, Giovanni Franzoni, Giuseppe Brunetti, Davide Cirri. Scene di Luigi Ferrigno; costumi di Anna Verde; disegno luci di Antonio Molinaro. Produzione “La pirandelliana”. 

Perso nelle tappe milanesi all'Elfo Puccini del mese passato, ho recuperato Il malloppo in quella di venerdì 3 scorso al bel Teatro Accademia di Conegliano: occasione imperdibile per un testo dissacrante e poco rappresentato in Italia, ma intramontabile in Gran Bretagna e negli USA, un classico della commedia nera scritta inglese nel 1965 e rielaborata successivamente, probabilmente il maggior successo di Joe Orton, morto a soli 34 anni nel 1967, ucciso dal suo amante e collega Kenneth Helliwell (chi di cadaveri colpisce...). Farsa del genere poliziesco in versione macabra, si basa sul ritmo e sulle battute a raffica dei cinque personaggi in scena oltre al morto, e prende di mira senza pietà il perbenismo sessuofobico e ipocrita dell'epoca, dalla religione alla morale, alla giustizia e all'ordine costituito nonché alla fede cieca nel mito del "progresso": insomma un sessantottino ante litteram, un vero spirito anarchicoLo spunto sono le indagini sulla fine fatta dal malloppo di una dilettantesca rapina ideata ed eseguita da Hal (Giuseppe Brunetti) e Dennis (Davide Cirri) alla banca adiacente all'impresa di pompe funebri dove lavora quest'ultimo, e che viene nascosto prima in un armadio e poi nella bara della madre di Hal, defunta da poco, e vegliata dal padre e fresco vedovo Mr McLeavy (Giovanni Franzoni) e dalla diabolica infermiera Fay, di fatto il personaggio principale e con più sfaccettature, rese tutte con disinvolta bravura e credibilità da Marina Massironi, al contempo bigotta, impostora, cacciatrice di uomini, serial killer di mariti, dark lady fatale. Buon ultimo entra in scena l'ottimo Gianfelice Imparato nella parte dell'ispettore Truscott, che inizialmente indaga in anonimato e che da un lato sembra dotato di un intuito che confina con la capacità divinatoria, dall'altro pare non rendersi conto delle evidenze che sono sotto gli occhi di tutti gli altri, a cominciare dagli spettatori, ovviamente, per cui risulta tanto straniato quanto straniante così come Mr McLeavy, in definitiva, il più "normale" della combriccola, l'unico che è lì per la morta, che viene spostata, spogliata, rivestita nel totale disinteresse del figlio e dell'infermiera quando gli altri sono al funerale al cospetto della bara che contiene il grisbi anziché il cadavere. Quando il poliziotto rivelerà la sua identità ha già capito tutto, non solo chi sono gli autori della rapina ma anche che Fay ha ucciso non solo la donna che assisteva ma pure i suoi precedenti mariti, ma in realtà è interessato molto più al bottino lui stesso invece che ad assicurare alla giustizia i ladri e l'assassina, e tutto finisce secondo il classico adagio "chi ha avuto ha avuto chi ha dato ha dato", in versione londinese anziché partenopea. Divertimento assicurato e spettacolo vivamente consigliato a chi ha occasione di averlo a tiro. 

domenica 6 aprile 2025

Berlino, estate '42

"Berlino, estate '42" (In Liebe, eure Hilde) di Andreas Dresen. Con Liv Lisa Fries, Johannes Hegemann, Lisa Wagner, Alexander Scheer, Emma Bading, Sina Martens, Lisa Hrdina, Lena Urzendowsky, Hans-Christen Hegewald, Nico Ehrenteit, Tilla Kratochwil, Fritzi Haberlandt, Rachel Braunschweig e altri. Germania 2024 ★★★★+

Nel post precedente accennavo all'abisso che avevo percepito tra questo raro film sulla resistenza tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale (un precedente era stato La Rosa Bianca - Sophie Scholl, del 2005) e Le assaggiatrici di Silvio Soldini, anche quello ambientato in quegli anni: col passare dei giorni, si è, se possibile, approfondito. Perché Berlino, estate '42 è fatto col cuore e con profondo rispetto per il personaggio principale, peraltro interpretato in modo eccellente dalla bravissima Liv Lisa Fries, già molto apprezzata nell'ottima serie Babylon Berlin, e senza mai cadere nel patetico suscita emozioni profonde, e sono quelle che alla fine contano, in uno spettacolo che vuole dire qualcosa e rimanere impresso nella memoria. E, in questo caso, nella coscienza. La storia è quella di Hilde Rake-Coppi, che rivive in flash-back, mentre è detenuta nella prigione di Plötzensee in attesa di essere decapitata, quella che era stata l'estate più bella della sua vita, quella in cui era rimasta incinta di suo marito, Hans, militante nel gruppo di Harro Schulze-Boysen e Arvid Harnack conosciuto come l'Orchestra Rossa, che dopo l'invasione dell'URSS da parte della Germania nazista nel 1941 si era offerto di trasmettere via radio da Berlino informazioni che potessero essere utili ai sovietici. Dopo averlo sposato, anche Hilde si era unita alle attività di quello che era anche e soprattutto un gruppo di amici, che vediamo entusiasti nella loro speranza di poter essere utili alla causa e infatti li vediamo pieni di vita non solo ciclostilare e distribuire volantini (o meglio lasciarli in luoghi di passaggio come gli scompartimenti del tram e della metropolitana), fare attacchinaggio, addestrarsi all'alfabeto Morse, tutte cose che Hilde, già sulla trentina, apparentemente timida ma caparbia e rigorosa, e che era stata fidanzata con un giovane ebreo fuggito all'estero (licenza degli sceneggiatori: in realtà era già entrata in contatto con esponenti del Partito comunista tedesco ben prima della guerra e Hans Coppi era già stato detenuto per attività sovversive) fa per convinzione, oltre che per stare vicino al marito. Lo fa, come gli altri, con entusiasmo giovanile, senza pensare ai pericoli e agli orrori da cui sono circondati, continuando a divertirsi, ascoltare musica, amarsi, discutere, andare al lago a bere, nuotare e fare festa anche durante l'estate che vedrà la Wehrmacht subire i primi seri colpi da parte russa: del resto, se non ci si muove e si fa qualcosa a quell'età, quando? E viene subito in mente lo stato di morte cerebrale che sembra essersi abbattuto su buona parte delle giovani generazioni di oggi, in un'Europa immemore e disgustosamente immorale che sembra volutamente cadere ogni giorno di più nei medesimi tragici errori di 110 anni fa. Questa la prima parte del film, perché la seconda, ancora più aderente alla realtà, descrive gli ultimi mesi di vita di Hilde Coppi nel "braccio della morte": la nascita del figlio Hans, poi diventato un noto storico, nel novembre del 1942, due mesi dopo l'arresto. La sua esecuzione venne confermata, nonostante una richiesta di grazia, fatta anche su suggerimento della secondina signora Kuhn (Lisa Wagner, anche lei ottima nella parte) con cui aveva instaurato un rapporto di rispetto e comprensione reciproci e del cappellano, cui aveva affidato una struggente lettera alla madre e al figlio, e solo rinviata al momento in cui non avesse più allattato al seno: venne giustiziata, con la ghigliottina, il 5 agosto del 1943, suo marito Hans (Johannes Hegemann) già nel dicembre '42. Tutta la vicenda viene raccontata con garbo, senza manicheismi e stupidi stereotipi: con umanità e partecipazione, credibilità e attenzione alla psicologia dei personaggi, e in grado di rendere un'epoca e un periodo difficili da descrivere senza cadere nei pregiudizi e nei luoghi comuni. Al termine del film, il ricordo dei genitori mai conosciuti è affidato alle parole di Hans Coppi Junior, voce fuori campo. Come già detto, la distanza con Le assaggiatrice è abissale, peccato che Berlino, estate '42 stia già uscendo dalla programmazione. e anche questo è un segno dei tempi.

martedì 1 aprile 2025

Le assaggiatrici

"Le assaggiatrici" di Silvio Soldini. Con Elisa Schlott, Max Riemelt, Alma Hasun, Emma Falck, Thea Rasche, Nicolo Pasetti, Marco Boriero, Boris Aljinović, Nikolai Selikovsky, Peter Schorn e altri. Italia, Belgio, Svizzera 2025 

Uscito di sala di malumore dopo la visione di quest'ultimo lavoro di Silvio Soldini, per la stima che ho sempre nutrito nei suoi confronti avevo deciso di lasciar sedimentare le mie impressioni, decisamente negative, e sospendere il giudizio, che però è diventato definitivo dopo aver assistito, ieri, alla proiezione di Berlino, estate 1942 (ne parlerò nei prossimi giorni). Entrambi i film sono ambientati in Germania nello stesso periodo, quando le sorti della guerra cominciavano a volgere a sfavore del regime nazista (e del suo alleato principale, ossia quello fascista italiano: lo preciso perché si tende a dimenticarlo, dalle nostre parti). Tra i due c'è un abisso, il paragone è impietoso. La pellicola è ispirata a una storia vera, raccontata da Margot Wölk nel 2007 in un'intervista concessa il giorno del suo 90° compleanno, unica sopravvissuta di 15 "assaggiatrici" reclutate in una cittadina situata presso la Wolfsschanze, la cosiddetta Tana del Lupo, il quartier generale di Hitler che fino alla fine del 1944 diresse da lì le operazioni sul fronte orientale, prima del crollo di quest'ultimo: il loro compito era assicurare cuoco e guardie che il cibo del dittatore non fosse avvelenato. Adattando l'omonimo romanzo (per l'appunto di fantasia) di Rosella Pastorino, già vincitore del Premio Campiello 2018, Soldini si è avvalso della collaborazione di ben altri cinque sceneggiatori (tra cui Cristina Comencini e la figlia Giulia Calenda, fior fiore del cucuzzaro cinematografico romanocentrico) per partorire un film dall'ossatura rachitica, scialbo, irritante, intriso dei più vieti luoghi comuni sul tedesco nazista, che ha il passo di una delle più piatte serie TV di Mamma RAI. La protagonista diventa tale Rosa Sauer, 26 enne moglie di un soldato disperso in Russia, una segretaria berlinese di cui si accennano vaghi sentimenti antinazisti, che dopo i primi pesanti bombardamenti della capitale si rifugia nella casa dei suoceri nella campagna della Prussia Orientale, nei pressi, dunque della Tana del Lupo dove viene ingaggiata a forza dalle SS. Intanto dopo la cura degli sceneggiatori le sue compagne di sventura si sono dimezzate; nasce un'inspiegabile liaison amoureuse clandestina tra lei e il nuovo comandante delle Guardie Alimentari di Hitler (l'interprete, Max Riemelt, è un vero e proprio cane, e nemmeno così attraente da giustificare l'invaghimento della biondina protagonista, Elisa Schott), altra cosa inventata di sana pianta; viene rappresentata fino alla noia la contrapposizione tra le "cittadine" (Rosa, per l'appunto, ed Elfriede, impersonata da Alma Hasun, l'unica che spicca in un cast raffazzonato) e le indigene; l'unico caso di avvelenamento di due ragazze si registra a causa di un dolce contenente miele, colpa quindi di api che hanno scelto fiori tossici; infine Elfriede si scoprirà essere ebrea, cosa ancora più difficile da credere considerato che ai tempi i comuni cittadini tedeschi erano costretti a esibire certificati di "arianesimo" fino alla sesta generazione, e dunque obbligati a  produrre documenti anagrafici da reperire negli archivi delle parrocchie quando non bastavano quelli municipali: figurarsi i controlli nel caso delle "guardie del corpo alimentari", e nemmeno volontarie, del Capo Supremo assunte dalle occhiute SS. Il finale vuole essere a effetto, con Rosa che convince l'amante, il tenente delle SS con cui però aveva appena rotto, a farla salire sull'ultimo treno utile per rientrare a Berlino mentre stanno arrivando i sovietici, e si porta dietro Elfriede ma vengono scoperte: l'ebrea verrà abbattuta durante la fuga, Rosa non si sa, rimane lì impalata a bocca aperta sullo schermo a nostra imperitura memoria prima che scorrano gli "spiegoni" che precedono i titoli di coda sulla incolpevole ispiratrice di questo boccone indigesto (altro che assaggiatrici). Il risultato di questa operazione velleitaria è penoso oltre ogni dire e non salvano dal disastro le musiche curate da Mauro Pagani. Un'involuzione, quella di Soldini, inspiegabile, e si spera soltanto occasionale e frutto di congiunzioni astrali particolarmente avverse. A dare il colpo finale, un doppiaggio indecoroso: gente che pronuncia fiùrer invece di führer così come un romano pronuncerebbe viùrstel al posto di würstel: non si può sentire, e che non se ne sia accorto Soldini, che è milanese e per di più di origine ticinese, e non abbia preteso dei doppiatori in grado di pronunciare correttamente la u con l'umlaut così tipicamente lombarda, è la dimostrazione che stavolta aveva la testa da un'altra parte e che la regìa sia stata opera di un omonimo o di un alter ego sfasato. Unico aspetto positivo del film, se ce n'è uno, far riflettere, forse, e sempre che si abbia ancora il cervello in modalità attiva, sulla trovata della Commissione UE, presieduta da una tedesca ex ministro della Difesa, di finanziare con 800 miliardi di crediti il riarmo dell'unico Paese che può permettersi, a spese degli altri, di indebitarsi: la Germania, che dopo la riunificazione è diventato di gran lunga quello più popoloso del Continente, esclusa la Russia. Auguri.

domenica 30 marzo 2025

Il Nibbio

"Il Nibbio" di Alessandro Tonda. Con Claudio Santamaria, Sonia Bergamasco, Anna Ferzetti, Lorenzo Pozzan, Davy Eduard King, Youssef Tounzi, Abbas Abdulghani, Anas Ladhaira, Fethi Nouri, Beatrice De Mei, Massimiliano Rossi, Andrea Giannini, Maurizio Tesei, Sergio Romano, Biagio Forestieri, Antonio Zavatteri e altri. Italia, Belgio 2025 ★★★★

Un ottimo film, girato alla maniera anglosassone, con le cadenze di un classico thriller di spionaggio, e un omaggio alla figura di Nicola Calipari, alto dirigente del SISMI, ucciso dai militari americani a Baghdad il 4 marzo del 2005 a un posto di blocco ad appena un chilometro dall'aeroporto dopo aver mediato la liberazione della giornalista del manifesto Giuliana Sgrena, sequestrata da un gruppo sunnita, vicenda che ha creato non pochi attriti tra l'Italia e gli USA e rivelatrice, ancora una volta, del nostro perenne stato di sudditanza nei confronti dell'arrogante "alleato". Santamaria, attore quanto mai versatile, riesce a impersonare Calipari con una credibilità indiscutibile, rendendone le caratteristiche di un funzionario di Stato affidabile e puntiglioso, un uomo capace, coscienzioso e non influenzabile, che era già stato incaricato di risolvere, personalmente sul campo e con successo, il rilascio di altri ostaggi nel pantano mediorientale in cui siamo andati a infilarci per la soggezione di cui sopra verso il tracotante occupante d'oltreoceano, come nel caso delle Due Simone, operatrici umanitarie, e di altri tre addetti alla sicurezza italiani, ma non riuscì a riportare a casa il contractor Quattrocchi e il giornalista Baldoni, soltanto un anno prima. Insuccessi che non riusciva a perdonarsi, ragione per cui volle occuparsi personalmente e senza ingerenze né da parte degli americani, né da parte della Croce Rossa, delle trattative per il rilascio della Sgrena, avvalendosi dei canali fidati che aveva attivato in zona in precedenza. Tutto comincia quando viene convocato d'urgenza da Nicola Pollari, il suo superiore, nel momento in cui sta partendo per una vacanza in montagna con la famiglia (ancora una interpretazione notevole di Anna Ferzetti nei panni della moglie di Calipari) e vengono raccontate le vicende dei 28 giorni dal sequestro della giornalista al suo rilascio, alternando la sua reclusione, senza contatti con l'esterno e coscienza di cosa si muovesse sul suo caso, con l'avanti-e-indietro di Calipari tra Roma, dove aveva allacciato rapporti col direttore del giornale e il compagno della Sgrena, e Baghdad, dove aveva messo all'opera i sui fidati interlocutori locali e conduceva personalmente le trattative, cercando di evitare le interferenze non richieste tanto in Italia quanto in Iraq. Pur avendo la tensione e il ritmo di un film d'azione (vengono in mente, anche per l'ambientazione, The Hurt Locker e Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow) Il Nibbio (soprannome datogli dai colleghi) ha il merito di ritrarre Calipari non solo per le sue capacità operative e il suo equilibrio ma per le sue qualità umane, apprezzate da chiunque ci avesse avuto a che fare, a cominciare dai compagni e amici della Sgrena che avevano tutti i motivi, a cominciare da quelli politici, per diffidare di un uomo di punta dei Servizi, con la fama che questi ultimi hanno nel nostro Paese (e non solo): l'idea di mostrarlo anche nella dimensione famigliare, specie nei rapporti con la moglie e soprattutto la figlia, adolescente e attivista nel movimento per la pace, ne rende il carattere a tutto tondo. Da sottolineare la bravura di Sonia Bergamasco nel ruolo di Giulana Sgrena, un personaggio che, anche ai tempi, non suscitava certo afflati di empatia, un ruolo non facile e non gradevole ma affrontato con la bravura di un'attrice di razza. Insomma un film valido, ben girato, su una vicenda, umana e politica, che merita di essere ricordata.

mercoledì 26 marzo 2025

Follemente

"Follemente" di Paolo Genovese. Con Edoardo Leo, Pilar Fogliati, Emanuela Fanelli, Maria Chiara Giannetta, Claudia Pandolfi, Vittoria Puccini, Marco Giallini, Maurizio Lastrico, Rocco Papaleo, Claudio Santamaria. Italia 2025 ★★★★+

Evviva! Vedere due film italiani divertenti e del tutto riusciti nell'arco di una settimana e uscire dalla sala soddisfatti e col sorriso sulle labbra è un evento così raro da far pensare che il nostro cinema tutto sommato sia in salute e la capacità di girare una commedia come Follemente, che da un lato riflette alcuni tratti comuni indigeni e dall'altro è in grado di parlare alle donne come agli uomini (e ridere di sé stessi) al di là delle frontiere (come e forse più a suo tempo di Perfetti sconosciuti) non sia andata persa. Il che è confortante. La storia, raccontata in unità temporale, insomma "tutto in una sera", è quella del primo appuntamento tra Lara (Pilar Fogliati) e Piero (Edoardo Leo), lei sui trenta e lui verso i cinquanta, entrambi già scottati sentimentalmente, che vogliono darsi una seconda possibilità: l'occasione per verificare la validità e le eventuali prospettive di un'attrazione reciproca è una cena a casa di lei, in ansia fino all'ultimo su cosa indossare e sull'illuminazione del suo caotico appartamento e lui, con mazzo di fiori e vassoio di gelato d'ordinanza, indeciso sulla scelta del preservativo (non si sa mai...) davanti al distributore automatico di una farmacia, sobillato da una voce interiore, quella di Marco Giallini, che ne elenca i diversi tipi disponibili. Già, perché oltre ai due protagonisti "reali" della vicenda ci sono gli spiritelli, una via di mezzo tra l'angelo custode e il demone, quattro donne e quattro uomini, che rappresentano le pulsioni contraddittorie di entrambi, i quali dirigono le operazioni da due location diverse, la caotica tana dell'universo mentale di Leo e il salotto perfettino della mente di Lara. Tutti bravissimi, ma spiccano Emanuela Fanelli (Trilli) e Claudio Santamaria (Eros), le due côté "carnali" delle rispettive personalità, che puntano "al sodo" e quelle più razionali, e dogmatiche, affidate rispettivamente a Claudia Pandolfi e Marco Giallini: per contrasto, lo spasso è assicurato, tra battute brillanti e azzeccate, buon senso comune, ironia sugli imbarazzi dei due "protetti". Niente di rivoluzionario e di trascendentale, gli ingredienti della "commedia all'italiana" ci sono tutti, ma assemblati in maniera intelligente e originale come da sempre sa fare Paolo Genovese, navigando tra finzione e verosimiglianza come nei suoi film precedenti, in particolare di Perfetti sconosciuti, finora quello di suo maggiore successo, di cui segue le tracce ma, a mio parere, con ancora maggiore successo, quello che gli auguro vivamente di doppiare. Oltre alla bravura di Genovese come sceneggiatore, avvalendosi della collaborazione di colleghi rodati e fidati, da lodare la grande attenzione all'ambientazione, senza mai sbavature e il grandissimo merito di non non fare mai film romanocentroci pur essendo ambientati sempre nella capitale e avvalendosi prevalentemente di attori romani e la capacità di farli lavorare assieme: i suoi sono sempre film corali in cui, più ancora della scrittura (sempre brillante e mai volgare), conta l'affiatamento tra gli interpreti, che danno sempre l'impressione di divertirsi e di essere a loro volta creatori e coautori del lavoro, complici e non solo un tramite per le idee del regista. Un'ora e mezzo di intrattenimento sano, rilassante e intelligente, probabilmente uno dei migliori incassi dell'a stagione: Genovese e la sua tribù se lo meritano.

domenica 23 marzo 2025

Hokage - Ombra di fuoco

"Hokage - Ombra di fuoco" di Shin'ya Tsukamoto. Con Shuri, Ouga Tsukao, Hiroki Kôno, Mirai Moriyama, Gô Rijû, Tatsuri Ohmori e altri. Giappone 2023 ★★★★1/2

Film che chiude una trilogia che Tsukamoto ha dedicato alle devastanti conseguenze della guerra, preceduto da Nobi (2014) e Zan (2018), non ha bisogno di immagini cruente o di lunghe e tormentate spiegazioni e analisi psicologiche dei personaggi, ma si affida unicamente alle immagini, ai suoi riflessi ex post, appunto come "ombre di fuoco", negli sguardi degli interpreti e nei dettagli, specie in interni, in cui si svolge la vicenda. Che sono quelli di un piccolo ristorante di famiglia, situato vicino a un affollato mercato nero, gestito da una giovane vedova costretta, per necessità, a concedere a pagamento anche il suo corpo ai clienti, oltre al saké e ai poveri piatti che riesce a cucinare col poco che rimedia. Un giorno compare nel suo locale un piccolo orfano, il fenomenale Shuri (grande merito al regista saperlo guidare in un'interpretazione memorabile, di assoluta naturalezza) con l'intento di rubacchiare qualcosa, e tra i due si instaura per qualche tempo un legame compensatorio: nel conflitto appena concluso sono morti sia il figlio della donna, sia i genitori del bambino; a loro si aggrega, per qualche giorno, un altro personaggio, un reduce, già insegnante di scuola media,  affetto da crisi da sindrome post traumatica così pesanti che, nonostante le buone intenzioni, la precaria convivenza del terzetto risulta impossibile. Proprio nel momento in cui la donna sta affezionandosi al piccolo, quest'ultimo viene "reclutato" da un altro reduce, attivo al mercato nero, più a posto con la testa del primo ma deciso a vendicarsi di un alto ufficiale (uno che subito dopo il conflitto è tornato senza problemi a un'esistenza agiata e senza problemi) a cui vuol fare pagare le colpa di averlo disumanizzato e costretto a compiere azioni che non avrebbe mai fatto e reso in definitiva complice di atrocità che gli rimaranno sulla coscienza per tutta la vita: quest'altro giovane, per sicurezza, aveva affidato proprio al bambino il compito di custodire la pistola con cui voleva realizzare il suo proposito. Ambientato nella locanda la prima parte del film, all'esterno, tra mercato e campagna, la seconda, in cui il soldato e l'orfano vanno a stanare l'ufficiale: in mezzo l'unica immagine, definitiva e più devastante, della guerra appena conclusa, quella di Horishima vista dall'alto, sorvolata e filmata dopo il criminale e vigliacco sganciamento della prima bomba atomica, quella che ha cambiato definitivamente il mondo facendolo diventare vieppiù il carnaio demenziale e fuori controllo gestito dagli eterni guerrafondai sopravvissuti a tutto. A dispetto della gente, di ogni etnia, credo o parte del mondo che le guerre è costretta a combatterle, subirle e pagarle. Pellicola stilisticamente impeccabile, fotografia eccezionale, interpretazioni eccellenti, quella del piccolo Shuri sopra tutte. E da sbattere in faccia ai sostenitori di qualsiasi riarmo.

giovedì 20 marzo 2025

La città proibita

"La città proibita" di Gabriele Mainetti. Con Enrico Borello, Yaxi Liu, Marco Giallini, Sabrina Ferilli, Chunyu Shanshan, Luca Zingaretti, Sheena Hao e altri. Italia, 2025 ★★★★

Abilissimo nel contaminare i generi e come nessuno in Italia nel rendere spettacolari le scene d'azione senza cadere nel ridicolo, Gabriele Mainetti non è un regista prolifico: La città proibita è il suo terzo lungometraggio e, dopo Lo chiamavamo Jeeg Robot, che lo ha rivelato al grande pubblico, e la conferma di Freaks Out, mantiene la linea di navigazione su ottimi livelli con un film ancora una volta sorprendente, una sorta di Kung Fu Movie in versione capitolina d'ispirazione tarantiniana (in particolare Kill Bill) e non solo, adrenalinico, romantico ma capace pure di una non banale capacità di osservazione sociologica. La vicenda prende le mossa da un villaggio rurale nella Cina del 1979, quando vigeva ancora la politica del figlio unico, e Mei, la secondogenita di un padre maestro di arti marziali, è costretta a vivere nascosta per evitare i controlli delle autorità, all'ombra della sorella Yun, ma la supererà nella attitudine al combattimento, che esplode quando la vedremo per la prima volta in azione allorché, reclutata da trafficanti di donne da piazzare all'estero per i loro affari, indotta a spogliarsi per essere "valutata" e avviata alla prostituzione, sgomina i presenti, fugge lungo misteriosi sotterranei e sbuca in Piazza Vittorio, a Roma, cuore dell'Esquilino, il rione più multietnico della capitale e da lì va alla ricerca della sorella, che le risulta lavorare al servizio di Wang, un capo della Triade proprietario, per copertura, del ristorante La città proibita. E' fuggendo da lì che incontra (e scontra) per caso con Marcello (Borello, convincente), che lavora nella cucina del ristorante di famiglia, Da Alfredo, una tipica tradizionale osteria romana, vicino e concorrente di quello cinese e nelle mire di Wang. Le loro storie si intrecciano da quel momento sempre più fittamente perché Alfredo, il padre, si scoprirà essere sparito proprio con Yun, e a tirare la carretta sono rimasti il figlio e la moglie Lorena (Ferilli, brava) oltre all'amico di sempre Annibale, un altro trafficone e sfruttatore di poveri cristi come Wang, però autoctono e angosciato dal vedere stravolto il tessuto sociale del "suo" quartiere e di tutta la città. Se la coté mélo è abbastanza prevedibile, con l'incontro/scontro tra i due giovani che devono affidarsi al traduttore dello smartphone per tentare capirsi, è invece pieno di sorprese lo sviluppo di tutta la vicenda, con la scoperta della natura contraddittoria delle manovre di Annibale per conservare la "romanità" del ristorante, i tentativi di sedurne la proprietaria, manipolare il figlioccio e tutelare i propri interessi, e la verità sulla sparizione di Yun e di Alfredo, per cui non entro nei particolari per non svelare nulla. Detto delle grandi qualità di Manetti nel rendere spettacolare un film già movimentato di suo, sottolineata l'ottima fotografia e l'accuratezza dell'ambientazione, la parte "atletica" si regge sulle spalle della sorprendente Yaxi Liu, davvero cresciuta in una famiglia cultrice di arti marziali e diventata non a caso stunt woman e qui reinventata, con successo, come attrice; se nel suo ruolo di criminale del mileiu romano Giallini è imbattibile, altrettanto lo è la Ferilli in quello di moglie abbandonata e di madre, così come molto bene si difende Chunyu Shanshan come boss cinese in via di romanizzazione, con inaspettate punte di ironia e bontà d'animo, pur essendo un delinquente scafato, però a suo modo "umano". Insomma: come nel caso dei precedenti film di Gabriele Manetti, mi sono divertito molto e rimango in attesa di venire piacevolmente colpito la prossima volta.

domenica 9 marzo 2025

Il seme del fico sacro

"Il seme del fico sacro" (Dāne-ye anjīr-e ma'ābed) di Mohammad Rasoulof. Con Soheila Golastani, Missagh Zareh, Mahsa Rostami, Satareh Maleh, Niousha Akshi, Reza Akhlaghirad, Shiva Ordooie, Amineh Mazrouie Arani e altri. Iran, Germania, Francia 2024 ★★★★+

Presentato al 77° Festival di Cannes l'anno scorso, Il seme del fico sacro era stato candidato all'Oscar come miglior film straniero dalla Germania, dove il regista Rasoulov si era nel frattempo rifugiato dopo una serie di condanne subite in Iran, mentre Soheila Golastani, la bravissima protagonista, risulta tuttora agli arresti domiciliari a Teheran, è sicuramente un film politico, ma sarebbe riduttivo definirlo semplicemente come un coraggioso esempio di cinema militante: parla anche di rapporti famigliari, tra i sessi e generazionali che hanno valore universale e delle gabbie mentali che si creano, rendendo arduo capire la vera natura e le motivazioni perfino dei parenti più vicini in relazioni basate sul silenzio e sulla finzione, al di là di una vita in sostanziale reclusione come quella che vivono i personaggi della vicenda. Proprio nel periodo delle ultime manifestazioni di piazza e di massa, con il loro strascico di repressione durissima specie nei confronti dei giovani, il capofamiglia, Imam, dopo anni di lavoro in tribunale è finalmente riuscito a ottenere la promozione a giudice istruttore, il che per la sua ambiziosa moglie (Golastani: superba), figlia di un personaggio controverso, significa anche una casa più grande, vantaggi, insomma una promozione sociale: quello che Imam tace, è che il suo incarico consiste di fatto nel controfirmare le richieste di condanna degli oppositori del regime, comprese quelle, numerose, a morte e fare, in sostanza, il passacarte della pubblica accusa. Per la sua sicurezza, gli viene consegnata una pistola col suo carico pallottole, che però a un certo punto sparisce, e il magistrato entra in paranoia, perché se non la ritrova le conseguenze per lui sarebbero gravissime. A completare il quadro famigliare, le due figlie Rezvan e Sana, studentesse, che simpatizzano per i manifestanti seguendo le proteste sui loro cellulari o, quando possono, anche dal vivo e, peggio ancora, convincono la madre a ospitare una loro amica che ha avuto il volto sfregiato durante un pestaggio da parte dei "Guardiani della Rivoluzione", cosa di cui Imam è tenuto all'oscuro. I segreti si accumulano, e la loro gestione diventa vieppiù complicata. Il racconto procede come un thriller, in uno stato di crescente tensione, e la vicenda, che assume toni sempre più drammatici, si trasferisce dall'appartamento di Teheran (il film è stato girato quasi totalmente in interni, con le attrici a capo scoperto, e gli esterni consistono in materiale documentaristico d'archivio) alla casa di famiglia di Imam in un villaggio rurale disabitato fuori dalla capitate immerso in un paesaggio brullo e desolato, dove si svolge la parte finale, il "chiarimento" definitivo ossia il redde rationem che, ovviamente, non sto a svelare e che mette a nudo tutte le dinamiche accennate sotto traccia precedentemente: i nodi vengono al pettine, con un bel pugno nello stomaco. Regista con le idee chiare, sceneggiatura solida, interpretazioni all'altezza, Golastani su tutti: del resto il cinema iraniano è da sempre garanzia di grande qualità e, pur trattando della drammatica situazione del Paese, e delle sue contraddizioni, è sempre in grado di parlare a tutti perché alcuni temi di fondo, a cominciare dai complicati rapporti tra le persone, sono universali. 

mercoledì 5 marzo 2025

Becoming Led Zeppelin

"Becoming Led Zeppelin" di Bernard MacMahon. Con Jimmy Page, Robert Plant, John Paul Jones e John "Bonzo" Bonham. GB 2025 ★★★★★

Imperdibile per chi ha vissuto la gloriosa era dei primi Settanta (con i suoi prodromi), Becoming Led Zeppelin è qualcosa di totalmente diverso da un documentario con tanto di interviste a sedicenti esperti, colleghi, critici, manager, all'occorrenza groupies, di stelle del rock dell'epoca, e non è nemmeno un film-concerto: Bernard MacMahon l'ha concepito esattamente come gli Zeppelin, a cominciare dalla loro "mente" Jimmy Page, hanno concepito sé stessi, fondendo nel gruppo esperienze e influssi totalmente diversi e presentando il "prodotto finito", senza farsi condizionare e manipolare da discografici, intermediari convenienze. Parlano solo i quattro componenti della band, compreso John "Bonzo" Bonham, il loro poderoso batterista, in una delle rarissime interviste concesse in vita (deceduto nel 1982, il gruppo, solidissimo e solidale e che si concepiva come un intero, si era immediatamente sciolto appena dopo la sua scomparsa. Per dire, i Rolling Stones erano perfettamente concepibili, e infatti sono andati avanti, perfino migliorando, dopo la defezione di Brian Jones, Mick Taylor, Bill Wyman: gli Zeppelin no, senza uno dei loro membri non avrebbero avuto senso e a saperlo erano loro per primi) e l'argomento sono la musica, comprese questioni tecniche di non poco conto, che spiegano la straordinaria alchimia che si è creata tra quattro artisti di formazione e influenze diverse, ma tutti musicisti che si erano fatti le ossa come turnisti (John Paul Jones soprattuto come arrangiatore) già da giovanissimi nella Londra degli anni Sessanta (Page fece l'assolo nel tema di 007 Goldfinger cantato da Shirley Bassey ad appena 17 anni...) oppure erano già conosciuti nel circuito come Bonzo e Plant, nati e cresciuti entrambi nelle Midlands. Il film racconta la formazione di questo primo, straordinario  "Supergruppo" (che non era nato come tale, a differenza di Cream, Toto e altri) e la sua esplosione, nell'arco di un solo anno, con un percorso inverso rispetto agli altri gruppi britannici di quegli anni. Mentre Beatles, Stones e decine di altre band ebbero successo dapprima in Gran Bretagna, nutrendosi di musica americana, gli Zeppelin incisero il primo disco, nell'arco di un mese, negli USA, con la Atlantic, gloriosa etichetta newyorkese, presentando il lavoro finito (una "fissa", come accennavo sopra, di Jimmy Page, che lo aveva prodotto da solo, grazie alla sua già immensa esperienza da studio), seguito da un tour, organizzato dal lungimirante manager americano, da Ovest a Est: tra il  concerto al Fillmore East di San Francisco del 9 gennaio 1969, peraltro data di nascita di Page (classe 1944, per inciso), e quello del 9 gennaio del 1970 alla Royal Albert Hall di Londra, ritorno a casa dei "figliol prodigi" e relativa consacrazione, corrono solo 12 mesi e un altro album, Led Zeppelin II, il più dirompente, quello di Whole Lotta Love, un pezzo definitivo, che ha segnato la storia della musica. Giustamente Page e soci non vogliono sentir parlare di generi: il loro mix, che dipendeva dalla sensibilità e storia di ognuno dei componenti, era unico, e gli stili e preferenze dei singoli hanno sempre trovato spazio sia nei loro lavori in studio sia nei loro concerti, inarrivabili come potenza e complessità ma che riservavano sempre largo spazio per la creatività di ognuno. Un piacere sentirli parlare, con la grande modestia e riservatezza che hanno sempre avuto (non si sono mai autopromossi, hanno sempre impedito che qualcun altro mettesse le mani sia sui loro lavori sia che manipolasse la loro vita privata), che mostra da un lato professionalità e rispetto per sé stessi ma dall'altro sincerità e autenticità, di cui hanno sempre dato prova. Il pubblico, già 50 anni fa, lo percepiva fisicamente. Io compreso. Ero al Vigorelli di Milano, 16 anni, appena rimandato in greco e latino al ginnasio, il 5 luglio 1971, unica loro esibizione italiana: 15' di concerto, interrotto per una battaglia campale tra "autoriduttori" (il biglietto era a 1500 lire, l'equivalente, inflazione compresa, di non più di 10 € attuali) e polizia, che lanciavano irresponsabilmente lacrimogeni da un lato e bottiglie incendiarie dall'altro (in un velodromo costruito in legno...): impianto di amplificazione staccato, la voce di Robert Plant, a 50 metri di distanza, in mezzo ai botti e alle sirene, si udiva ancora. Energia pura. Questo erano i Led Zeppelin. E la loro musica stratificata e raffinata molto oltre le apparenze e le solite classificazioni di comodo e luogocomuniste, tipo i "fondatori dello Heavy Metal" o "emblemi dello Hard Rock" da parte di chi non ha mai preso in mano uno strumento e che al posto dell'orecchio ha sì e no un imbuto. In moplen...

domenica 2 marzo 2025

Fiume o morte!

"Fiume o morte!" di Igor Bezinović. Con la partecipazione della cittadinanza di Rijeka/Fiume tra cui Izet Medošević,Ćenan Beljulji, Albano Vučetić, Tihomir Buterin, Andrea Marsanich, Massimo Ronzani, Milovan Večerina Cico e altri. Croazia, Italia, Slovenia 2025 ★★★★1/2

Presentato in anteprima esattamente un mese fa al Film Festival di Rotterdam, dove ha ottenuto il Premio Tiger, Fiume o morte!, che rievoca la cosiddetta Impresa di Gabriele D'Annunzio che durò 16 mesi, dal settembre 1919 al dicembre successivo, e distribuito da Wanted, è uscito con delle proiezioni di prova a partire dal 17 febbraio in alcune sale del Friuli Venezia Giulia, una per provincia: il positivo riscontro di pubblico, in una regione particolarmente sensibile al tema, e dove era lecito attendersi reazioni negative, ha fortunatamente indotto alla distribuzione a livello nazionale, che avverrà a breve. Un bene, perché si tratta di una ricostruzione da un lato estremamente accurata (basata su meticolose ricerche d'archivio, testimonianze, materiale fotografico e filmati dell'epoca) e dall'altro riproposte in maniera molto originale, coinvolgendo la cittadinanza e sovrapponendo l'azione dei volontari attuali (persone comuni reclutate nei mercati o lungo il Corso cittadino) che posano negli stessi luoghi delle foto di allora o mimano e declamano azioni e discorsi significativi dell'occupazione durata 16 mesi della città. Mi incuriosiva il fatto che il film è proposto in lingua originale: il realtà il croato, sottotitolato in italiano, è usato solo nella prima parte del film (o docufilm, come lo si è voluto definire: secondo me è un film a tutto tondo, almeno quanto lo sono quelli tanto celebrati di Wes Anderson, per quanto con un impianto teatrale. Io lo definirei situazionista, e per me un complimento), quando Bezinović, fiumano di Sušak, la parte meridionale della città, oltre il Fiumara (l'Eneo) già ai tempi popolata quasi esclusivamente da croati, intervistava i concittadini per strada chiedendo loro se sapessero chi fosse D'Annunzio e qualcosa dell'occupazione della città da parte dei suoi Arditi: tra i più giovani nessuno ne sapeva nulla, solo col crescere dell'età qualcuno ne aveva una idea più o meno precisa: "un fascista italiano", "un esaltato", "un occupatore", "un delirante". Tra loro, il regista ha reclutato dei volontari per interpretare gli "invasori" di allora, in particolare 11 calvi, per la parte di D'Annunzio, e durante le prove e le "azioni", i personaggi parlavano in fiumano, dialetto che anche buona parte degli slavi di Rijeka conoscono e parlano tuttora, spesso anche tra loro, come può testimoniare chiunque frequenti come me la zona così come tutta l'Istria e la Costiera Dalmata. L'effetto è da un lato straniante e dall'altro divertente: non c'è nulla di anti-italiano o di "panslavista": la vicenda fiumana, tra il cialtronesco e il demenziale, com'era inevitabile, gestita da un personaggio egolatra e farneticante come D'Annunzio, non a caso chiamato allora e perfino adessoVate in Italia, benché avesse anche ragioni e contenuti comprensibili (il trattamento riservato all'Italia nel primo Dopoguerra nonché la sorte dei reduci di guerra, una gioventù che faticava a reintegrarsi e nutriva pulsioni di rivalsa: il vitalismo ed estetismo dannunziano era fatto apposta per attirarli) è raccontata cronologicamente e con rigore storico, la sovrapposizioni dei manipoli giovani croati in divisa grigioverde italiana ed elmetto nelle strade di oggi, dei vari "D'Annunzi" a tenere discorsi, sono esilaranti. Esempio di antiretorica e pacifismo da manuale che inevitabilmente entra in collisione con l'indole parolaia e, attualmente, di nuovo bellicista e con la scarsa memoria storica del nostro Paese, dove al contempo ha ancora credibilità la favola dell'italiano brava gente e bonaccione. Intendiamoci: mediamente è così, per quanto riguarda la gente comune in Italia come in tutti i Paesi del mondo, altra cosa quando si parla di politici e rapporti di potere. Sarà retorica e luogo comune pure questo, ma io la vedo così. Andrebbe proiettato ogni 10 febbraio, nel Giorno del Ricordo (in un Paese che ne è del tutto privo) istituito nel 2004 per "celebrare" l'esodo degli istriani e dei fiumano-dalmati nel secondo Dopoguerra. Giusto per raccontarne i prodromi. 

mercoledì 26 febbraio 2025

Amadeus


"Amadeus" di Peter Schaffer, uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia. Con Ferdinando Bruni, Daniele Fedeli, Valeria Andreanò, Riccardo Buffonini, Matteo de Mojana, Alessandro Lussiana, Ginestra Paladino, Umberto Petranca, Luca Torraca. Luci Michele Ceglia; suono Gianfranco Turco; assistente ai costumi Elena Rossi; assistente alla regia Giorgia Bolognani; realizzazione costumi Elena Rossi, Alessia Lattanzio, Monica Fedora Colombo, Grazie Ieva; realizzazione scene Marina Conti, Giancarlo Centola, Tommaso Serra. Produzione Teatro dell'Elfo con il contributo di NEXT, Laboratorio delle idee per la Produzione e la programmazione dello spettacolo lombardo. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano, fino al 2 marzo

Erano più di due anni che, per causa di forza maggiore, non assistevo a uno spettacolo dell'Elfo, e ne sentivo fortemente la mancanza: mi sono rifatto domenica scorsa con Amadeus di Peter Schaffer, da cui 40 anni fa Miloš Forman aveva tratto l'omonimo film che ai tempi aveva conquistato qualcosa come 5 Oscar: un successo planetario. Rigorosamente aderente al testo, di cui Ferdinando Bruni ha curato la traduzione, oltre a essere mattatore assoluto dello spettacolo nella parte di Antonio Salieri, voce narrante, che in punto di morte racconta la sua versione dei fatti dei rapporti con Mozart, millantando il "merito" della morte in disgrazia a soli 35 anni, 33 prima di quella del suo presunto "assassino", che ha goduto sì di fama durante la sua lunga vita (questo il suo "patto con Dio, stretto nella natìa Legnago, nel Veronese, per diventare, nella sua lunga carriera, Maestro di Cappella e compositore di corte degli Asburgo a Vienna) ma non la fama imperitura, arrisa invece al suo più giovane e ben più geniale rivale. Sempre che di rivalità si possa parlare tra due persone divise da un abisso caratteriale e soprattutto, di talento. E' dunque Salieri/Bruni a dialogare col pubblico fin dalla prima scena in cui, ridotto in carrozzella, gli chiede provocatoriamente se sia vera o falsa, come sostengono i "venticelli", che sia stato lui ad avvelenare il salisburghese, autentica e inarrivabile rock star dell'epoca: rotto il patto con Dio, che gli ha sì dato successo e notorietà ma presentato il conto preferendogli un avversario imbattibile sul piano musicale, quello a cui Salieri teneva, e che gli ha fatto bere l'amaro calice di vedere svanire la propria fama e quella delle sue opere molto accademiche ancora in vita mentre cresceva a esponenzialmente quella di Mozart, soprattutto dopo la sua tragica scomparsa in miseria fino all'immortalità: piuttosto che andarsene nell'anonimato, è Salieri stesso ad avvalorare la voce di esserne stato l'assassino, a costo di passare per un infame e un malvagio. Parte ardua, quella di Salieri, pienamente nelle corde di Bruni, capace di passare da un registro di voce all'altro con una facilità impressionante (da sempre il cofondatore dell'Elfo assieme a Gabriele Salvatores cura in modo particolare l'aspetto vocale) così come nell'espressione e nella postura, senza perdere mai misura e compostezza; così come non era facile quella del giovane Daniele Fedeli in quella del capriccioso, irriverente, infantile, a tratti ingenuo ex bambino prodigio Wolgang Ama-Deus (un nome che per Salieri suona come un tradimento): inevitabile il raffronto, per chi ne conserva il ricordo, con la esplosiva e perfino esagerata vitalità, a tratti buffonesca, di Tom Hulce nel film di Forman, ma assolutamente nella parte, così come l'ancor più giovane Valeria Andreanò, solo ventiduenne, in quella di Costanze Weber, la moglie del genio che ha rivoluzionato la musica, in cui gli "Elfi" hanno, probabilmente a ragione, intravisto una sicura promessa del palcoscenico, e all'altezza tutti gli altri interpreti. Suoni e luci da manuale, costumi impeccabili e una scena essenziale quanto funzionale, usuali punti di forza della compagnia milanese, completano e assicurano il successo di uno spettacolo divertente quanto istruttivo, incentrato sul rapporto tra la mediocrità di massa, e dunque collettiva, con la solitudine del genio, che vive in un mondo a sé stante, quasi incapace di comprendere l'umanità che lo circonda ed entrare in rapporto con essa, in un corto circuito reciproco. Spettacolo in prima nazionale, l'augurio è che vada presto in tournée attraverso la Penisola!

martedì 18 febbraio 2025

Io sono ancora qui

"Io sono ancora qui" (Ainda estou aquí) di Walter Salles. Con Fernanda Torres, Selton Mello, Valentina Herszage, Maria Manuella, Bárbara Luz, Fernanda Montenegro, Maeve Jinkings, Humberto Carrão e altri. Brasile, Francia 2024 ★★★★★

Ci tenevo molto a vedere l'ultimo lavoro di Walter Salles, famoso qui in Italia per Central do Brasil, il suo primo film del 1998 (la cui protagonista, Fernanda Montenegro, è qui in un cameo come Eunice Facciolla da vecchia), City of God e I diari della motocicletta, sul viaggio latinoamericano su due ruote di Che Guevara da giovane. Presentato in anteprima a settembre all'81ª mostra del Cinema di Venezia, è certamente il suo film più personale, avendo conosciuto e frequentato la famiglia Paiva da giovane, rifacendosi quindi ai suoi stessi ricordi nonché a quelli del suo quasi coetaneo e amico Marcelo Paiva, ché è anche da un suo libro autobiografico che è tratto il lungometraggio. E' la storia della resistenza, innanzitutto morale, di una donna, Eunice Facciolla, madre di cinque figli e moglie dell'ex deputato trabalhista Rubens Paiva, ingegnere, la cui attività politica era stata interrotta dal golpe del 1964: la prima di una lunga serie di dittature nel Continente Desaparecido, come lo chiamava Gianni Minà, uno dei pochi giornalisti italiani (con Giangiacomo Foà e Italo Moretti), che se ne occupavano con competenza, nel pressoché totale disinteresse del nostro Paese, benché abitato da decine di milioni di discendenti di italiani. Pochi qui da noi se lo ricordano, ma la dittatura dei Gorilas durò ben 21 anni, come il fascismo da noi. Paiva padre venne arrestato nella sua casa e portato in caserma nel 1971, ma non se ne seppe più nulla ed Eunice (che nel frattempo per ottenere giustizia si sarà laureata in giurisprudenza) solo 25 anni più tardi, grazie alla Legge degli Scomparsi, potrà dichiararsi vedova perché lo Stato ha riconosciuto le responsabilità dell'esercito. E' la vicenda di questa donna e della sua famiglia che viene raccontata, e Salles lo fa con cognizione di causa, rendendo con le sue immagini perfettamente il clima della Rio de Janeiro degli anni Settanta, in un Brasile in pieno boom economico nonostante la dittatura militare: un Paese frizzante, vivace, con una gioventù ribelle molto simile a quella europea e statunitense. La preoccupazione dei Paiva è semmai per l'esuberanza della figlia maggiore Veronica, detta Veroca, che filma le vicende con la sua telecamera Super8: simpatizzante del movimento studentesco, viene per precauzione spedita a Londra presso amici, invece la vita di questa famiglia benestante, progressista e colta viene minata dal sequestro, a casa sua, di fronte alla spiaggia di Leblon, la più bella e suggestiva della Cidade Maravilhosa, di Paiva padre, di cui non si saprà più nulla, come detto, per 15 anni. Anche Eunice, inizialmente, verrà portata in una caserma dell'esercito e trattenuta per una settimana, e lì vedrà coi suoi occhi, senza poterlo provare, l'automobile del marito. Il film racconta la grande forza morale di questa donna, che invece di piangere sorride, si reinventa, cresce i suoi figli dando loro sicurezza, affetto e proteggendoli per quanto possibile; racconta efficacemente la cerchia degli amici, intellettuali che si oppongono per quanto possibile della dittatura, che li perseguita come possibili complici della lotta armata: sono state decine di migliaia gli esuli, all'estero (un caso per tutti: Chico Buarque de Hollanda proprio da noi in Italia) e in patria (Paratí, una delle più belle e note cittadine coloniali brasiliane, era stata di fatto per un ventennio una sorta di enclave per dissidenti, gente di cultura e professionisti, che il regime non poteva permettersi di eliminare, ma isolare e rendere innocui sì). Dopo la sparizione di Rubens Paiva la famiglia si trasferirà a San Paolo, Veroca tornerà in patria, Marcelo subirà un incidente (raccontato nel suo libro d'esordio, Benvenuto anno vecchio, di travolgente successo e che ai tempi mi aveva colpito molto: mi rendo conto solo sul finire del film che si tratta di lui) che lo lascerà tetraplegico ma attivo come scrittore, giornalista e sceneggiatore. La vera protagonista però è la madre, Eunice, una grandissima Fernanda Torres, così come un più che credibile Selton Mello rende perfettamente, anche per la somiglianza, l'indole e il carattere di Rubens Paiva. Dopo tanto lottare, Eunice, significativamente, verrà colpita dal morbo di Alzheimer: forse l'unico modo che aveva per dimenticare un così grande dolore affrontato con un coraggio da leonessa. Sarà anche un film generazionale, che un boomer come me non poteva perdere, ma lo ritengo necessario per non dimenticare. Sincero, senza smancerie, senza mai cadere nel mélo, ma che punta dritto al cuore, perché sincero, umano e vero. 

sabato 8 febbraio 2025

L'abbaglio

"L'abbaglio" di Roberto Andò. Con Toni Servillo, Salvo Ficarra, Valentino Picone, Tommaso Ragno, Giulia Andò, Leonardo Maltese, Clara Ponsot, Pascal Greggory, Giulia Lazzarini, Vincenzo Pirrotta e altri. Italia 2025 ★★★★

Altro bel lavoro, da non perdere, di Roberto Andò, che ha la rara virtù di girare film in cui fatti reali ed elementi di fantasia si fondono, per rendere più concreta e viva la ricostruzione storica di un avvenimento. Per certi versi sembra che faccia da controcampo a Mario Martone, che in Noi credevamo, uscito già 15 anni fa, aveva raccontato dell’adesione alla Giovine Italia di un terzetto di giovani mazziniani pugliesi. Tra l’altro, anche lì era presente Toni Servillo, proprio nei panni del rivoluzionario repubblicano; i due registi sembrano pure dialogare, sempre per interposto Servillo, attraverso La stranezza e Qui rido io, parlando invece di teatro, e in entrambi i casi il risultato è istruttivo e gradevole: per quanto mi riguarda, trovo l’approccio del siciliano Andò più lieve di quello del napoletano Martone ma è, va da sé, questione di gusti. Qui si racconta niente di meno che dell’Impresa dei Mille, che propiziò l’unità d’Italia, fin dal momento dell’arruolamento dei volontari in quel di Quarto di Genova, di cui Garibaldi (Tommaso Ragno) ha incaricato il fidato colonnello Vincenzo Orsini (Servillo), già ufficiale borbonico, passato dopo i moti del 1848 “dalla parte giusta”, assistito dal tenente Ragusin (Maltese), entusiasta quanto ingenuo. Non si guarda troppo per il sottile, per cui tra una maggioranza di settentrionali e toscani vengono imbarcati anche due siciliani, Domenico (Ficarra), un esperto i fuochi d’artificio rimasto storpio e Rosario (Picone), che millanta un titolo nobiliare e un passato all’accademia militare ed è in realtà un impostore e un baro che scappa dal Nord dove si era trasferito, assumendo un’improbabile cadenza veneta, per sfuggire alla vendetta dei “grulli” che aveva spennato a carte. Una volta sbarcati in Sicilia, durante la battaglia di Marsala i due si dileguano, il primo per raggiungere la ragazza che aveva promesso di sposare e il secondo la natìa Palermo, e finiscono per imboscarsi in un convento di suore, dove fanno conoscenza con la vispa e opportunista Assuntina (Giulia Andò), che incontreranno nuovamente nel prosieguo dello loro avventure isolane dopo che verranno scoperti e arrestati come disertori dalle Camicie Rosse, ormai giunte, di battaglia in battaglia, alle porte di Palermo. Si riscattano, però, spacciandosi per parroco e sindaco, ché se manca loro il coraggio non difettano di astuzia, bloccando i borbonici venuti a mettere a ferro e fuoco l’ennesimo paese di “collaborazionisti”, ché il popolo, a differenza di preti, agrari e maggiorenti, stava dalla parte dei garibaldini. Verranno trascinati via dall’esercito regolare dopo essersi offerti come ostaggi per rendere credibile l’affermazione che Garibaldi era ormai entrato a Palermo e dunque la loro rappresaglia sarebbe stata inutile, ed è l’ultima volta che Orsini li vedrà. Vent’anni dopo il Colonnello, ormai generale in pensione, dopo averli cercati invano per ricompensare il loro atto di “eroismo”, li ritroverà, sotto ben altre vesti e in un diverso contesto, sempre a Palermo, assieme ad Assuntina: perché in Italia, ma in Sicilia per definizione, tutto cambia per non cambiare mai. Andò racconta con sufficiente correttezza e linearità l’impresa militare infarcendola con le vicende personali e tragicomiche dei due disgraziati, attraverso le quali si esprime molto bene il punto di vista popolare di tutta la questione, sui cui risultati, un “abbaglio”, appunto, vale la pena riflettere ancora oggi. Film scorrevole e piacevole, dunque, e la riprova che il terzetto di interpreti già visto all’opera nel precedente La stranezza funziona.

lunedì 27 gennaio 2025

No Other Land

"No Other Land" di Yuval Abraham, Basel Adra, Hamdan Ballal, Rachel Szor. Palestina, Norvegia 2024 ★★★★+

Per celebrare la Giornata della Memoria, e tenere in esercizio quella a breve termine, ché di questi tempi ci si scorda pure quello che è accaduto soltanto ieri, oltre a chiudere occhi e orecchie su quello che succede quotidianamente anche a poca distanza da noi, giusto per rimuoverlo, nulla di meglio che andare a vedere questo documentario. Non sto a raccontarlo: è soltanto da guardare e ascoltare, ricevendo un salutare quanto doloroso pugno nello stomaco, utile a far riflettere e prendere coscienza. Immedesimarsi nell'altro: è quello che fanno Yuval Abraham, giornalista e Rachel Szor, giornalista, entrambi israeliani, girando questo film assieme ai palestinesi Hamdal Ballal, a sua volta regista e Basel Adra, attivista e figlio di un attivista, il protagonista di questa vicenda, raccontando quanto avviene quotidianamente nella comunità d'origine di quest'ultimo, Masafer Yatta, un agglomerato di venti villaggi nella zona di confine meridionale della Cisgiordania, abusivamente occupata dal 1967 da Israele. Il grosso dei filmati è stato girato tra il 2019 e il 2023, e documenta la violenza e l'insistenza con cui l'esercito di Israele vuole scacciare dalle sue terre la popolazione locale, accampando la scusa che devono essere espropriate per farne una zona di addestramento militare, cercando di fiaccarne la resistenza e distruggendo le abitazioni le scuole e i negozi che gli abitanti pazientemente ricostruiscono ogni volta: ci vivono da centinaia se non migliaia di anni praticando l'agricoltura, tanto è vero che all'occorrenza rimettono in uso le grotte che abitavano i loro antenati. Oltre a questi, ci sono altri filmati d'epoca, recuperati e raccolti da Basel, nato nel 1996, il cui primo ricordo è l'arresto di suo padre, quando aveva cinque anni. Da allora la situazione non ha fatto altro che peggiorare: all'esercito si sono aggiunti i coloni, sempre più aggressivi, che oltre a rubare terra e acqua ai locali, si organizzano sempre più spesso in squadracce non solo armate con armi da fuoco ma sostenuti dai militari con la stella di Davide. Deportazione, pulizia etnica e fanatismo: una vergogna davanti alla quale pressoché tutto il mondo "Occidentale" preferisce chiudere gli occhi e straparlare lanciando accuse di "antisemitismo" a  chi sostiene la causa dei palestinesi. I quali, essendo arabi, sono tanto semiti quanto gli ebrei israeliani: giova ricordarlo, perché ci si dimentica anche questo dato fondamentale. Andate a vederlo e buona visione.

Il giorno della memoria corta


 

venerdì 24 gennaio 2025

L'orchestra stonata

"L'orchestra stonata" (En fanfare) di Emmanuel Courcol. Con Benjamin Lavernhe, Pierre Lottin, Sarah Suco, Kacques Bonaffé, Clémence Massart-Weit, Anne Loiret, Mathilde Courcol-Rozès, Yvon Martin, Ludmila Mikaël, Nathalie Desrumaux e altri. Francia 2023 ★★★★+

Il cinema francese al suo meglio: quello che in forma di commedia intelligente riesce a mettere insieme un dramma personale, famigliare, sociale, politico, il tutto in una vicenda credibile quanto emblematica, giocando sulla contrapposizione di due mondi apparentemente inconciliabili ma con leggerezza e non senza un tocco di ironia. A Thibaud (Benjamin Lavernhe, attore della Comédie Française), un quarantenne realizzato, direttore d’orchestra e compositore di fama mondiale, viene diagnosticata una leucemia fulminante e necessita urgentemente di un trapianto di midollo osseo: ne occorre uno che sia compatibile e quindi il primo che viene analizzato è quello di sua sorella e non lo è perché dall'esame del DNA risulta che non sono imparentati. Scopre così che è stato adottato, ed è quello che ha pescato la carta giusta, come si suol dire, cresciuto in una famiglia facoltosa che non gli ha mai fatto mancare nulla, perché suo fratello naturale, Jimmy (Pierre Lottin), è rimasto nel Nord del Paese, in una cittadina mineraria sulla costa, passando da una famiglia affidataria all’altra fino a trovare una vice madre in Claudine, un’affettuosa signora ormai anziana, e lavora come cuoco in una mensa scolastica. E’ a lui che Thibaud si rivolge, entrando in contatto con un ambiente a lui del tutto estraneo e che avrebbe potuto essere il suo, né i due potrebbero essere più diversi, per estrazione sociale, carattere e cultura, ma una cosa in comune ce l’hanno: la passione per la musicam, infatti Jimmy suona il trombone nella banda locale e adora il jazz. Accetta di donare il midollo, l’operazione sembra dare buon esito, i due vanno avanti a frequentarsi, per sdebitarsi Thibaud dà una mano perché la fanfara partecipi al più prestigioso concorso francese e dopo aver verificato che il fratello possiede l’”orecchio assoluto”, cerca di convincerlo a dirigere lui la banda e lo istruisce all'occorrenza. Jimmy, introverso e frustrato di suo, fraintende e partecipa senza dirgli nulla né con successo a un’audizione per direttore d’orchestra, aumentando la sua scarsa autostima, e l’esibizione al concorso della banda avrà esiti disastrosi. Nel frattempo la cittadina è teatro di lotte sindacali, le miniere chiudono, le fabbriche vengono delocalizzate, gli abitanti cercano di tirare avanti comunque e tengono duro, e Thibaud conoscerà l’altra faccia della medaglia del suo orticello privilegiato, un mondo reale, persone autentiche e solidali, che sapranno stargli vicino ed esprimergli affetto e calore umano quando anche per lui la ruota comincerà a girare nel senso sbagliato. Affrontare con lievità temi diversi e anche scabrosi, come un cancro o gli effetti nefasti della globalizzazione e della immanente e sacra Legge del Mercato, e gli abissi sociali e umani che generano, è appunto un dono del cinema francese, e Courcol ha sì qualcosa di Ken Loach, meno "militante" ma non per questo più accomodante, quindi più accessibile alla larga platea; il film è ben girato e diretto, funziona tutto, in particolare le interpretazioni dell'netro cast, nessuno escluso, trattandosi per davvero di un film corale. Merita.

domenica 19 gennaio 2025

Conclave

"Conclave" di Edward Berger. Con Ralph Fiennes, Stanley Tucci, John Lithgow, Lucian Msamati, Brian F. O'Malley, Carlos Díez, Merab Ninidze, Sergio Castellitto, Thomas Loibl, Isabella Rossellini, Jacek Koman e altri. USA 2024 ★★★★-

"Morto un papa se ne fa un altro": detta così sembra facile, ma è da secoli che, a ogni elezione del successore di Pietro, va in scena una delle più intriganti e segrete procedure per l’elezione del successore: non per la formula in sé, che è piuttosto semplice, quanto perché fin dal 1570 i cardinali elettori sono isolati (teoricamente) dal mondo esterno, per l’appunto “sotto chiave”, finché non trovano una maggioranza per nominare il nuovo pontefice. Cosa succeda dietro le quinte nessuno lo sa, ma questo film, tratto dall'omonimo romanzo di Robert Harris, ce lo mostra con dovizia di particolari e una buona dose di verosimiglianza: rivalità insanabili, punti di vista diametralmente opposti, intrighi, vendette, tradimenti, ricatti: ogni manovra immaginabile per screditare gli avversari, in un vero nido di vipere. A dirigere le operazioni il Decano britannico Thomas Lawrence (Ralph Fiennes), che deve garantire che tutto si svolga secondo le regole mediando, per quanto può, tra i possibili candidati-rivali, principalmente Aldo Bellini (Stanley Tucci, secondo me il migliore assieme a Fiennes), progressista, il reazionario Goffredo Tedesco e paladino degli "italiani" (Sergio Castellitto, un po' troppo sopra le righe), l'africano Adeneya, lo statunitense Tremblay (Lithgow) e l'outsider messicano Benitez, ordinato in pectore (ossia in segreto) dal Papa, per proteggerlo dopo aver operato in zone di guerra come il Congo e l'Afghanistan, e attualmente cardinale di Kabul, ammesso in extremis al conclave dopo averne faticosamente verificato le credenziali. Tra i candidati anche lo stesso Lawrence, benché confessi a Bellini di essere sul punto di dimettersi da cardinale perché la sua fede vacilla, il quale per il ruolo che ricopre è al corrente di quasi tutti i segreti degli altri "concorrenti" e quelli che non conosce, nefandezze comprese, li scoprirà, appunto, durante il conclave, durante il quale, anche fisicamente, il mondo esterno penetrerà comunque e farà sentire la sua presenza dall'esterno, ma non starò qui a rivelare come, così come l'intreccio che vede coinvolta anche suor Irene (Isabella Rossellini, assolutamente in parte), alle prese con l'accudimento di questo universo maschile abituato a farsi servire. Il tutto si svolge nei giorni in cui avvengono le votazioni nella Cappella Sistina, ricostruita alla perfezione, e soprattutto durante le lunghe e operose notti di trattative, crisi e rivelazioni sconvolgenti nella residenza forzata dei cardinali elettori, fino alla "fumata bianca". Una sorpresa via l'altra, su tutte l'ultima, che le batte tutte: perché se è abbastanza facile prevedere chi l'avrà vinta, colui che ne uscirà col nome di Innocenzo, ciò che è imprevedibile è il motivo di fondo della sua elezione, l'esito di un ragionamento filosofico-teologico degno della mente di un raffinato gesuita. Insomma, un giallo ricco di suspense e ben congegnato: il fatto che a dirigerlo sia un regista austriaco e che europei siano la buona parte degli interpreti evita che deragli in una classica "americanata", anche se alcuni ruoli, quello di Tedesco, l'italiano anti-islamista e quello dell'africano, finiscano per risultare macchiettistici e stereotipati, senza che ne abbiano colpa gli attori. Nel complesso un film coinvolgente e divertente, che vale il prezzo del biglietto e una visione sul grande schermo. 

martedì 14 gennaio 2025

Le occasioni dell'amore

"Le occasioni dell'amore" (Hors Saison) di Stéphane Brizé. Con Guillaume Canet, Alba Rohrwacher, Marie Drucker, Sharif Andoura, Emmy Baussard Paumelle, Lucelle Beudin, Hugo Dillon e altri. Francia 2023 ★★★★

Film estremamente francese, se vogliamo un mélo molto raffinato, un po' fuori dal tempo (in originale il titolo originale suona come "fuori stagione": è inverno in una piccola località termale in Bretagna, sull'Oceano, dove si svolge la vicenda), per una volta la titolazione nostrana è più coerente con l'intreccio, di per sé molto semplice. Mathieu, parigino, cinquantenne attore di cinema di grande successo si rifugia in un asettico albergo con spa e annessi per rilassarsi e cercare di ritrovare sé stesso dopo aver abbandonato la compagnia poco prima del suo debutto a teatro: una sfida con sé stesso a cui ha rinunciato all'ultimo momento non sentendosi all'altezza. Per puro caso, o forse no, lì vive Alice, sua compagna una quindicina di anni prima, in "un'altra vita", nella capitale: dopo aver preso strade diverse lei, italiana e promettente pianista e compositrice, si è rifugiata lì, formando famiglia e scegliendo di fare una vita tranquilla (insegna pianoforte ai ragazzini) invece di coltivare le proprie ambizioni, a cui a sua volta si sente inadeguata. Il motivo vero della loro rottura, ossia il desiderio di affermarsi professionalmente e socialmente di Mathieu che cozza contro l'insicurezza e la scarsa determinazione carrieristica di lei, emergono durante i loro incontri, prima imbarazzati e poi sempre più intensi: poche parole ma piuttosto pregnanti, che significano una ripresa di contatto con sé stessi e con quello che erano per entrambi, più che una "resa dei conti", anche se emergono, almeno in parte e all'inizio, delle piccole recriminazioni soprattutto da parte di Alice. Non è un film consolatorio e dal lieto fine all'americana anche se i due finiscono a letto insieme, per un'unica e ultima volta, ma di riflessione, anche in questo caso, sulle relazioni personali e su come la vita reale, il lavoro dell'attore, peraltro sposato con una stella del giornalismo televisivo, una donna volitiva e sbrigativa per Mathieu; l'esistenza ritirata e fatta di piccole cose, come l'amicizia di Alice con una signora anziana che vive in una casa di riposo e che dopo la morte del marito sposato perché "così ai miei tempi si faceva" si innamora di una sua compagna di "degenza", per la timida insegnante di pianoforte. Fiim diviso abbastanza nettamente in due parti: nella prima il protagonista è quasi soltanto Mathieu che, arrivato per "staccare la spina" e rimettersi in sesto, si trova alle prese con gente che lo riconosce e lo assilla per dei selfie, telefonate con il regista bidonato e con la moglie che non lo sta ad ascoltare per davvero, infine alle prese con le diavolerie meccaniche in un albergo dove tutto è automatizzato e lui immensamente solo; nella seconda parte lo schermo è sempre più occupat dalla presenza di Alice, Alba Rohrwacher in splendida forma e perfettamente nella parte, come del resto il bravissimo Guillaume Canet. Due persone adulte che hanno percorso strade diverse, le quali più che rivedere il loro rapporto di un tempo, ritrovano un equilibrio e un'intimità e confidenza profonda proprio nel momento in cui entrambi riflettono e prendono coscienza del percorso fatto da entrambi, frutto delle loro scelte, inevitabili, di quindici anni prima e questo loro incontro non è un revival o la ripresa di una storia ormai passata, e un po' malinconicamente rievocata (però senza alcuna melensaggine da parte di Brizé) ma, forse, la riconnessione con sé stessi, e questo vale per tutt'e due. Film elegante, dove non mancano tratti di sottile ironia, formalmente ineccepibile, una gran bella fotografia e una colonna sonora davvero notevole, curata da Vincent Delerm: una certa lentezza alla fine non guasta, perché serve a far sedimentare le sensazioni dello spettatore e a osservare con attenzione i dettagli. Brizé non delude mai.