venerdì 8 agosto 2025

Una sconosciuta a Tunisi

"Una sconosciuta a Tunisi" (Aïcha) di Mehdi Bersaoui. Con Fatma Sfarr, Nidhal Saadi, Yassmine Dimassi, Hela Ayed, Mohamid Ali Ben Jemaa, Ala Benhamad, Saoussen Maalej e altri. Francia, Tunisia, Italia, Qatar 2024 ★★★★

Il secondo lungometraggio di Mehdi Bersaoui ha ampiamente mantenuto tutte le aspettative che avevo, memore del notevole film d'esordio del regista tunisino, Un figlio,  presentato pure esso e premiato a suo tempo alla Mostra del Cinema di Venezia del 2019: mentre quello era un dramma famigliare che si svolgeva sullo sfondo della Rivoluzione dei Gelsomini del 2011 in Tunisia, questo si ispira a un fatto di cronaca avvenuto in seguito a quella rivolta, in un Paese sì pacificato e liberato dalla dittatura ma pur sempre in preda di profonde contraddizioni, fra tradizione e presente, città e campagna, emancipazione femminile e retaggi maschilisti: in più, dopo anni di oppressione, difficile fidarsi di uno Stato inefficiente, in questo caso rappresentato dalla polizia. Mehdi Bersaoui si affida alla vena di Fatma Sfarr, nella sua metamorfosi da Aya ad Amira infine ad Aïsha, adeguandosi alla trasformazione sia fisica sia psicologica di una giovane donna. Quasi trentenne, Aya vive a Tozeur, nel Sud del Paese, mantenendo dai suoi 14 anni i genitori col suo lavoro di cameriera in un resort di lusso dove si reca quotidianamente a bordo di un minivan assieme ad altri impiegati dell'albergo. Fallito e muto il padre, la madre vorrebbe imporle un matrimonio combinato con un anziano abbiente al solo scopo di ricevere ancora più soldi, vantaggi e, magari, prestigio sociale. Come se non bastasse Aya, che oltre a non aver potuto proseguire negli studi, come avrebbe desiderato, non ha mai nemmeno visto il mare, ha una relazione tossica col direttore dell'albergo, che da anni le promette di lasciare la moglie per cominciare una nuova vita insieme ma ovviamente svicola. Un giorno il pullmino sul quale compie il suo tragitto quotidiano ha un incidente e precipita in un burrone: Aya, l'unica sopravvissuta, riesce a uscire dalle lamiere prima che bruci dopo l'esplosione del serbatoio e, sapendo che l'autista aveva preso a bordo un'ulteriore passeggera non compresa nella lista, coglie al balzo l'occasione perché il corpo della sconosciuto risulterà il suo, e lei sarà libera. Recupera quindi di nascosto del denaro nascosto dal suo amante in una cassaforte dell'albergo e con quello va a Tunisi, dove assume l'identità di Amira, prenderà in affitto senza documenti e sulla parola una stanza nell'appartamento di una studentessa, Lobna, che la introduce nella sfavillante vita notturna della capitale, che inizia a frequentare assieme a una coppia di amici, di cui uno, Rafik, un traffichino "intoccabile", si rende corresponsabile della morte di un ragazzo, Karim, con cui Amira aveva soltanto scambiato qualche sguardo in discoteca. La ragazza, priva di documenti, viene costretta da Rafik a rendere falsa testimonianza (nel pestaggio di Karim c'entrano anche due poliziotti che lavoravano in nero come buttafuori nel locale), così il caso viene derubricato a "incidente" e quindi insabbiato, anche per volere della commissaria responsabile dell'indagine. A non starci, però, è l'ispettore Fares, entrato in polizia proprio perché anni prima il fratello era deceduto in circostanze simili, mai chiarite. Il caso monta per iniziativa di parenti e amici della vittima, anche per la diffusione di notizie in rete, Amira/Aya va in crisi, molla la stanza e la amica, nel frattempo sono spariti pure i suoi soldi, e si rifugia presso la panettiera del quartiere in cui vive che diventa una sorta di madre e amica che non ha mai avuto. Una falla del sistema informatico la dà ancora in vita come Aya, ma sarà Fares a fornirle un'ulteriore, e stavolta sicura nuova identità in cambio della sconfessione della sua iniziale falsa testimonianza, assieme a un certificato di morte di Aya (in virtù del quale i genitori avranno un adeguato risarcimento con cui potranno pagare i propri debiti e l'avida madre avere soddisfazione), cosicché la ragazza, finalmente libera da legami, ricatti e catene, potrà davvero iniziare una nuova e consapevole esistenza come Aïcha. Come accennato i livelli del racconto sono diversi e, così come avviene la metamorfosi della protagonista. il film passa dalla commedia drammatica, al poliziesco, al film di denuncia ma anche e soprattutto di documentazione credibile dei contrasti di un Paese complesso e in evoluzione così come i suoi abitanti, Paese peraltro molto vicino e che con l'Italia ha legami stretti da millenni. Sicura la mano del regista, fotografia degna di nota, colonna sonora azzeccata, Fatma Sfarr magnifica ma bravi anche gli altri interpreti, specie quelle femminili, di personaggi non sempre positivi, come la madre di Aya/Aïcha, la commissaria, la convivente e "mezzana" Lobna. Gran bel film.

martedì 29 luglio 2025

100 litri di birra

"100 litri di birra" (100 litraa sahtia) di Teemu Nikki. Con Pirjo Lonka, Elina Knihtilä, Ville Tiihonen, Ria Kataja, Jakob Öhrman, Pekka Strang, Elmer Bäck, Jari Pekkonen, Pertti Sveholm, Vilma Melasniemi, Rami Rusinen e altri. Finlandia, Italia 2024 ★★★1/2

Una conferma per Teemu Nikki dopo il successo di La morte è un problema dei vivi, uscito lo scorso anno, pure in quel caso una produzione italo-finnica: se lì la coppia protagonista era quella di due stralunati becchini, qui sono due energiche sorelle sulla cinquantina che convivono una "nonostante" l'altra, in un insano rapporto simbiotico (la cui portata verrà rivelata sul finale del film), portando avanti la tradizione di famiglia, ossia la produzione di sahti, un tipo particolare di birra, con un processo artigianale che si tramanda da secoli, con l'obiettivo di ottenere la votazione massima, il 10, da parte del padre, sommelier e autorità massima nel paese sperso nella campagna finlandese in cui si svolge la vicenda. Tra un assaggio e l'altro, risse, alterchi coi clienti, abbondanti libagioni in coppia o di gruppo di cui non hanno alcun ricordo il giorno dopo, doposbronze catastrofici, Taina e Pirrko (rispettivamente Pirjo Lonka e Elina Knihtilä, una più dirompente dell'altra) si ritrovano con la cantina desolatamente vuota nell'imminenza del matrimonio della terza sorella, Päivi, trasferitasi a Helsinki dopo un incidente automobilistico (ovviamente conseguenza di una delle colossali bevute di tutti i trasportati) la cui responsabilità era caduta su Taina, cerimonia che si svolgerà nella cittadina natale e per il quale ha chiesto come regalo la produzione di 100 litri del prezioso nettare. La missione risulta pressoché impossibile, considerata sia l'inestinguibile sete e il conseguente costante stato di alterazione delle due sorelle e del loro stralunato aiutante Hauki, sia l'odio nei confronti del principale produttore rivale, l'unico che avrebbe a disposizione un quantitativo adeguato da vendere. Così, dopo aver vanamente cercato di recuperare i crediti coi vari clienti in maniera assai poco urbana, non rimane loro che provare di rubare del sahti in una delle feste che si svolgono in quei mesi estivi nel borgo: quella di laurea di una ragazza e un matrimonio, il tutto con esiti disastrosi, perché il maltolto finisce in fondo al lago e Pirrko finirà pure ricoverata in ospedale ferita e in coma etilico. E' a questo punto che, dopo 30 anni, si sciolgono i nodi del rapporto della strana coppia, e Taina scoprirà di averli vissuti in un costante senso di colpa alimentato proprio da Pirrko, che ha affogato nell'alcol le sue responsabilità nella menomazione di cui è stata vittima Päivi, fagocitando la sorella più debole. Nonostante tutto recupereranno il loro dono di matrimonio acquistando il sahti proprio dall'avversario storico (nonché cugino) e cedendogli pure l'attrezzatura in loro possesso da generazioni grazie alla quale riuscivano a ottenere risultati così spettacolari. Una storia dolce-amara, grottesca e spumeggiante quanto può esserlo una commedia scandinava, ma con quel tocco di follia tipicamente finlandese che caratterizza i film di Teemu Nikki e che ha il suo impareggiabile maestro in Ari Kaurisimäki, e che la rende gradevole in una calda serata estiva anche per il desolante stato della programmazione in sala di questa stagione estiva. 

giovedì 24 luglio 2025

El Jockey

"El Jockey" di Luis Ortega. Con Nahuel Pérez Biscayart, Úrsula Corberó, Mariana di Girolamo, Daniel Fanego, Daniel Giménez Cacho, Roberto Carnaghi e altri. Argentina, Spagna, Danimarca, Messico 2024 ★★★★1/2

Presentato in concorso all'ultima edizione del Festival di Venezia, El Jockey, pluripremiato in America Latina, non era passato inosservato ma non aveva entusiasmato i critici di mestiere, quelli che pascolano nel milieu cinematografaro, per cui è già un miracolo che sia stato distribuito in Italia, non a caso dalla Lucky Red di Andrea Occhipinti, grazie alla cui apertura mentale appaiono sui nostri schermi anche film poco convenzionali come questo. Disdicevole, poi, come ho già avuto più volte modo di far notare, è la scarsa attenzione al cinema del Continente Desaparecido, a cominciare da quello brasiliano e cileno, ma soprattutto argentino, benché almeno la metà della popolazione sia di origine italiana e perfino il castigliano parlato a quelle latitudini sia talmente italianizzato, tanto per il vocabolario quanto per la cadenza, da essere facilmente comprensibile anche senza l'ausilio dei sottotitoli (che comunque sono previsti nell'edizione originale che circola da noi da alcune settimane). Cinematografie di Paesi e realtà che ci sono molto più vicine e familiari di altre che ci vengono proposte e spesso imposte a profusione, a cominciare da quelle nordamericane o scandinave. Tornando a bomba, Remo Manfredini (Nahuel Pérez Byscayart, un Buster Keaton del Terzo Millennio, di una bravura strabiliante) è un fantino dal talento inarrivabile, che assieme alla fidanza Abril (Úrsula Corberó, universalmente nota come l'interprete di Tokyo ne La casa di carta) lavora per il Clan Sirena, ma è dipendente da alcol e da qualsiasi additivo chimico gli capiti a tiro, con risultati disastrosi per la carriera. Quando non è in condizione di montare, lo fa Abril al posto suo, pur essendone incinta, ma nella gara più importante della sua carriera, e dopo l'acquisto milionario (in dollari) di un cavallo giapponese da parte dei suoi capi, gli tocca correre di persona per saldare i debiti che ha accumulato coi suoi datori di lavoro. Pur essendo tenuto strettamente sotto controllo dagli scagnozzi del boss (tutte facce stupendamente inquietanti, pescate probabilmente nei bassifondi di Buenos Aires, e straordinariamente vere) riesce a bombarsi in maniera tale da tirare dritto sull'ovale del famoso Hípodromo Argentino de Palermo della capitale, sfondandone le transenne, accoppando il cavallo e fracassandosi completamente. Da lì in poi il Clan Sirena gli darà la caccia per fargli la pelle. Traumatizzato e con probabili lesioni al cervello, lo ritroviamo in ospedale con una fasciatura a turbante che gli dà un aspetto femminile: messo sull'allerta da Abril, raccatta una pelliccia lasciata su una sedia e una borsetta e si avventura per le strade di Buenos Aires senza una meta precisa, ma in fuga. Non solo dai Sirena, ma anche dalla sua vita e identità precedente, insomma da sé stesso, senza nemmeno rendersene conto. Perché, come già l'aveva avvertito Abril, cambiare registro si può, ma "ammazzando" l'io precedente. Lo aiuta un vagabondo alcolizzato che incontra in un sordido bar de barrio, e che poi raggiunge nel suo tugurio pur non sapendone l'indirizzo, e che si dimostra il suo unico e vero amico disinteressato e gli consente di difendersi dai Sirena procurandogli una rivoltella. Di cui Manfredini farà buon uso, ma finendo in un ospedale psichiatrico, dove lo ritroviamo ormai completamente femminilizzato, in permanente, sobriamente truccato, che di mestiere ora fa la parrucchiera. Del tutto surreale, a tratti picaresco, ironico e grottesco (i riferimenti a Almodóvar, Jodorowski e soprattutto Kaurisimäki sono evidenti), il film è però tipicamente argentino, i rock "leningradesi" del maestro finlandese sono sostituiti dai tango canción di Gardel, di cui proprio quest'anno ricorrono i 100 anni dalla scomparsa (nonostante ciò, nella considerazione dei porteños, El Troesma "cada día canta mejor"), ma anche da ritmi house parossistici sui quali la coppia Remo/Abril si esibisce con movenze disarticolate ed esilaranti. Potrebbe sembrare un film che ammicca al transgender, ma se lo fa è solo marginalmente, perché il tema vero è l'identità. E per quanto uno possa cercare la propria essenza e cercare di sfuggire agli schemi in cui è costretto dalle circostanze (famiglia, società, il coro stesso), ostaggio di convenzioni o regole rimarrà comunque un individuo, se va bene, in libertà vigilata. E sotto stretta sorveglianza. 96', conciso, timing perfetto, divertente, suggestivo ed evocativo. Io poi ci ho ritrovato un mondo e un ambiente umano che conosco abbastanza bene: un tuffo nel passato che per una volta non mi ha riempito soltanto di malinconia, perché è una realtà che ha una sua vitalità, nonostante tutto. Di Luis Ortega era già uscito, 6 anni fa, L'angelo del crimine, che non mi aveva del tutto convinto, con El Jockey ha fatto dei grandi passi in avanti. Spero di averne presto la riprova.

domenica 20 luglio 2025

Il Maestro e Margherita

"Il Maestro e Margherita" (Master i Margareta) di Michael Locksin. Con Evgheniy Tsyiganov, Yuliya Snigir, August Diehl, Claes Bang, Yuri Kolokolnikov, Polina Aug, Leonid Yarmolnik (II), Aleksandr Yatsenko, Aleksey Rozin, Aaron Vodovoz, Aleksei Guzov e altri. Russia 2024 ★★★★+

Il capolavoro di Michail Bulgakov è tra i miei tre libri preferiti in assoluto, letto e riletto, e ogni volta ne scopro un aspetto diverso e sorprendente. Romanzo al cui flusso ci si deve abbandonare, lo si può "filtrare" a diversi livelli: filosofico, melodrammatico, religioso, politico, ma quasi sempre, quando fa comodo, lo si intende come una denuncia contro la censura. Quella staliniana, visto che fu scritto e ambientato nell'URSS degli anni Trenta, quelli della edificazione dello Stato rivoluzionario (e della sua cristallizzazione in regime) nonché della cappa repressiva instaurata dal dittatore georgiano. Che, per quanto spietato, ammirava Bulgakov e, se non gli consentì di pubblicare il romanzo, certamente non infierì su di lui come su altri elementi che ci lasciarono le penne. Per quanto consapevole che un libro così complesso e stratificato sia impossibile da rendere in maniera in qualche modo fedele (ho vaghi ricordi di una versione italo-iugoslava del 1972 con Ugo Tognazzi e Mimsy Farmer, piuttosto piatto deludente), sono andato a vederlo nella versione di Michael Locksin, regista e autore statunitense di nascita ma di famiglia russa e pure cittadino russo (vive a Mosca), così come russo è il resto del cast, salvo il tedesco Diehl nel ruolo di Woland (il diavolo), dalla impressionante somiglianza con Christopher Walken con la metà dei suoi anni e altrettanto bravo. A maggior ragione perché la produzione è russa, e che sia in circolazione in Italia è un miracolo visto il clima di censura (a proposito...) nei confronti di qualsiasi espressione culturale e non provenga da quel diffamato Paese a partire dal 2022, ossia dall'inizio del conflitto con l'Ucraina. Tra l'altro in patria il film ha ottenuto un grande successo di pubblico, molto meno da parte della critica più allineata alle posizioni governative. E questa volta il risultato mi ha convinto, perché a mio parere il regista è stato in grado di trasporre in maniera efficace una sintesi delle diverse sfaccettature del romanzo, o almeno di come lo ha percepito lui, rinunciando ovviamente alla pretesa di farne un racconto cronologicamente lineare (cosa che non è nemmeno nel libro), intrecciando anche visivamente l'elemento fiction (ma realistico), ossia le vicende dell'autore (il Maestro, il bravissimo Evgheniy Tsyiganov) di una pièce teatrale incentrata sull'incontro fra Ponzio Pilato e Gesù Cristo, censurata e lui espulso dalla Società degli Scrittori Sovietici, la sua palpitante e delicata storia d'amore con Margherita, la dolce e intensa Yuliya Snigir, ispiratrice di un altro romanzo che diventa il filo conduttore del film, con quello fantastico, ossia l'incontro con Woland, i suoi due bizzarri aiutanti e il gatto Behemot, che completa la corte al servizio del diavolo in visita nella Mosca dei miscredenti. Internato in una  clinica psichiatrica dopo essere stato denunciato da un collega e amico (che ne occuperà anche la pittoresca abitazione sull'Arbat prima che venisse sventrata), il Maestro continuerà a scrivere il suo nuovo romanzo con la complicità di un'infermiera e le vicende della sua gestazione le apprenderemo dalle sue conversazioni con altri internati, in buona parte intellettuali, tra un "trattamento" ad alto voltaggio e un altro. Ma ci penserà Woland a riunire il Maestro e Margherita per l'eternità prima consentendo a lei, trasformata in una strega invisibile, che cavalca una scopa nei cieli notturni di Mosca, di vendicarsi dei persecutori del suo amato (più ancora della censura, nel mirino di Bulgakov, come credo anche oggetto delle attenzioni del regista, ci sono i leccaculo e i servi di regime), poi mandando per aria lui stesso la capitale del nuovo impero radendo al suolo le orride costruzioni che lo vogliono celebrare (magari fosse vero!). Al di là dell'esito della trasposizione del romanzo sullo schermo, secondo me pienamente riuscita nell'unico modo possibile, ossia filtrando quanto assorbito dall'autore e regista e tradotto in racconto cinemetografico, le due ore e mezzo abbondanti della pellicola scorrono via velocemente, senza intoppi, tra il verosimile e il fantastico, con una fotografia che sottolinea il lato immaginario, metaforico e a tratti beffardo del tutto. Bravi e bene assemblati tutti gli interpreti, complimenti a Locksin, un film che vale la pena vedere.

venerdì 6 giugno 2025

Fuori

"Fuori" di Mario Martone. Con Valeria Golino, Matilda De Angelis, Elodie, Corrado Fortuna, Antonio Gerardi, Stefano Dionisi e altri. Italia 2025 ★★★★+

Mario Martone e la letteratura, sia in ambito cinematografico, sia in quello teatrale, sono un binomio ineludibile, tante sono le trasposizioni di opere fondamentali di quella italiana come anche il racconto della vita di alcuni suoi protagonisti: questa è la volta di Goliarda Sapienza, un personaggio controverso che dal mondo culturale italiano, e romano in particolare, era stata prima mal sopportata e poi respinta. Il suo romanzo L'arte della gioia (10 anni di stesura, dal '67 al '76) era stato pubblicato postumo nel 1998 a cura del marito Angelo Pellegrino per Stampa Alternativa e passato pressoché inosservato, salvo essere ripubblicato da Einaudi 10 anni dopo, in seguito all'enorme successo avuto in Germania e in Francia a partire dal 2005, rivelando uno dei maggiori talenti letterari italiani del secolo scorso. Senza seguire un percorso lineare, con frequenti flashback, il film accenna soltanto alle vicissitudini professionali della scrittrice, una volta uscita dal carcere di Rebibbia in seguito al furto e alla vendita di alcuni gioielli rubati a un'amica del giro altolocato: siamo a Roma nell'estate del 1980, epoca di strascichi dei cosiddetti "anni di piombo". Minacciata di sfratto, emarginata dall'ambiente, si arrangia correggendo bozze e con qualche collaborazione giornalistica: si accontenterebbe anche di un lavoro qualsiasi, pure come domestica o in cucina, ma viaggiando verso i 60 anni nessuno la prende in considerazione. Spaesata, il conforto lo cerca frequentando due ex compagne di prigionia: Roberta (Matilda De Angelis, sempre più brava), anima inquieta, già coinvolta nella lotta armata e, sconfitta, caduta nell'eroina; l'altra, Barbara (la cantante Elodie, forse ancor più convincente come attrice), incarcerata per complicità con un malvivente. Perché per Goliarda, paradossalmente, l'esperienza carceraria è stata liberatoria, un momento della sua vita in cui è riuscita a essere autenticamente sé stessa. Intuendo che, all'interno della più tipica delle istituzioni totali, un essere umano, pur soggetto alla massima costrizione possibile e immerso in una sorta di bolla senza tempo e senza prospettive se non la sopravvivenza immediata, rivela la sua essenza senza più essere vincolato dalle regole e dalle  convenzioni che hanno determinato la sua esistenza "fuori": i rapporti tra chi sta "dentro" seguono regole diverse e non sono certo idilliaci, ma almeno non sono filtrati da schermi e difese, che riemergono, semmai, quando si frequentano, appunto, fuori dalle mura del carcere, nella cosiddetta libertà (comunque condizionata dalle convenzioni e dalla necessità di aderire a un ruolo). Goliarda (interpretata da una Valeria Golino che migliora con gli anni, in questo caso interprete perfetta sia per l'età, sia perché, in qualità di regista della miniserie L'arte della gioia, in onda su SKY, col personaggio della scrittrice siciliana ha abbondante confidenza) la libertà l'ha trovata a Rebibbia, un mondo ingabbiato per definizione, fisicamente, dove però le relazioni viaggiano sull'onda dell'essenzialità, del vero; mentre le vere sbarre, i muri, li  ritrova, per l'appunto fuori, e questo accade pure per le sue due compagne, specialmente Roberta. La pellicola di Martone, nei suoi avanti-e-indietro spazio-temporali tra queste due realtà speculari e opposte, e le bravissime interpreti a cui affida i suoi contraddittori ed emblematici personaggi, non sbava mai, coinvolge lo spettatore, riesce a esprimere una realtà che è difficile, se non impossibile, far capire a chi non ne ha avuto in qualche modo esperienza diretta, a meno di non mettere in dubbio le proprie aprioristiche certezze. Lo fa senza dare pugni nello stomaco, dolcemente e induttivamente, coinvolgendo lo spettatore. Decisamente uno dei suoi migliori lavori finora. 

domenica 1 giugno 2025

Epitaffio



Le partite, soprattutto le finali, si vincono e si perdono.

Ma si giocano.

Noi, stavolta, no.

Punto e a capo.

E grazie un cazzo.

martedì 27 maggio 2025

Il Mohicano

"Il Mohicano" (Le Mohican) di Frédéric Farrucci. Con Alexis Manenti, Mara Taquin, Theo Frimigacci, Paul Garatte, Marie-Pierre Nouveau, Michel Ferracci, Jean Michelangeli, Dominique Colombani, Didier Ferrari, Daniel Di Grazia, Flavio Dominici e altri. Francia 2024 ★★★★

Titolo da western per un dramma/noir che di fatto è un film dall'intento fortemente politico e di denuncia, ambientato in un'assolata Corsica, scritto e diretto da un còrso e interpretato prevalentemente da còrsi in lingua còrsa, e talvolta in un ibrido franco-italiano. Joseph è uno degli ultimi pastori a praticare l'allevamento di capre in un terreno in prossimità della costa e che le fa pascolare in riva al mare: l'appezzamento su cui si trova il suo ovile fa però gola agli immobiliaristi venuti da fuori che hanno in programma l'ennesima speculazione edilizia in favore del turismo cannibale che da decenni ormai imperversa sull'isola. A dar loro manforte è la mafia locale, che manda un suo emissario a convincere Joseph a vendere la sua proprietà: tutti i suoi vicini lo hanno già fatto, in cambio somme di denaro "a cui non si può rinunciare"; lui invece rifiuta la "generosa offerta" e finisce male, perché lo scagnozzo è entrato in casa sua armato e il pastore gli spara, uccidendolo. Un caso esemplare di legittima difesa, ma Joseph fugge, perché i malavitosi, in combutta con gli speculatori e, si fa capire, anche con la polizia, sono sulle sue tracce e lo vogliono vivo, perché quel che occorre è la sua firma, unico modo perché il trapasso di proprietà avvenga con tutti i crismi della legalità (formale). Un suo zio, solidale con lui, gli organizza un passaggio in Sardegna ma rimane a sua volta ucciso dai mafiosi e così Joseph continua la sua latitanza con la copertura e l'aiuto di buona parte della popolazione e, nel frattempo, la sua fama cresce e, grazie all'iniziativa di Vannina, una nipote che vive a Parigi e sta trascorrendo le vacanze sulla sua isola d'origine, che si è messa a diffondere le sue gesta e la sua versione dei fatti attraverso un utilizzo puntuale dei moderni mezzi di comunicazione sociale, sta trasformando le sue peripezie in una sorta di leggenda e il pastore diventa un eroe locale, simbolo sia dell'insofferenza contro l'invasione della Corsica da parte di speculatori senza scrupoli venuti dal continente e che favoriscono un turismo strafottente e volgare, sia di un mai sopito spirito indipendentista che sa sempre anima buona parte della popolazione, che spesso si è trasformato in episodi di vera e propria rivolta. Joseph diventa così il Mohicano, anzi: l'ultimo dei Mohicani, celebrato anche con una canzone scritta per lui e che spopola nei locali frequentati dagli indigeni, diventando un vero e proprio inno mentre la sua immagine stilizzata compare in ogni parte sui massi che costeggiano le suggestive strade di quest'isola selvaggia e orgogliosamente gelosa della propria identità. Non rivelo naturalmente il finale della storia, ma si esce dalla sala con la sensazione che, in qualche modo, una certa giustizia di fondo è fatta anche se la lotta contro lo scempio dei territori è pressoché impossibile da  vincere, considerata la coalizione di forze che lo sostengono per il proprio tornaconto e la protezione che godono da parte del potere politico, ma non lo è la presa di coscienza di chi vi si oppone. Film asciutto, essenziale, senza fronzoli, sentito e autentico: piace per questo e merita di essere visto. 

mercoledì 21 maggio 2025

Reinas

"Reinas" di Klaudia Reynicke. Con Abril Gjurinović, Luana Vega, Jimena Lindo, Gonzalo Molina, Susi Sánchez. Svizzera, Denise Arregui, Tatiana Astengo, Fabrizio Aguilar Boschetti e altri. Perú, Svizzera 2024 ★★★★

Mentre in Italia si levano alti lai, per carità, giustificati, da parte di registi, attori, maestranze sullo stato penoso del cinema italiano, privo di sostegno pubblico e nel totale disinteresse del governo (perché stupirsi?), è un peccato che non venga meglio distribuito e valorizzato quello latino-americano, capace di produzioni pregevoli pur potendo contare su finanziamenti modesti, che ci è culturalmente sicuramente più affine di quello statunitense. Dopo il bellissimo e commovente Io sono ancora qui di Walter Selles, ecco Klaudia Reynecke, regista svizzero-peruviana che ci riporta nel clima rovente del Paese andino negli anni Novanta, col governo Fujimori alle prese con la lotta armata di Sendero Luminoso, di fatto una guerra civile durata un paio di decenni ed entrata nella fase decisiva, con una storia minima, famigliare, che comunque è condizionata dagli eventi esterni alle mura di casa. In quella situazione di tensione e incertezza continua, Elena (Jimena Lindo), due figlie, separata, che ha un buon impiego in un'agenzia di viaggi, ha ricevuto un'offerta di lavoro dal Minnesota, nei tanto agognati USA, e le manca solo la firma del marito Carlos (Gonzalo Molina), da cui vive separata e che ormai latita da anni, per partire assieme alle due ragazze: Aurora, adolescente, e Lucia, più piccola, molto unite e complici a differenza dei genitori: Reinas, il nomignolo con cui le vezzeggia il genitore fuggitivo. Ed ecco che ricompare, Carlos, che vive di espedienti (al momento tassista abusivo a bordo di un'auto sgangherata e che fa piccoli traffici, spesso baratti, in un Paese in crisi anche economica) e se la racconta, facendo il simpatico: porta al mare le ragazze spacciandosi per un agente dei servizi riservati, fa il simpatico cercando di riconquistarne l'affetto dopo averle, di fatto, abbandonate e, quanto alla firma per permetterne l'espatrio, tergiversa. Una vicenda famigliare in esterni (sulle spiagge della capitale, eternamente immersa nella garúa, la foschia spesso tossica che grava su Lima) quando le ragazze sono in giro scarrozzate da Carlos, e in interni quando si trovsno nella casa dove vivono con la nonna e la madre, a Miraflores, il quartiere residenziale e "bianco" (così come Colonia Roma di Città di Messico, che dà il titolo al film con cui Alfonso Cuarón vinse, per una volta meritatamente, il Leone d'Oro nel 2018, con cui Reinas ha non poche affinità pur non raggiungendone la raffinatezza estetica), con contorno di zii, amici (ispanici) e domestici (non a caso tutti meticci o andini): una realtà che le ragazze non vorrebbero lasciare. Quando, tra un black out elettrico e una continua battaglia contro il tempo a causa del vigente coprifuoco, alla fine Carlos acconsentirà a firmare l'assenso per l'espatrio, pur col dispiacere del distacco e forse il rimpianto per averle trascurate prima, dirà che comunque hanno il privilegio della libertà scelta, ossia di lasciare un Paese in disfacimento e in una crisi forse irreversibile: una libertà che di fatto riguarda soltanto quel 15% di popolazione criolla e bianca che di fatto comanda da sempre in Perú. Un film dunque che racconta una storia privata inserendola, senza farla fagocitare, in un contesto storico più grande, dove la forza sta nella rendere le sfumature delle relazioni interpersonali tra persone che hanno età, visioni e aspettative di vita diverse rispettandone i rispettivi punti di vista. e la cosa riesce grazie all'eccellente interpretazione di tutto il cast, a cominciare da quelli nominati sopra oltre a Gimena Sánchez nella parte della borghesissima nonna e suocera di Carlos. Film come questo andrebbero valorizzati meglio.

giovedì 15 maggio 2025

Black Bag (Doppio Gioco)

"Black Bag (Doppio Gioco)" (Black Bag) di Steven Soderbergh. Con Cate Blanchett, Michael Fassbender, Marisa Abela, Tom Burque, Naomie Harris, Regé-Jean Page, Gustaf Skarsgård, Ambika Mod, Pierce Brosnan e altri. USA 2025 ★★★★+

In una stagione cinematograficamente deludente e arida, Steven Soderbergh è comunque una garanzia, e non si smentisce con questo film apparentemente di spionaggio, che in realtà è, ma non solo, una commedia, frutto di una commistione di generi a cui il regista statunitense ci ha abituato fin dagli esordi, riuscendo sempre a coniugarli con risultati in grado di soddisfare il palato di ogni tipo di spettatore, anche i più esigenti, in nome dell'intrattenimento intelligente. Qui la spy story, non a caso ambientata a Londra, in omaggio tanto ad Alfred Hitchcock quanto alla saga di 007 (vedi anche il cameo di Pierce Brosnan) è un pretesto per indagare sul potere della menzogna e sull'amore coniugale (o di coppia in generale) e sulla fedeltà (alla patria, o ideale), il tutto in tempi in cui domina il dibattito su fake news e IA: il mondo dello spionaggio ne è lo specchio ideale, e qui abbiamo un gioco di tre coppie, tutte appartenenti a quell'ambiente, e a George Woodehouse (un glaciale Michael Fassbender che ricorda in maniera impressionante Michael Caine nei panni dell'indimenticabile Harry Palmer della serie iniziata con Ipcress), alto funzionario dei servizi segreti britannici, tocca scoprire chi tra loro è la "talpa" che ha venduto, e a che scopo, Severus, nome in codice di un software riservatissimo. Tra i cinque "papabili", però, c'è anche sua moglie Kathryn (una Cate Banchet in forma smagliante), che caratterialmente è il suo opposto (sempre a proposito di gioco degli specchi); gli altri sono Clarissa, l'esperta nello studio delle immagini da satellite; Freddy, suo partner nonché superiore; Joe, la psichiatra del servizio segreto e il suo partner James, agente pure lui. George, col pretesto di una cena, li riunisce e, per renderli più loquaci, aggiunge al cibo una sostanza che li rende più loquaci e del tutto disinibiti: vengono allo scoperto numerosi altarini, ossia inclinazioni insospettabili, tradimenti reciproci e manipolazioni, che del resto fanno parte del bagaglio della loro professione, ma la situazione non si chiarisce nemmeno dopo l'assassinio di Meacham, colui che aveva rivelato a George la fuga di notizie su Severus e fornito la lista dei sospetti. L'indagine di George dura una settimana, e la maggiore indiziata sembra proprio la sua amata consorte, che peraltro è l'unica a muoversi da Londra per recarsi a Zurigo per una Black Bag, in gergo un'azione sotto copertura, il cui scopo dev'essere all'oscuro perfino dei colleghi, dove incontrerà degli agenti russi e farà un'operazione bancaria coperta, va da sé, dal più totale segreto. Ma le cose non sono così come sembrano, e le carte si scopriranno in un secondo convegno dei sei personaggi (in cerca di un assassino e traditore) organizzato da George nel migliore stile di Nero Wolfe (per chi conosce il possente e diabolicamente scaltro investigatore creato da Rex Stout) dove sul tavolo comparirà, invece, una pistola (caricata a salve) che svelerà il colpevole... Non importa che sia impossibile seguire del tutto la trama e meno che mai comprendere i termini tecnici di cui è infarcita la sceneggiatura, basata tutta sui dialoghi e che lascia assai poco all'azione, ma tutto funziona a meraviglia, si rimane avvinti dall'intreccio e incollati allo schermo e il 93' del film filano via che è un piacere. Avercene, di pellicole così, con un cast che funziona come un cronografo di precisione e un regista quanto mai in forma, così come il suo sceneggiatore, David Koepp. 

giovedì 8 maggio 2025

Generazione romantica

"Generazione romantica" (Caught by the Tides) di Jia Zhangke. Con Zhao Tao, Zhubin Lee, You Zhou, Xi Changchu, Maotao Hu e altri. Cina 2024 ★★★★+

Gran bel film quello di Jia Zhangke, già Leone d'Oro nel 2006 per Still Life, anche quello ambientato nella fase di costruzione della Diga delle Tre Gole sul Fume Azzurro, progetto faraonico che ha comportato lo sfollamento di quasi un milione e mezzo di persone per la sua realizzazione: la seconda diga più grande del mondo dopo quella di Itaipú, tra Brasile e Paraguay, e la centrale elettrica più potente che esista. Particolarmente interessante, perché realizzato con filmati che prendono il via dall'inizio del Millennio, nel pieno dei lavori in corso, quindi in parte girati in sedici millimetri e riconvertiti, all'epoca del post Covid: il lavoro di assemblaggio delle diverse parti ha occupato il regista per tre anni dopo le pesanti restrizioni imposte in Cina durante e dopo la pandemia. Tempo per riflettere, amalgamare il tutto, renderlo fluido e racchiuderlo in una pellicola della durata di poco meno di due ore, essenziali e allo stesso momento scorrevoli. Raccontando l'evolversi di una storia d'amore, lungo l'arco di vent'anni, Jia Zhangke mostra al contempo gli enormi cambiamenti della società del suo Paese nello stesso periodo, che ne hanno letteralmente mutato l'aspetto e il modo di vivere. Siamo a Datong eattorno al 2000 ed è epoca di grandi trasformazioni e modernizzazione: Bin e Qiaoqiao (la bravissima Zhao Tao, che è anche moglie del regista e conosciuta in Italia per l'intenso Io sono Li, del 2011, per la regìa di Andrea Segre e ambientato a Chioggia) hanno una relazione stabile, lei è una modella che si esibisce anche come ballerina e cantante, lui traffica in campo immobiliare, è attratto dal denaro e decide di lasciare la città per cercare fortuna altrove: promette di tornare ma non mantiene la parola. Sarà lei, invece, a cercarlo, attraverso varie peripezie, ma lo reincontrerà solo vent'anni dopo, appena terminata la pandemia, quando Bin tornerà, povero in canna e ormai malridotto, nella città dove tutto era cominciato. In parte documentario e in parte finzione, l'evoluzione della relazione corre parallela, come si diceva, ai mutamenti del Paese, mostrati plasticamente e che si riflettono nella vita sociale come in quella personale, il valore del film è quindi doppio ed estremamente consigliato per cercare di capire in che direzione sta andando quella che è ormai la più grande potenza economica, e non solo, del mondo. Distribuito dalla mai abbastanza lodata Tucker Film, particolarmente attenda al cinema asiatico, ne consiglio caldamente la visione. 

venerdì 25 aprile 2025

Liberazione dai sepolcri imbiancati

Che le sedicenti autorità e gli antifascisti di comodo e di professione ci risparmino almeno oggi fiumi di bolsa retorica e ipocrite lezioni, o peggio improponibili richieste di abiure da parte di personaggi da cui è ridicolo e inutile pretenderle e a cui sono state lasciate praterie a causa della propria insipienza e miseria morale e intellettuale. Non siete nelle condizioni di dare lezioni di niente a nessuno. Ora e sempre, vergognatevi. Piuttosto che ricordare più o meno sobriamente le date, ripassate un po' di storia e rinfrescate la vostra memoria da pesce rosso.

lunedì 21 aprile 2025

Eden

"Eden" di Ron Howard. Con Jude Law, Ana de Armas, Vanessa Kirby, Daniel Brühl, Sydney Sweeney, Richard Roxburgh, Toby Wallace, Felix Kammerer, Ignácio Gasparini e altri. USA 2024 ★★★★+

Un bel film, avvincente come un noir, antropologico, verrebbe la voglia di definirlo, perché tratto da una storia vera, raccontata cucendo la versione di due delle protagoniste e che prende il via con il trasferimento, nel 1929, del medico e filosofo tedesco Friedrich Richter e della sua compagna e allieva Dore Strauch a Floreana, isola disabitata nell'arcipelago delle Galapagos, in Ecuador, lo studio della cui fauna da parte Charles Darwin gli diede i mezzi per sviluppare la sua teoria dell'evoluzione della specie tramite la selezione naturale. Richter abbandona il mondo capitalista, in crisi pressoché mortale in quegli anni della Grande Depressione, con l'intenzione di scrivere un trattato sul ritorno dell'uomo a uno stato naturale, contestando valori, violenza e avidità della cosiddetta civiltà occidentale: sostanzialmente un anarchico e un pacifista. Nel 1932 lui e la Strauch vengono raggiunti sull'isola da Heinz Wittmer, un reduce della Grande Guerra ancora sconvolto dall'esperienza bellica, il figlio malato d'asma e la giovanissima moglie Margret, affascinati dalle sue teorie. Wittmer, che non ha ancora completato la sua opera, non voleva discepoli, e meno che mai vicini che turbassero i suoi equilibri, e li accoglie e aiuta malvolentieri, limitandosi a indicare loro dove costruire la loro abitazione e contando sul fatto che non sarebbero riusciti a sopravvivere alle durezze della vista sull'isola. Cosa che invece i tenaci coniugi Wittmer riuscirono a fare edificando da soli una casa solida e confortevole e a organizzare dignitosamente la loro esistenza, mettendo perfino in cantiere un figlio, che sarà anche il primo umano a nascere su Floreana (sarà femmina). A cambiare radicalmente e definitivamente la situazione e a precipitarla in una spirale di tensione e di odio è l'arrivo di Eloise Wagner de Busquet, sedicente baronessa, in realtà un'impostora, accompagnata da due baldi giovani amanti europei e da un tuttofare latinoamericano, che ha ottenuto il permesso dal governatore di costruire un residence esclusivo, come si direbbe oggi. L'esistenza degli umani sul quell'isola paradisiaca diventa man mano un inferno, gli istinti più profondi tornano alla luce anche nelle persone più insospettabili (Richter da vegetariano si trasforma in carnivoro e rivede le sue teorie al punto da distruggere la macchina per scrivere che usava per la sua opera, Wittmer riprende in mano le armi), Dore accusa il suo compagno di tradire i suoi ideali, scorre il sangue e la violenza divampa inarrestabile: in confronto agli umani, alla fine, gli animali selvatici diventano delle mammole, altro che "bestie"... Il tutto è raccontato come si deve, gli interpreti sono bravissimi, a cominciare dall'incantevole Ana de Armas che sa rendere il suo personaggio, la baronessa, odiosa e irritante come poche; anche Jude Law non scherza col suo dottor Richter, come la sua compagna cui dà volto e corpo (sofferente di una sclerosi multipla) Vanessa Kirby, Daniel Brühl è il versatile attore ispano-tedesco che ben conosciamo ma la vera sorpresa è Sydney Sweeney, che accompagna in maniera stupefacente la metamorfosi della giovane, ingenua e spaesata Margret Wittmer, la quale si tramuta in una tigre che difende i suoi cuccioli e il suo territorio con una determinazione che nessuno degli altri si sogna di avere. Eden stimola riflessioni profonde sulla natura umana e, in tempi di guerra e, in generale, di crisi, è quanto mai attuale, ma è anche spettacolo vero, avvincente, inquietante, con un ritmo implacabile, una fotografia di prim'ordine quanto la colonna sonora. Decisamente, Ron Howard non è un regista molto prolifico, ma quando dirige una pellicola, sa il fatto suo. Con Eden, sa fare rimanere inchiodati sulla poltrona: decisamente consigliato. 

giovedì 17 aprile 2025

Sotto le foglie

"Sotto le foglie" (Quand vient l'automne) di François Ozon. Con Hélène Vincent, Garlan Erlos, Josiane Balasko, Pierre Lottin, Ludvine Sagnier e altri. Francia 2024 ★★★★

Atmosfere autunnali e campestri per l'ultimo lavoro di François Ozon, e precisamente nella campagna della Borgogna dove Michelle, un'ex prostituta che esercitava a Parigi, si è ritirata a trascorrere la vecchiaia godendosi i piaceri di una vita tranquilla: la compagnia di Marie-Claude, amica ed ex collega di vita, le passeggiate nei boschi, la cucina e soprattutto le visite di Lucas, l'amato nipotino, le rare volte che glielo porta Valérie, una figlia complicata, in crisi col passato della madre. Nodi che vengono definitivamente al pettine quando, in occasione di un pranzo a base di funghi, Valerie, che è l'unica che li ha mangiati, sta male e viene ricoverata in ospedale per una lavanda gastrica, convincendosi che la madre abbia voluto avvelenarla di proposito e vietandole accudire il nipote per le vacanze. Nel frattempo Michelle, che ci è rimasta malissimo, aveva assunto come giardiniere Vincent, il figlio un po' scapestrato di Marie Claude, appena uscito di prigione, per aiutarlo a reinserirsi. Il giovanotto è un po' ambiguo, come del resto tutti i personaggi del Nostro, buono d'animo ma incline a mettersi nei pasticci, e si reca all'insaputa di tutti a Parigi, dove vive Valérie, per cercare di convincerla ad appianare le divergenze con Michelle e tornare a portarle Lucas: fatalità, proprio durante la visita, uscendo in terrazza a recuperare un pacchetto di sigarette che aveva nascosto in una grondaia, Valérie cade e si schianta sul marciapiede. Questa sarà, dopo anni, la versione che Vincent darà a Michelle, dopo che Marie Claude, sul letto di morte, le aveva rivelato la presenza del figlio a Parigi il giorno della morte di Valerie. In tutti quegli anni Lucas rimase affidato alla nonna, rifiutandosi di seguire il padre a Dubai, e Michelle, durante le indagini sulla morte di Valérie, fornisce un alibi a Vincent e Lucas lo corrobora, negando di averlo incrociato all'entrata della palazzina in cui abitava. E Michelle fornirà a Vincent il danaro per aprire, com'era suo desiderio, un locale. Ricompensa? Gratitudine? Semplice generosità? La situazione rimane in sospeso, irrisolta e non rivelata nemmeno in occasione della visita, anni dopo, di Lucas alla nonna e all'amico diventato una sorta di fratello maggiore. Irrisolta per il pubblico, che rimarrà con tutti i dubbi del caso, mentre per i protagonisti sta bene così, perché in fondo la morte di Valérie ha permesso di trovare un equilibrio che soddisfa tutti, essendo alla fine proprio lei l'elemento disarmonico di questa comunità, o famiglia, di fatto. Come sempre Ozon non si lascia incasellare nelle definizioni e veleggia tra i generi: c'è un polar rurale però senza polizia dove il delitto, se c'è, si svolge nell'appartamento della metropoli; una commedia intimista, dove emergono le tensioni latenti e oscure dei rapporti famigliari, talvolta tossici proprio come i funghi, nutrienti ma anche assassini. Da esperto alchimista, il regista assembla sapientemente e con una sottile perfidia tutti gli elementi e quello che ne esce è un prodotto raffinato, che affida agli sguardi e ai gesti degli interpreti, tutti bravissimi, più che alle loro parole, tutta l'ambivalenza dei personaggi: Hélène Vincent è Michelle, Josiane Balasko è Marie-Claude, Pierre Lottin è Vincent, Ludvine Sagnier è Valérie. Un bijou.

domenica 13 aprile 2025

Nonostante

“Nonostante” di Valerio Mastandrea. Con Valerio Mastandrea, Dolores Fonzi, Lino Musella, Laura Morante, Giorgio Montanini, Justin Korovkin, Barbara Ronchi, Luca Lionello e altri. Italia 2024 ★★★★+

Alla sua seconda regia dopo l'esordio, nel 2018, con Ride, Mastandrea conferma dietro la camera da presa le stesse qualità che ha come persona e come attore (qui è anche il personaggio principale): un modo discreto, ironico e al contempo malinconico di guardare le cose della vita da un'angolatura non scontata, che dà un tocco volutamente surreale e leggero a eventi reali e imprevisti che vengono a scuotere la quotidianità. Là era un fatale incidente sul lavoro, qui è il coma, quella sospensione tra la vita e la morte in cui ogni possibilità è aperta, un risveglio come un definitivo soffio di vento che ti porta via, in cui tutto può succedere, una situazione senza tempo, dove non si ha memoria del passato né idea del futuro, che si immagina però anche, e non così paradossalmente, uno stato di assoluta libertà per il protagonista. Il suo corpo giace in un letto di ospedale, mentre il suo spirito, la sua essenza, vaga per il nosocomio, i suoi cortili e le strade circostanti, parla con quelli che sono nelle sue stesse condizioni: ogni comatoso reagisce alla sua condizione a modo suo, in attesa che evolva, in un senso o nell'altro, quasi rassegnata la donna interpretata da Laura Morante, il ragazzo di Justin Korovkin sul punto di andarsene, attaccato alla famiglia l'uomo di Lino Musella, quello più in confidenza con il nostro Valerio, per cui invece il coma è un momento di inattesa pausa dalla vita e dai problemi di tutti i giorni, una sorta di vacanza, in cui osserva gli altri senza dovere pensare a sé stesso, il cui corpo vede steso nel letto e attaccato alle apparecchiature che monitorano le sue funzioni vitali mentre lui schiaccia una pennica sul divano dopo una giornata a girovagare in totale assenza di gravità e senza essere visto, e in cui può a interagire soltanto con altri comatosi. Il gradevole, per lui, tran tran quotidiano viene stravolto quando la "sua" stanza viene occupata dalla vittima di un grave incidente stradale, Dolores Fonzi, ottima attrice molto nota in Argentina che è un vero piacere vedere in un film italiano, che invece è refrattaria ad accettare le "regole" che per Valerio sono invece una sorta di panacea. Prima infastidito dalla presenza e dal modo di fare della "intrusa", Valerio ne è sempre più attratto e alla fine si lascia andare e si innamora di lei nonostante, per l'appunto, sia impossibile che un rapporto vero nasca e nonostante tutto, in quello stato di assenza da sé stessi, funzioni. Morte, dolori: nonostante tutto bisogna vivere il presente, e tirare avanti, carpe diem nonostante tutto e nonostante ciò su cui non possiamo nulla e non sappiamo nemmeno definire. Piacevolmente surreale per quanto agganciato alla realtà, metafisico verrebbe da dire, il film suscita emozioni e considerazioni profonde senza mai essere strappalacrime o nemmeno banalmente ottimista o ridicolo: lieve ma non leggero, disincantato ma non triste. Mastandrea è bravo e misurato da regista quanto come attore, e così i colleghi che ha scelto accuratamente, la storia funziona, il commento musicale è perfetto. Cosa volere di più? Sembra una stagione positiva, per il cinema nostrano. Speriamo che continui così.

mercoledì 9 aprile 2025

Il malloppo


"Il malloppo" (Loot) di Joe Orton. Traduzione di Edoardo Erba Regia di Francesco Saponaro. Con Gianfelice Imparato, Marina Massironi, Giovanni Franzoni, Giuseppe Brunetti, Davide Cirri. Scene di Luigi Ferrigno; costumi di Anna Verde; disegno luci di Antonio Molinaro. Produzione “La pirandelliana”. 

Perso nelle tappe milanesi all'Elfo Puccini del mese passato, ho recuperato Il malloppo in quella di venerdì 3 scorso al bel Teatro Accademia di Conegliano: occasione imperdibile per un testo dissacrante e poco rappresentato in Italia, ma intramontabile in Gran Bretagna e negli USA, un classico della commedia nera scritta inglese nel 1965 e rielaborata successivamente, probabilmente il maggior successo di Joe Orton, morto a soli 34 anni nel 1967, ucciso dal suo amante e collega Kenneth Helliwell (chi di cadaveri colpisce...). Farsa del genere poliziesco in versione macabra, si basa sul ritmo e sulle battute a raffica dei cinque personaggi in scena oltre al morto, e prende di mira senza pietà il perbenismo sessuofobico e ipocrita dell'epoca, dalla religione alla morale, alla giustizia e all'ordine costituito nonché alla fede cieca nel mito del "progresso": insomma un sessantottino ante litteram, un vero spirito anarchicoLo spunto sono le indagini sulla fine fatta dal malloppo di una dilettantesca rapina ideata ed eseguita da Hal (Giuseppe Brunetti) e Dennis (Davide Cirri) alla banca adiacente all'impresa di pompe funebri dove lavora quest'ultimo, e che viene nascosto prima in un armadio e poi nella bara della madre di Hal, defunta da poco, e vegliata dal padre e fresco vedovo Mr McLeavy (Giovanni Franzoni) e dalla diabolica infermiera Fay, di fatto il personaggio principale e con più sfaccettature, rese tutte con disinvolta bravura e credibilità da Marina Massironi, al contempo bigotta, impostora, cacciatrice di uomini, serial killer di mariti, dark lady fatale. Buon ultimo entra in scena l'ottimo Gianfelice Imparato nella parte dell'ispettore Truscott, che inizialmente indaga in anonimato e che da un lato sembra dotato di un intuito che confina con la capacità divinatoria, dall'altro pare non rendersi conto delle evidenze che sono sotto gli occhi di tutti gli altri, a cominciare dagli spettatori, ovviamente, per cui risulta tanto straniato quanto straniante così come Mr McLeavy, in definitiva, il più "normale" della combriccola, l'unico che è lì per la morta, che viene spostata, spogliata, rivestita nel totale disinteresse del figlio e dell'infermiera quando gli altri sono al funerale al cospetto della bara che contiene il grisbi anziché il cadavere. Quando il poliziotto rivelerà la sua identità ha già capito tutto, non solo chi sono gli autori della rapina ma anche che Fay ha ucciso non solo la donna che assisteva ma pure i suoi precedenti mariti, ma in realtà è interessato molto più al bottino lui stesso invece che ad assicurare alla giustizia i ladri e l'assassina, e tutto finisce secondo il classico adagio "chi ha avuto ha avuto chi ha dato ha dato", in versione londinese anziché partenopea. Divertimento assicurato e spettacolo vivamente consigliato a chi ha occasione di averlo a tiro. 

domenica 6 aprile 2025

Berlino, estate '42

"Berlino, estate '42" (In Liebe, eure Hilde) di Andreas Dresen. Con Liv Lisa Fries, Johannes Hegemann, Lisa Wagner, Alexander Scheer, Emma Bading, Sina Martens, Lisa Hrdina, Lena Urzendowsky, Hans-Christen Hegewald, Nico Ehrenteit, Tilla Kratochwil, Fritzi Haberlandt, Rachel Braunschweig e altri. Germania 2024 ★★★★+

Nel post precedente accennavo all'abisso che avevo percepito tra questo raro film sulla resistenza tedesca durante la Seconda Guerra Mondiale (un precedente era stato La Rosa Bianca - Sophie Scholl, del 2005) e Le assaggiatrici di Silvio Soldini, anche quello ambientato in quegli anni: col passare dei giorni, si è, se possibile, approfondito. Perché Berlino, estate '42 è fatto col cuore e con profondo rispetto per il personaggio principale, peraltro interpretato in modo eccellente dalla bravissima Liv Lisa Fries, già molto apprezzata nell'ottima serie Babylon Berlin, e senza mai cadere nel patetico suscita emozioni profonde, e sono quelle che alla fine contano, in uno spettacolo che vuole dire qualcosa e rimanere impresso nella memoria. E, in questo caso, nella coscienza. La storia è quella di Hilde Rake-Coppi, che rivive in flash-back, mentre è detenuta nella prigione di Plötzensee in attesa di essere decapitata, quella che era stata l'estate più bella della sua vita, quella in cui era rimasta incinta di suo marito, Hans, militante nel gruppo di Harro Schulze-Boysen e Arvid Harnack conosciuto come l'Orchestra Rossa, che dopo l'invasione dell'URSS da parte della Germania nazista nel 1941 si era offerto di trasmettere via radio da Berlino informazioni che potessero essere utili ai sovietici. Dopo averlo sposato, anche Hilde si era unita alle attività di quello che era anche e soprattutto un gruppo di amici, che vediamo entusiasti nella loro speranza di poter essere utili alla causa e infatti li vediamo pieni di vita non solo ciclostilare e distribuire volantini (o meglio lasciarli in luoghi di passaggio come gli scompartimenti del tram e della metropolitana), fare attacchinaggio, addestrarsi all'alfabeto Morse, tutte cose che Hilde, già sulla trentina, apparentemente timida ma caparbia e rigorosa, e che era stata fidanzata con un giovane ebreo fuggito all'estero (licenza degli sceneggiatori: in realtà era già entrata in contatto con esponenti del Partito comunista tedesco ben prima della guerra e Hans Coppi era già stato detenuto per attività sovversive) fa per convinzione, oltre che per stare vicino al marito. Lo fa, come gli altri, con entusiasmo giovanile, senza pensare ai pericoli e agli orrori da cui sono circondati, continuando a divertirsi, ascoltare musica, amarsi, discutere, andare al lago a bere, nuotare e fare festa anche durante l'estate che vedrà la Wehrmacht subire i primi seri colpi da parte russa: del resto, se non ci si muove e si fa qualcosa a quell'età, quando? E viene subito in mente lo stato di morte cerebrale che sembra essersi abbattuto su buona parte delle giovani generazioni di oggi, in un'Europa immemore e disgustosamente immorale che sembra volutamente cadere ogni giorno di più nei medesimi tragici errori di 110 anni fa. Questa la prima parte del film, perché la seconda, ancora più aderente alla realtà, descrive gli ultimi mesi di vita di Hilde Coppi nel "braccio della morte": la nascita del figlio Hans, poi diventato un noto storico, nel novembre del 1942, due mesi dopo l'arresto. La sua esecuzione venne confermata, nonostante una richiesta di grazia, fatta anche su suggerimento della secondina signora Kuhn (Lisa Wagner, anche lei ottima nella parte) con cui aveva instaurato un rapporto di rispetto e comprensione reciproci e del cappellano, cui aveva affidato una struggente lettera alla madre e al figlio, e solo rinviata al momento in cui non avesse più allattato al seno: venne giustiziata, con la ghigliottina, il 5 agosto del 1943, suo marito Hans (Johannes Hegemann) già nel dicembre '42. Tutta la vicenda viene raccontata con garbo, senza manicheismi e stupidi stereotipi: con umanità e partecipazione, credibilità e attenzione alla psicologia dei personaggi, e in grado di rendere un'epoca e un periodo difficili da descrivere senza cadere nei pregiudizi e nei luoghi comuni. Al termine del film, il ricordo dei genitori mai conosciuti è affidato alle parole di Hans Coppi Junior, voce fuori campo. Come già detto, la distanza con Le assaggiatrice è abissale, peccato che Berlino, estate '42 stia già uscendo dalla programmazione. e anche questo è un segno dei tempi.

martedì 1 aprile 2025

Le assaggiatrici

"Le assaggiatrici" di Silvio Soldini. Con Elisa Schlott, Max Riemelt, Alma Hasun, Emma Falck, Thea Rasche, Nicolo Pasetti, Marco Boriero, Boris Aljinović, Nikolai Selikovsky, Peter Schorn e altri. Italia, Belgio, Svizzera 2025 

Uscito di sala di malumore dopo la visione di quest'ultimo lavoro di Silvio Soldini, per la stima che ho sempre nutrito nei suoi confronti avevo deciso di lasciar sedimentare le mie impressioni, decisamente negative, e sospendere il giudizio, che però è diventato definitivo dopo aver assistito, ieri, alla proiezione di Berlino, estate 1942 (ne parlerò nei prossimi giorni). Entrambi i film sono ambientati in Germania nello stesso periodo, quando le sorti della guerra cominciavano a volgere a sfavore del regime nazista (e del suo alleato principale, ossia quello fascista italiano: lo preciso perché si tende a dimenticarlo, dalle nostre parti). Tra i due c'è un abisso, il paragone è impietoso. La pellicola è ispirata a una storia vera, raccontata da Margot Wölk nel 2007 in un'intervista concessa il giorno del suo 90° compleanno, unica sopravvissuta di 15 "assaggiatrici" reclutate in una cittadina situata presso la Wolfsschanze, la cosiddetta Tana del Lupo, il quartier generale di Hitler che fino alla fine del 1944 diresse da lì le operazioni sul fronte orientale, prima del crollo di quest'ultimo: il loro compito era assicurare cuoco e guardie che il cibo del dittatore non fosse avvelenato. Adattando l'omonimo romanzo (per l'appunto di fantasia) di Rosella Pastorino, già vincitore del Premio Campiello 2018, Soldini si è avvalso della collaborazione di ben altri cinque sceneggiatori (tra cui Cristina Comencini e la figlia Giulia Calenda, fior fiore del cucuzzaro cinematografico romanocentrico) per partorire un film dall'ossatura rachitica, scialbo, irritante, intriso dei più vieti luoghi comuni sul tedesco nazista, che ha il passo di una delle più piatte serie TV di Mamma RAI. La protagonista diventa tale Rosa Sauer, 26 enne moglie di un soldato disperso in Russia, una segretaria berlinese di cui si accennano vaghi sentimenti antinazisti, che dopo i primi pesanti bombardamenti della capitale si rifugia nella casa dei suoceri nella campagna della Prussia Orientale, nei pressi, dunque della Tana del Lupo dove viene ingaggiata a forza dalle SS. Intanto dopo la cura degli sceneggiatori le sue compagne di sventura si sono dimezzate; nasce un'inspiegabile liaison amoureuse clandestina tra lei e il nuovo comandante delle Guardie Alimentari di Hitler (l'interprete, Max Riemelt, è un vero e proprio cane, e nemmeno così attraente da giustificare l'invaghimento della biondina protagonista, Elisa Schott), altra cosa inventata di sana pianta; viene rappresentata fino alla noia la contrapposizione tra le "cittadine" (Rosa, per l'appunto, ed Elfriede, impersonata da Alma Hasun, l'unica che spicca in un cast raffazzonato) e le indigene; l'unico caso di avvelenamento di due ragazze si registra a causa di un dolce contenente miele, colpa quindi di api che hanno scelto fiori tossici; infine Elfriede si scoprirà essere ebrea, cosa ancora più difficile da credere considerato che ai tempi i comuni cittadini tedeschi erano costretti a esibire certificati di "arianesimo" fino alla sesta generazione, e dunque obbligati a  produrre documenti anagrafici da reperire negli archivi delle parrocchie quando non bastavano quelli municipali: figurarsi i controlli nel caso delle "guardie del corpo alimentari", e nemmeno volontarie, del Capo Supremo assunte dalle occhiute SS. Il finale vuole essere a effetto, con Rosa che convince l'amante, il tenente delle SS con cui però aveva appena rotto, a farla salire sull'ultimo treno utile per rientrare a Berlino mentre stanno arrivando i sovietici, e si porta dietro Elfriede ma vengono scoperte: l'ebrea verrà abbattuta durante la fuga, Rosa non si sa, rimane lì impalata a bocca aperta sullo schermo a nostra imperitura memoria prima che scorrano gli "spiegoni" che precedono i titoli di coda sulla incolpevole ispiratrice di questo boccone indigesto (altro che assaggiatrici). Il risultato di questa operazione velleitaria è penoso oltre ogni dire e non salvano dal disastro le musiche curate da Mauro Pagani. Un'involuzione, quella di Soldini, inspiegabile, e si spera soltanto occasionale e frutto di congiunzioni astrali particolarmente avverse. A dare il colpo finale, un doppiaggio indecoroso: gente che pronuncia fiùrer invece di führer così come un romano pronuncerebbe viùrstel al posto di würstel: non si può sentire, e che non se ne sia accorto Soldini, che è milanese e per di più di origine ticinese, e non abbia preteso dei doppiatori in grado di pronunciare correttamente la u con l'umlaut così tipicamente lombarda, è la dimostrazione che stavolta aveva la testa da un'altra parte e che la regìa sia stata opera di un omonimo o di un alter ego sfasato. Unico aspetto positivo del film, se ce n'è uno, far riflettere, forse, e sempre che si abbia ancora il cervello in modalità attiva, sulla trovata della Commissione UE, presieduta da una tedesca ex ministro della Difesa, di finanziare con 800 miliardi di crediti il riarmo dell'unico Paese che può permettersi, a spese degli altri, di indebitarsi: la Germania, che dopo la riunificazione è diventato di gran lunga quello più popoloso del Continente, esclusa la Russia. Auguri.

domenica 30 marzo 2025

Il Nibbio

"Il Nibbio" di Alessandro Tonda. Con Claudio Santamaria, Sonia Bergamasco, Anna Ferzetti, Lorenzo Pozzan, Davy Eduard King, Youssef Tounzi, Abbas Abdulghani, Anas Ladhaira, Fethi Nouri, Beatrice De Mei, Massimiliano Rossi, Andrea Giannini, Maurizio Tesei, Sergio Romano, Biagio Forestieri, Antonio Zavatteri e altri. Italia, Belgio 2025 ★★★★

Un ottimo film, girato alla maniera anglosassone, con le cadenze di un classico thriller di spionaggio, e un omaggio alla figura di Nicola Calipari, alto dirigente del SISMI, ucciso dai militari americani a Baghdad il 4 marzo del 2005 a un posto di blocco ad appena un chilometro dall'aeroporto dopo aver mediato la liberazione della giornalista del manifesto Giuliana Sgrena, sequestrata da un gruppo sunnita, vicenda che ha creato non pochi attriti tra l'Italia e gli USA e rivelatrice, ancora una volta, del nostro perenne stato di sudditanza nei confronti dell'arrogante "alleato". Santamaria, attore quanto mai versatile, riesce a impersonare Calipari con una credibilità indiscutibile, rendendone le caratteristiche di un funzionario di Stato affidabile e puntiglioso, un uomo capace, coscienzioso e non influenzabile, che era già stato incaricato di risolvere, personalmente sul campo e con successo, il rilascio di altri ostaggi nel pantano mediorientale in cui siamo andati a infilarci per la soggezione di cui sopra verso il tracotante occupante d'oltreoceano, come nel caso delle Due Simone, operatrici umanitarie, e di altri tre addetti alla sicurezza italiani, ma non riuscì a riportare a casa il contractor Quattrocchi e il giornalista Baldoni, soltanto un anno prima. Insuccessi che non riusciva a perdonarsi, ragione per cui volle occuparsi personalmente e senza ingerenze né da parte degli americani, né da parte della Croce Rossa, delle trattative per il rilascio della Sgrena, avvalendosi dei canali fidati che aveva attivato in zona in precedenza. Tutto comincia quando viene convocato d'urgenza da Nicola Pollari, il suo superiore, nel momento in cui sta partendo per una vacanza in montagna con la famiglia (ancora una interpretazione notevole di Anna Ferzetti nei panni della moglie di Calipari) e vengono raccontate le vicende dei 28 giorni dal sequestro della giornalista al suo rilascio, alternando la sua reclusione, senza contatti con l'esterno e coscienza di cosa si muovesse sul suo caso, con l'avanti-e-indietro di Calipari tra Roma, dove aveva allacciato rapporti col direttore del giornale e il compagno della Sgrena, e Baghdad, dove aveva messo all'opera i sui fidati interlocutori locali e conduceva personalmente le trattative, cercando di evitare le interferenze non richieste tanto in Italia quanto in Iraq. Pur avendo la tensione e il ritmo di un film d'azione (vengono in mente, anche per l'ambientazione, The Hurt Locker e Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow) Il Nibbio (soprannome datogli dai colleghi) ha il merito di ritrarre Calipari non solo per le sue capacità operative e il suo equilibrio ma per le sue qualità umane, apprezzate da chiunque ci avesse avuto a che fare, a cominciare dai compagni e amici della Sgrena che avevano tutti i motivi, a cominciare da quelli politici, per diffidare di un uomo di punta dei Servizi, con la fama che questi ultimi hanno nel nostro Paese (e non solo): l'idea di mostrarlo anche nella dimensione famigliare, specie nei rapporti con la moglie e soprattutto la figlia, adolescente e attivista nel movimento per la pace, ne rende il carattere a tutto tondo. Da sottolineare la bravura di Sonia Bergamasco nel ruolo di Giulana Sgrena, un personaggio che, anche ai tempi, non suscitava certo afflati di empatia, un ruolo non facile e non gradevole ma affrontato con la bravura di un'attrice di razza. Insomma un film valido, ben girato, su una vicenda, umana e politica, che merita di essere ricordata.

mercoledì 26 marzo 2025

Follemente

"Follemente" di Paolo Genovese. Con Edoardo Leo, Pilar Fogliati, Emanuela Fanelli, Maria Chiara Giannetta, Claudia Pandolfi, Vittoria Puccini, Marco Giallini, Maurizio Lastrico, Rocco Papaleo, Claudio Santamaria. Italia 2025 ★★★★+

Evviva! Vedere due film italiani divertenti e del tutto riusciti nell'arco di una settimana e uscire dalla sala soddisfatti e col sorriso sulle labbra è un evento così raro da far pensare che il nostro cinema tutto sommato sia in salute e la capacità di girare una commedia come Follemente, che da un lato riflette alcuni tratti comuni indigeni e dall'altro è in grado di parlare alle donne come agli uomini (e ridere di sé stessi) al di là delle frontiere (come e forse più a suo tempo di Perfetti sconosciuti) non sia andata persa. Il che è confortante. La storia, raccontata in unità temporale, insomma "tutto in una sera", è quella del primo appuntamento tra Lara (Pilar Fogliati) e Piero (Edoardo Leo), lei sui trenta e lui verso i cinquanta, entrambi già scottati sentimentalmente, che vogliono darsi una seconda possibilità: l'occasione per verificare la validità e le eventuali prospettive di un'attrazione reciproca è una cena a casa di lei, in ansia fino all'ultimo su cosa indossare e sull'illuminazione del suo caotico appartamento e lui, con mazzo di fiori e vassoio di gelato d'ordinanza, indeciso sulla scelta del preservativo (non si sa mai...) davanti al distributore automatico di una farmacia, sobillato da una voce interiore, quella di Marco Giallini, che ne elenca i diversi tipi disponibili. Già, perché oltre ai due protagonisti "reali" della vicenda ci sono gli spiritelli, una via di mezzo tra l'angelo custode e il demone, quattro donne e quattro uomini, che rappresentano le pulsioni contraddittorie di entrambi, i quali dirigono le operazioni da due location diverse, la caotica tana dell'universo mentale di Leo e il salotto perfettino della mente di Lara. Tutti bravissimi, ma spiccano Emanuela Fanelli (Trilli) e Claudio Santamaria (Eros), le due côté "carnali" delle rispettive personalità, che puntano "al sodo" e quelle più razionali, e dogmatiche, affidate rispettivamente a Claudia Pandolfi e Marco Giallini: per contrasto, lo spasso è assicurato, tra battute brillanti e azzeccate, buon senso comune, ironia sugli imbarazzi dei due "protetti". Niente di rivoluzionario e di trascendentale, gli ingredienti della "commedia all'italiana" ci sono tutti, ma assemblati in maniera intelligente e originale come da sempre sa fare Paolo Genovese, navigando tra finzione e verosimiglianza come nei suoi film precedenti, in particolare di Perfetti sconosciuti, finora quello di suo maggiore successo, di cui segue le tracce ma, a mio parere, con ancora maggiore successo, quello che gli auguro vivamente di doppiare. Oltre alla bravura di Genovese come sceneggiatore, avvalendosi della collaborazione di colleghi rodati e fidati, da lodare la grande attenzione all'ambientazione, senza mai sbavature e il grandissimo merito di non non fare mai film romanocentroci pur essendo ambientati sempre nella capitale e avvalendosi prevalentemente di attori romani e la capacità di farli lavorare assieme: i suoi sono sempre film corali in cui, più ancora della scrittura (sempre brillante e mai volgare), conta l'affiatamento tra gli interpreti, che danno sempre l'impressione di divertirsi e di essere a loro volta creatori e coautori del lavoro, complici e non solo un tramite per le idee del regista. Un'ora e mezzo di intrattenimento sano, rilassante e intelligente, probabilmente uno dei migliori incassi dell'a stagione: Genovese e la sua tribù se lo meritano.

domenica 23 marzo 2025

Hokage - Ombra di fuoco

"Hokage - Ombra di fuoco" di Shin'ya Tsukamoto. Con Shuri, Ouga Tsukao, Hiroki Kôno, Mirai Moriyama, Gô Rijû, Tatsuri Ohmori e altri. Giappone 2023 ★★★★1/2

Film che chiude una trilogia che Tsukamoto ha dedicato alle devastanti conseguenze della guerra, preceduto da Nobi (2014) e Zan (2018), non ha bisogno di immagini cruente o di lunghe e tormentate spiegazioni e analisi psicologiche dei personaggi, ma si affida unicamente alle immagini, ai suoi riflessi ex post, appunto come "ombre di fuoco", negli sguardi degli interpreti e nei dettagli, specie in interni, in cui si svolge la vicenda. Che sono quelli di un piccolo ristorante di famiglia, situato vicino a un affollato mercato nero, gestito da una giovane vedova costretta, per necessità, a concedere a pagamento anche il suo corpo ai clienti, oltre al saké e ai poveri piatti che riesce a cucinare col poco che rimedia. Un giorno compare nel suo locale un piccolo orfano, il fenomenale Shuri (grande merito al regista saperlo guidare in un'interpretazione memorabile, di assoluta naturalezza) con l'intento di rubacchiare qualcosa, e tra i due si instaura per qualche tempo un legame compensatorio: nel conflitto appena concluso sono morti sia il figlio della donna, sia i genitori del bambino; a loro si aggrega, per qualche giorno, un altro personaggio, un reduce, già insegnante di scuola media,  affetto da crisi da sindrome post traumatica così pesanti che, nonostante le buone intenzioni, la precaria convivenza del terzetto risulta impossibile. Proprio nel momento in cui la donna sta affezionandosi al piccolo, quest'ultimo viene "reclutato" da un altro reduce, attivo al mercato nero, più a posto con la testa del primo ma deciso a vendicarsi di un alto ufficiale (uno che subito dopo il conflitto è tornato senza problemi a un'esistenza agiata e senza problemi) a cui vuol fare pagare le colpa di averlo disumanizzato e costretto a compiere azioni che non avrebbe mai fatto e reso in definitiva complice di atrocità che gli rimaranno sulla coscienza per tutta la vita: quest'altro giovane, per sicurezza, aveva affidato proprio al bambino il compito di custodire la pistola con cui voleva realizzare il suo proposito. Ambientato nella locanda la prima parte del film, all'esterno, tra mercato e campagna, la seconda, in cui il soldato e l'orfano vanno a stanare l'ufficiale: in mezzo l'unica immagine, definitiva e più devastante, della guerra appena conclusa, quella di Horishima vista dall'alto, sorvolata e filmata dopo il criminale e vigliacco sganciamento della prima bomba atomica, quella che ha cambiato definitivamente il mondo facendolo diventare vieppiù il carnaio demenziale e fuori controllo gestito dagli eterni guerrafondai sopravvissuti a tutto. A dispetto della gente, di ogni etnia, credo o parte del mondo che le guerre è costretta a combatterle, subirle e pagarle. Pellicola stilisticamente impeccabile, fotografia eccezionale, interpretazioni eccellenti, quella del piccolo Shuri sopra tutte. E da sbattere in faccia ai sostenitori di qualsiasi riarmo.