venerdì 30 novembre 2018

In guerra

"In guerra" (En Guerre) di Stéphane Brizé. Con Vincent Lidon, Mélenie Rover, Jacques Borderie, Olivier Lemaire, Bruno Bourthol, David Rey, Isabelle Rufin, Sébastien Lamelle, Valérie Lamonde e altri. Francia 2018 ★★★★★
Massimo dei voti per un film che, nel suo genere (militante? politico? di denuncia? realista?) è esemplare, potente, duro, difficile, indigesto e rimane a "lavorare dentro", e non soltanto per il colpo di scena con cui si conclude: un pugno nello stomaco che ci meritiamo tutti quando, dando credito alle ciance sui populismi, le migrazioni epocali, il dogma della legge del mercato, l'unica ideologia sopravvissuta e vincente su ogni altra visione del mondo e dell'esistenza umana, ci dimentichiamo del tema centrale: il lavoro che viene meno, che  grazie alla delocalizzazione, la finanziarizzazione dell'economia e, non ultima, la robotizzazione, sparisce. La telecamera "a spalla" di Stéphane Brizé ci porta all'interno della fabbrica Perrin, con sede ad Agen, in una regione ad alta disoccupazione come la Garonna, specializzata in apparecchiature automobilistiche che fa parte di una multinazionale tedesca, e nelle stanze in cui si svolgono le infuocate assemblee dei lavoratori e in quelle in cui avvengono le estenuanti trattative con la controparte durante un durissimo contenzioso tra i sindacati e l'azienda di cui la proprietà decide unilateralmente la chiusura dei battenti nonostante abbia firmato un accordo che prevedeva il mantenimento della produzione e dei posti di lavoro in cambio di una sostanziosa riduzione di stipendio e di bonus, con aumento della produttività, da parte del personale tutto per cinque anni: dopo due anni l'accordo, per decisione della dirigenza, diventa carta straccia, l'esistenza dei lavoratori sconvolta, minata alla base, nel sostanziale menefreghismo del governo, che dopo aver tergiversato facendo inasprire ancor di più la vertenza, fa finta di appoggiare le loro istanze proponendosi però al più come mediatore, si tira indietro prendendo le distanze non appena la rabbia e il malcontento operaio oltrepassano i "limiti" della stessa legalità, sfociando in aggressioni non solo verbali e incidenti con la polizia, fatta intervenire in assetto antiguerriglia. Come nel precedente e più che egregio La legge del mercato, l'ottimo Stéphane Brizé (che aveva firmato anche un altro bel film, di tutt'altro tipo, Una vita, tratto dall'omonimo romanzo di Guy de Maupassant, a conferma della sua versatilità e bravura) si avvale di un attore eccezionale come Vincent Lidon, perfetto nel dare vita all'irriducibile capo sindacalista Vincent Amédeo, e di altri non professionisti ma altrettanto bravi ed efficaci, smaschera il linguaggio manipolatore dei vertici aziendali e dei politici nonché quello ambiguo dell'informazione, compresa quella che passa dai social media, sottolinea quanto attraverso questo e le tattiche dilatorie che si basano sull'eterno, diabolico schema del divide et impera utilizzato da chi ha il coltello dalla parte del manico, porti all'immancabile, letale contrapposizione tra i lavoratori che si divideranno ancora una volta tra duri e puri, decisi a difendere con il lavoro quella che vedono come l'essenza stessa della loro esistenza, e i "trattativisti", disposti ad arrendersi all'inevitabile (e,  nelle condizioni attuali, sempre che si dia per scontata la suprememazia e l'ineluttabilità della legge del mercato così è) in cambio di sostanziose buonuscite. Un film da vedere, qualsiasi siano le convinzioni politiche, per chiunque si renda conto quanto il tema del lavoro e della sua scomparsa e comunque cambio di senso sia cruciale al giorno d'oggi.

mercoledì 28 novembre 2018

Red Land (Rosso Istria)

"Red Land (Rosso Istria)" di Maximiliano Hernando Bruno. Con Selene Gandini, Geraldine Chaplin, Romeo Grebensek, Franco Nero, Sandra Ceccarelli, Eleonora Bolla, Maximiliano Hernando Bruno, Diego Pagotto, Vincenzo Bellini e altri. Italia 2018 ★★★★
Al solito, non riesco a capire la titolazione dei film italiani o in italiano di film stranieri. Che cosa cazzo mi significa Red Land? Non bastava Rosso Istria per una pellicola prodotta e girata in Italia con interpreti italiani (salvo il bravissimo Romeo Gebenscek, sloveno) che racconta una storia italiana? Ah, ecco: una storia italiana ma avvenuta nel lontano NordEst, che da 75 anni viene pervicacemente rimossa, occultata, manipololata a piacere senza mai affrontarla per quello che è stata e in cui, come al solito, ci è andato di mezzo il cittadino comune, ossia chi ha subito le conseguenze di quanto deciso altrove e in più alte, inarrivabili sfere. Che è poi la storia dell'umanità, e non dal  punto di vista del potere: in questo caso quella degli accadimenti che precedettero l'esodo degli italiani d'Istria e Dalmazia, un caso di vera e propria pulizia etnica che si sarebbe concluso nel 1954, in contemporanea con l'assegnazione definitiva della Zona A del Territorio Libero di Trieste all'Italia. I prodromi dell'esodo nell'estate del 1943, tra la caduta di Mussolini e l'8 Settembre, con lo sbandamento dell'esercito italiano lasciato senza comandi dai suoi vertici e dai Savoia fuggitivi, insomma, e in particolare, vi si racconta la tragica vicenda di Nora Cossetto, giovane studentessa universitaria di Visinada, in Istria, prima stuprata e poi infoibata, vittima simbolica della prima ondata di esecuzioni da parte dei partigiani titini, che non coinvolsero soltanto militari ed esponenti del regime fascista, ma anche e soprattutto i civili italiani, compresi quelli antifascisti e perfino alcuni comunisti non allineati, e pure quegli slavi che simpatizzavano con gli italiani non per motivi politici, ma perché ci convivano pacificamente da centinaia di anni, prima che le smanie nazionaliste prendessero il sopravvento. A pensarci bene, prima dello scoppio della Grande Guerra, quando entrambe le etnie (e ve ne erano un'altra decina) convivevano pacificamente nell'Impero Austroungarico. Per raccontare questa storia negletta ci è voluto un regista e attore (e qui anche sceneggiatore) argentino, per quanto di origini italiane: uno nostrano difficilmente avrebbe avuto il coraggio di andare contro l'onda da sempre dominante nell'universo cinematografaro concentrato nella Capitale (che da queste parti risulta molto più lontana di Vienna e lo è, anche geograficamente: ma è una cosa che non si deve dire), da sempre complice o succube del luogocomunismo de sinistra; e non stupisce nemmeno che siano vergognosamente poche le sale in cui viene proiettato (40 in tutta Italia nella seconda settimana) e magari a orari assurdi come a Udine, nel primissimo pomeriggio e dopo le 21: quasi un boicottaggio; e così, per protesta, sono andato a vederlo ieri a Trieste, città che più di ogni altra ha avuto un ruolo in quelle tristi vicende, per di più al Cinema Nazionale, così se qualche cretino vuole darmi anche del fascista, se ci tiene, faccia pure. Forse qualcuno avrà voluto leggere in quel "Rosso Istria" (da mettere tra parentesi) un riferimento troppo esplicito alle malefatte dei partigiani jugoslavi e alle complicità dei comunisti locali (su istruzioni del Migliore, il compagno Palmiro Togliatti, il braccio destro di Stalin per i repulisti a livello internazionale, vedi Guerra di Spagna), e invece si tratta del titolo della tesi di laurea, riferito al colore che la terra ha in Istria, dovuto alla massiccia presenza di bauxite, che Norma Cossetto, studentessa di lettere e filosofia all'Università di Padova, stava preparando, con l'aiuto del professor Ambrosin, altro personaggio di spicco del film interpretato da Franco Nero, l'intellettuale del posto (siamo a Visinada, nell'Istria Occidentale, tra Pirano e Parenzo) a cui i giovani italiani, fascisti e no, facevano riferimento. Norma era sì figlia del podestà locale, peraltro in quel periodo a Trieste, a cercare di capirre istruzioni sul da farsi che nessuno si prendeva la responsabilità di dare, ma nulla più; così come non c'entravano coi fascisti la maggior parte degli infoibati di quella tornata: il film ne racconta la storia inquadrandola nelle sue relazioni famigliari e di amicizia, rendendo vivo, a quasi ottant'anni di distanza, un intero ambiente e una realtà che appare oggi remota: ci sono gli amici antifascisti, a cominciare dall'amica del cuore, disposta perfino a tradirla; c'è il disertore, peraltro un ex spasimante (la componente mélo non poteva mancare); c'è il prete del paese; ci sono i carabinieri; ci sono i coloni, slavi e italiani; ci sono i partigiani titini, forse eccessivamente tratteggiati come i malvagi della situazione, ma chi ha voluto vedere un film politicamente schierato è decisamente in malafede e pure dotato di una ragguardevole coda di paglia, perché il regista non nasconde, le cause di tanta furia anti-italiana da parte dei seguaci di Tito, gli slavi emarginati a loro volta e brutalizzati dall'italianizzazione forzata voluta dal regime fascista, peraltro comune a quella tentata in Sud Tirolo, e questo la dice lunga sulla politica della "madre patria" nei confronti delle popolazioni che abitavano le cosiddette "terre redente", così come sottolinea l'ignominia delle alte sfere militari e di Casa Savoia nonché la codardia dei caporioni fascisti. Chi paga il prezzo maggiore, anche nel film, non è alla fine chi è schierato in un senso o nell'altro, ma proprio chi non c'entra o chi più chiaramente ha capito che la bestialità senza controllo viene puntualmente scatenata da quelle ideologie che spregiano l'umanesimo, a cominciare da quelle nazionaliste, come il professore a suo tempo soldato nella Prima Guerra Mondiale; l'antifascista non comunista; l'amico e disertore che rimane nel dubbio. Inevitabilmente mi è venuto da pensare a ciò che diceva, mai abbastanza ascoltato l'indimenticato Fulvio Tomizza, nato proprio da quelle parti, sempre troppo italiano per gli jugoslavi e troppo slavo per gli italiani; uno comunista per i fascisti di qua e borghese per quelli di à. Due ore e mezzo in un film ben girato e ambientato alla perfezione, che ha il difetto dei essere di taglio un po' troppo televisivo, ma glielo perdono volentieri per il senso generale che vuol comunicare, affrontando un tema finora tabù nel nostro cinema oltre a cercare di oliare la memoria di un Paese che, se non sa nemmeno di preciso dove si collochi e che storia abbia il Friuli, figurarsi l'Istria o la Dalmazia, salvo andarci in vacanza d'estate (e solo i migliori lo fanno). 

domenica 25 novembre 2018

Troppa grazia

"Troppa Grazia" di Gianni Zanasi. Con Alba Rohrwacher, Elio Germano, Giuseppe Battiston, Hadas Yaron, Rosa Vannucci, Carlotta Natoli, Teco Celio, Thomas Trabacchi, Daniele De Angelis e altri. Italia 2018 ★★½
Altro film che parte col piede giusto, scoppiettante, imprevedibile, sorprendente, e si va via via spegnendo: non negli ultimi dieci minuti come Chesil Beach, ma in tutta la sua seconda parte, in cui sembra perdersi tutta la verve, la freschezza e l'originalità della prima. E nulla può l'eccellente interpretazione della generosa e versatile Alba Rohrwacher, né quelle degli altri ottimi attori che le fanno da spalla: la trama, che nella surrealtà aveva la sua forza provocatoria (una Madonna vestita da profuga dimessa e dall'atteggiamento decisionista che appare a una geometra esperta in rilevamenti catastali, ragazza madre tanto pignola sul lavoro quanto confusionaria nella sua vita privata, e interferisce nella sua esistenza), si sfilaccia col risultato di non portare da nessuna parte, salvo in una sorta di paradiso bucolico, una vallata sotterranea svelata in seguito all'attentato a un cantiere che avrebbe dovuto edificare l'ennesima pensata del solito architetto sulla cresta dell'onda. Lucia (Rohrwacher) è una "disgraziata", come la definisce Paolo (Battiston) un assessore o sindaco di un paesino probabilmente toscano e suo vecchio amico per giustificare la sua scelta per mettere la firma a un progetto a cui tiene: troppo disgraziata per fare storie e non passare sopra a delle palesi irregolarità, ma appare, per l'appunto, la Madonna a cambiare le carte in tavola e a favorire il miracolo, ossia la "grazia", di una giustizia che per una volta si realizza non a opera delle istituzioni preposte ma per via del tutto illegale oltre che "divina". Gli spunti originali non mancano, alcune scene e scambi di battute sono decisamente originali e divertenti ma questa volta non bastano per ripetere il "miracolo" de  La felicità è un sistema complessoil film precedente del regista emiliano, che pure di talento ne ha e, paradossalmente, fanno precipitare la pellicola, nel suo complesso, nello scontato e nel luogocomunismo della commedia italiota, per quanto riveduta e corretta al l'insegna di una sorta di realismo magico, ed è un vero peccato: ma sono altresì convinto che Gianni Zanasi si rifarà alla prossima occasione. 

venerdì 23 novembre 2018

Chesil Beach - Il segreto di una notte

"Chesil Beach - Il segreto di una notte" (On Chesil Beach) di Dominic Cooke. Con Saoirse Ronan, Billy Howle, Anne-Marie Duff, Adrian Scarborough, Emily Watson, Samuel West e altri. GB 2017 ★★★=
Ché poi non era nemmeno una notte ma un pomeriggio di luce: non c'è un una scena notturna in tutto il film, che peraltro si distingue per luminosità (quella particolare che può offrire una località marittima dell'Inghilterra meridionale), fotografia e attenzione ai dettagli. La solita aggiunta nel titolo alla versione italiana che non c'entra un accidente: la storia è semplicemente quella di un matrimonio che è durato soltanto lo spazio di sei ore, perché non consumato, fra i due protagonisti arrivati entrambi vergini al momento dell'inizio di una vita in comune che sembrava nascere sotto i migliori auspici, a giudicare dal sentimento che legava i due protagonisti, Florence ed Edward, diplomata oxfordiana in violino e di buona famiglia lei, mezzo cafone di provincia (questo il giudizio dei insopportabili e gretti futuri suoceri) e laureato con lode ma a Londra e figlio del direttore di una scuola elementare e di una pittrice rimasta cerebrolesa in seguito a un incidente lui. Siamo nel 1962 e dagli USA, oltre ai venti libertari sull'onda del kennedismo, giungono i dischi di Chuck Berry che influenzeranno i Rolling Stones (nati in quell'anno), sta per scoppiare tanto la beatlemania quanto la rivoluzione sessuale ma i due, che si sono conosciuti l'anno precedente a un meeting antinucleare, davanti all'evento che dovrebbe segnare il passaggio all'età adulta nonché dalla liberazione delle catene rispettive catene famigliari che li hanno condizionati fino ad allora, si dimostrano ancora succubi di esse e si incartano: il momento tanto atteso si trasforma in una sorta di incubo in cui ciascuno dei due rivive, in continui flash back, gli episodi che li hanno segnati nonché le tappe del loro rapporto, che avrà fine proprio su quella spiaggia di ciottoli su cui si affaccia l'albergo in cui avrebbero dovuto trascorrere la prima notte di nozze, che non arriverà a sopraggiungere. La bravura di Saoirse Ronan non è una novità: da sola, anche qui come nel sopravvalutato Lady Bird, riesce a  illuminare un film altrimenti poco più che discreto: a soli 24 anni si conferma un talento straordinario, ma anche gli altri interpreti sono all'altezza, e caratterizzano in modo credibile i loro personaggi. Lecita e felice la scelta di costruire la pellicola sui flash back (Ian McEwan, oltre che autore del romanzo da cui è tratto il film, ne è anche lo sceneggiatore) ma solo fino ai dieci minuti finali, che rischiano di rovinare quanto visto di buono nei 100' precedenti: i due flash forward nel 1975 e poi nel 2007 sono micidiali, per un epilogo melenso, lacrimevole oltre che già visto (un esempio recente: La La Land, che però è un capolavoro) che poteva essere felicemente evitato sul grande schermo. 

mercoledì 21 novembre 2018

Widows - Eredità criminale

"Widows - Eredità criminale" (Widows) di Steve McQueen (II). Con Viola Davis, Elizabeth Debicki, Michelle Rodriguez, Cynthia Erivo, Colin Farrell, Colin Farrell, Liam Neeson, Robert Duvall e altri. USA 2018 ★★★+
Per una volta l'aggiunta nostrana al titolo originale, che specifica Eredità criminale, ha un senso compiuto: è quella che Harry Rawlins, capo di una gamba di criminali rimasta sterminata nel corso di una rapina andata male, lascia alla vedova Veronica in forma di un quaderno di appunti in cui si trova il piano dettagliato di una rapina da cinque milioni di dollari. Quelli che servono a Veronica e alle altre donne dei componenti della banda rimaste vedove innanzitutto per risarcire il malvivente di colore Jamal Manning, ora candidato a delle elezioni locali in un distretto di Chicago, a cui la banda aveva sottratto due milioni di dollari destinati alla campagna elettorale e che sono finiti bruciati durante uno scontro con la polizia (ma sarà davvero stato così?), sia per sistemarsi dopo la morte dei rispettivi mariti. Le donne non si conoscevano e non potrebbero essere più diverse, così come differenti erano i rapporti coi rispettivi mariti, e così Linda e Alice si uniscono a Veronica ma non Amanda, che ha da poco avuto un figlio e preferisce tenersene fuori: al suo posto entrerà a far parte del gruppo Belle, una ragazza brava ad arrangiarsi e autista provetta, che fa la baby-sitter part time da Linda. Questo il succo della trama di questo film su un "colpo grosso" che è sì d'azione ma anche molto altro, perché coglie il pretesto per mostrare i contrasti e le tensioni di una delle più grosse e importanti città statunitensi, la corruttela nell'amministrazione pubblica, le relazioni sotterranee e inconfessabili tra potere e gangsterismo e anche la chiesa: vittima della nuova rapina sarà infatti la famiglia Mulligan, a lungo dominatrice della scena politica del distretto (strepitoso Robert Duval nel ruolo del patriarca, invischiato in vicende giudiziarie, che ha dovuto rassegnarsi a far correre al suo posto Jack, un Colin Farrell che stavolta non gigioneggia, il quale non ha la sua tempra né le sue idee), ma soprattutto indaga in modo profondo e non banale sulle diverse personalità dei personaggi femminili, tutti resi molto efficacemente dalle interpreti, sulle quali svetta, a mio parere, la Alice di Elizabeth Debicki, la più contraddittoria e però riuscita del gruppo. Impossibile svelare altro sulla trama a meno di non rovinare la visione di un film in cui le sorprese non mancano e, se anche sembra partire col freno a mano tirato e divagando, girando in cerchio, ha il fuoco a covare sotto la cenere, e rimane realistico, per quanto riguarda i personaggi, al di là della credibilità della vicenda in sé. Efficace dunque sia come thriller d'azione, sia come film che racconta la realtà di una fetta d'America, per quanto tratto da una serie inglese di una trentina d'anni fa, soprattutto girato con ottimo mestiere da un regista che aveva già dato prova del suo talento in Hunger, Shame e 12 anni schiavo, sebbene quest'ultimo non mi avesse convinto.

domenica 18 novembre 2018

Afghanistan: Enduring Freedom



"Afghanistan: Enduring Freedom". Gli ultimi cinque episodi. Di Richard Bean, Ben Ockrent, Simon Stephens, Colin Teevan, Naomi Wallace. Traduzione di Lucio De Capitani, regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani; scene e costumi di Carlo Sala; video Francesco Frongia; luci Nando Frigerio; suono Giuseppe Marzoli. Con Claudia Coli, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Fabrizio Matteini, Michele Radice, Emilia Scarpati Fanetti, Massimo Somaglino, Hossein Taheri, Giulia Viana. Coproduzione Teatro dell'Elfo ed Emilia Romagna Teatro Fondazione in collaborazione con Napoli Teatro Festival.
Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 25 novembre.

Seconda parte del polittico sull'Afghanistan portato in scena con la regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani, rispetto alla prima, che privilegiava la ricostruzione storica in ordine cronologico, si concentra maggiormente sulle ripercussioni che gli eventi che hanno continuato ad abbattersi su quel martoriato Paese dal 1996 a oggi hanno sulle vicende umane di chi vi è coinvolto: di propria iniziativa, come i militari inglesi o americani, i talebani, le organizzazioni di aiuto umanitario o lo stesso Massud, il Leone del Panshir che nel suo desiderio di un Afghanistan moderno e democratico è andato a fidarsi della buona fede degli USA; oppure passivamente, in balia degli accadimenti e delle velleitarie e arroganti pretese altrui di essere in grado di risolvere un verminaio da essi stessi creato, si trattasse dei colonialisti inglesi di un secolo e mezzo fa, dell'imperialismo russo, di quello a stelle e strisce, dei vari signori della guerra e, da ultimi, gli "studenti" coranici. Come la prima parte, questo sequel è composto di cinque scene tratte da altrettanti distinti racconti di autori anglosassoni: Il Leone di Kabul di C. Teevan; Miele di B. Ockrent; Dalla parte degli angeli di R. Bean; Volta Stellata di S. Stephens e Come se quel freddo di N. Wallace, che non appartiene all’originario progetto del Trycicle Theatre. Soprattutto quest'ultimo, particolarmente suggestivo, che chiude le tre ore di questo intensissimo spettacolo, si svolge in una dimensione onirica, l'unica in cui possono trovarsi insieme e sullo stesso livello due ragazzine afghane, di cui la più piccola imprigionata in un burqa, e un giovane soldato americano arruolatosi per potersi pagare gli studi universitari, mentre ripercorrono la loro vita e i loro stessi sogni poco prima di morire, e anche l'unica dimensione in cui possono avere soluzione conflitti dovuti ad arroganza, delirio di potere, ignoranza, valori inconciliabili, linguaggi diversi e dove nessuno può pretendere di avere ragione o una soluzione in mano, com'è stato da sempre dimostrato dalla storia di questo Paese straordinariamente variegato e complesso. Le scene, semplici ed essenziali, in cui gli inserti multimediali sono ridotti rispetto alla prima parte, coi loro colori quasi stinti sottolineano l'aspetto di sospensione in cui si muovono i personaggi in una realtà di cui non hanno il minimo controllo, e di cui non sono in grado di comprendere il senso. Gli ottimi interpreti sono gli stessi della prima parte, Il Grande Gioco, già in cartellone all'inizio dell'anno scorso e che si può tuttora vedere, sempre all'Elfo/Puccini, nelle giornate di martedì 20 e sabato 24, mentre domenica 25 avrà luogo una maratona con inizio alle 11.30 del mattino.

giovedì 15 novembre 2018

Tutti lo sanno

"Tutti lo sanno" (Everybody Konows) di Asghar Farhadi. Con Penélope Cruz, Javier Bardem, Ricardo Darín, Eduard Fernández, Bárbara Lennie, Inma Cuesta, Elvira Mínguez e altri. Spagna, Francia, Italia 2018 ★★★★
Con Farhadi, a qualsiasi latitudine, longitudine o ambiente collochi le storie che racconta nei suoi film si va sul sicuro: che i segreti e la natura nascosta delle persone nei rapporti di coppia e famigliari vengano alla luce per via di eventi imprevisti, capaci di scatenarne la contraddizione, e che questo avvenga attraverso i dialoghi, dove le parole sono sì fondamentale, ma anche gli sguardi, i gesti e quanto viene taciuto; terza certezza, che il regista iraniano li affidi a interpreti capaci di reggere la parte, e anche in questo caso lo sono tutti, indistintamente. Laura (Cruz) torna dall'Argentina assieme ai due figli nel paesino rurale vicino a Madrid (per la cronaca si tratta di Torrelaguna) dove vive la famiglia d'origine in occasione del matrimonio di una sorella: grande festa, che coinvolge tutto il paese (dove tutto sanno di tutti) e in particolare, com'è ovvio, parenti e amici tra i quali Paco (Bardem), un viticoltore con cui aveva avuto una lunga e intensa relazione in gioventù. Grandi festeggiamenti, una vera fiesta dagli aspetti dionisiaci, durante la quale, proprio in occasione di un black out elettrico che risulterà essere stato causato artatamente, sparisce inspiegabilmente la figlia di Laura: entro breve verrà a sapere che si tratta di un rapimento, che però l'entourage decide di non denunciare alla polizia perché, in un caso precedente e in un paese vicino, la vittima, anche in quel caso una ragazza, fu uccisa dai sequestratori. Dovrà però dirlo al marito (Darín), rimasto a Buenos Aires per supposti motivi di lavoro, e questa è già la prima menzogna che verrà svelata: in realtà perché spiantato e in crisi da anni sia con la moglie sia a livello personale. Man mano che si procede nelle ricerche, e mentre ci si chiede chi fosse al corrente o meno della reale situazione finanziaria della famiglia della ragazza, si insinuano i dubbi su chi possa aver chiesto il riscatto, una somma peraltro non esorbitante, 300 mila euro, che comunque Laura e il marito Alejandro non sono nemmeno lontanamente in grado di pagare. Il sospetto dilaga, perfino sullo stesso genitore che nel frattempo è giunto in Spagna, per non parlare della posizione di Paco, e del motivo della sua disponibilità a fornire un aiuto più che concreto a risolvere una situazione che si fa disperata. Il finale è a sorpresa, anche se solo fino a un certo punto, ma tutto l'impianto regge perfettamente, in un alternarsi continuo di azione e momenti di pausa, esterni e interni, luce e ombra in un noir psicologico che può ricordare perfino Hitchcock. Un gran bel film, con attori impeccabili e, appunto, un autore che è una "certezza" a dirigerli. 

martedì 13 novembre 2018

First Man - Il primo uomo

"First Man - Il primo uomo" (First Man) di Damien Chazelle. Con Ryan Gosling, Claire Foy, Jason Clarke, Kyla Chandler, Corey Stoll, Patrick Fugit, Christopher Abbott, Ciarán Hinds e altri. USA 2018 ★★★★★
Ho i miei dubbi che l'Academy, riparando alla figura barbina fatta nell'edizione dell'anno scorso con La La Land, dopo aver premiato con l'Oscar il giovane Chazelle come miglior regista lo assegnino al suo First Man come miglior film: troppo poco patriottardo, per i gusti USA, uno che raccontando i momenti salienti della vita di Neil Armstrong, il primo uomo a mettere il piede sulla Luna, omette volutamente di proporre la scena della bandiera a stelle e strisce piantata sul suolo del nostro satellite. Particolare che fa crescere la mia stima nei suoi confronti, che già era alta. Come anche in Whiplash e, per l'appunto, La La Land, uno dei temi di fondo è l'ostinazione, il sacrificio, la volontà di realizzare un sogno e, forse, la nostalgia di tempi in cui era possibile farne; stavolta basandosi su una sceneggiatura non sua, ma tratta dalla biografia ufficiale scritta da James R. Hansen. Il ritratto che Chazelle fa dell'ingegnere-pilota-collaudatore che decide di entrare a far parte del Programma Gemini e, successivamente, delle missioni Apollo della NASA, che si concluderanno col con lo sbarco sulla Luna del luglio 1969, è quello di un uomo riservato, timido, talvolta impacciato nei rapporti col prossimo, specialmente con la moglie e i due figli maschi, in particolare dopo essere stato colpito da un lutto da cui non si è mai ripreso: la morte, a due anni, dell'amata figlioletta Karen, già in cura per un grave tumore infantile. E' a lei che aveva promesso la Luna, un impegno a cui terrà fede. Non c'è nulla di epico, retorico, roboante, eroico, né le riprese hanno bisogni di effetti speciali mirabolanti: anzi, è con estremo realismo che vengono mostrate le capsule sempre più piccole e claustrofobiche in cui vengono costretti a entrare gli astronauti, con i loro cigolii terrificanti, lamiere male assicurate, graffi nella verniciatura, viti mancanti, ed è alla verosimiglianza che dobbiamo l'emozione di trovarci, già nelle prime immagini, nella cabina di un aereo che sfonda per tre volte il muro del suono  con Armstrong ai comandi per un volo di prova nei primi anni Sessanta, per poi rientrare a casa e condurre una vita ritirata assieme alla sua famiglia in una tranquilla località di campagna. Il film, lasciando sullo sfondo ma evocando efficacemente il clima dell'epoca, tra Guerra Fredda, Vietnam, contestazione, non nasconde né le difficoltà e i fallimenti incontrati nelle missioni che si sono susseguite, compresa la tragedia della prima missione Apollo nel gennaio del 1967, con i tre astronauti carbonizzati sulla rampa di lancio durante una simulazione del count-down, né i rapporti andati incrinandosi tra Armstrong (straordinariamente interpretato da Ryan Gosling, a mio parere da tempo uno dei migliori attori in circolazione) e la moglie, la sorprendente Claire Foy, fino al suo compimento. Raggiunto lo scopo, che per il governo americano era battere sul tempo i sovietici nella conquista dello spazio, tant'è vero che da allora l'interesse per le avventure lunari è completamente scomparso. Assieme al nemico, l'URSS, i sogni, la bella musica (la colonna sonora è, come sempre nei fil di Chazelle, di primissimo ordine) e l'eroismo "dal volto umano" di persone come Armstrong e tanti suoi colleghi. Un film coinvolgente, destinato a rimanere dentro a lungo. 

domenica 11 novembre 2018

Italoargentinità - 3 / Amore e libertà


In un altro sogno lei girava, smarrita, per il purgatorio insieme a Ducante, sicura che non sarebbe arrivata in paradiso neppure con la benedizione di Dio. E quella parola - amore - faceva vedere alla nonna che dietro un concetto indefinibile c'è sempre un'idea. "Qual è in questo caso?" si domandava. Possedere ed essere posseduto. Violare ed essere violato. Curare ed essere curato. Verbo e ontologia, notevole. [...]
"Perché vediamo un po'", indagava inarcando le sopracciglia e sorridendo come Jerry Lewis: "quale idea ha costruito l'impero romano? Dominare il mondo, espandersi, sottomettere. La schiavitù come forma di sostentamento. Idea che la cristianità fece propria. Per questo non si è mai opposta alla schiavitù, anzi l'ha ammessa fino alla Rivoluzione francese, non l'ha mai messa in discussione e l'ha perfino santificata. Tutto in nome dell'amore!
"E quale idea sostiene l'imperialismo capitalista?" ci chiedeva dopo aver sollevato l'indice verso la ragnatela che pendeva dal centro del tinello: espansione e potere, sottomissione. E quale idea regge il comunismo sovietico? La liberazione dell'uomo attraverso la creazione di nuove forme di relazioni (che non sarebbe neanche male) ma controllate, delimitate, regolate - sottolineava le sillabe inarcando le sopracciglia in tono ammonitorio - ma tutto questo porta a nuova forme di sottomissione. 
"L'amore ha in sé l'idea di libertà, vi rendete conto?" E dava un cazzotto sul tavolo come uno che ha scoperto di essersi messo due calzini di colore diverso. "Per questo i dogmi, le religioni, i sistemi politici hanno sempre la pretesa di definire l'amore e lo separano dal sesso, condannando l'erotismo perché, semplicemente, non possono tollerare la libertà.
"La libertà è insopportabile, quindi bisogna restringerla. Questo è il problema centrale del nostro tempo, di tutti i tempi. Si tratta, allora, di capire che la lotta dell'umanità attraverso i secoli è stata sì la lotta contro lo sfruttamento e l'ingiustizia, ma solo nel suo aspetto visibile. Nella sua essenza, la lotta dell'umanità è stata sempre quella di sapere cosa farsene della libertà, come gestirla. E di conseguenza come interromperla, prestabilirla, come dominarla e amministrarla. Vale a dire: come controllare l'uomo, come sottometterlo, come evitare l'espressione e l'espansione dei suoi istinti. 
"Adamo ed Eva furono espulsi dal paradiso perché ebbero l'ardire di essere liberi e da lì derivò tutto il resto. Si lasciarono trasportare dall'istinto. Questione di un attimo. Come in un attimo in Messico ti può portar via la morte: inevitabilmente. Perché avevano di-sob-be-di-to. Ed eccoci al punto: l'idea della disobbedienza è un'idea di libertà, ma neanche Dio la consente e per questo li espelle dal paradiso"
Si eccitava con i suoi stessi ragionamenti, la nonna. E non riusciva più a fermarsi. E' questo che definisce la condizione umana più bella: la disobbedienza come filosofia è più del semplice spirito di trasgressione, che nelle nostre culture ha un senso assai poco ludico, alla Cortázar, giocoso. No, è molto più di questo: disobbedire vuol dire essere se stessi, vuol dire affermare il proprio io profondo, e se si è in coppia, in due, meglio ancora, e se si è in coro pericolosissimo perché racchiude l'autentica liberazione dei popoli. Per questo il marxismo è stato rivoluzionario; perché ha proposto l'idea nel modo più intelligente. Il suo limite è stato aver reso possibile il comunismo reale, quello che esiste oggi e che altro non è se non la stessa idea divenuta dogma e sistema di vita. (Franca Domeniconelle, una nipote di Angela Stracciattivaglini)


Da Sant'Uffizio della Memoria di Mempo Giardinelli, 1991. Prima edizione italiana febbraio 2016, Eliot - Lit edizioni.

venerdì 9 novembre 2018

Menocchio

"Menocchio" di Alberto Fasulo. Con Marcello Martini, Maurizio Fanin, Carlo Baldracchi, Maurizio Fanin, Mirko Artuso, Emanuele Bertossi, Nilla Patrizio, Agnese Fior, Roberta Potrich e altri. Italia, Romania 2018 ★★★★½
Sarebbe bello, oltre che importante, che questo notevole film uscisse dalla dimensione locale e, magari attraverso il passa-parola, potesse venire apprezzato, come merita, in un ambito più vasto: come del resto è avvenuto tre mesi fa in occasione di Locarno 71, festival che da sempre ha un occhio di riguardo per film difficili e inconsueti, dove ha riscosso il favore di pubblico e critica. La pellicola, diretta e ideata da Alberto Fasulo, già segnalatosi con Rumore Bianco e Tir, si basa sulle ricerche storiografiche di Andrea Del Col sui processi dell'Inquisizione che a loro volta costituiscono la documentazione del famoso saggio Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg, uscito nel 1976, che ha reso noto la vicenda e il personaggio fuori dai confini del Friuli, raccontando i due processi per eresia a cui fu sottoposto il mugnaio di Montereale Valcellina Domenico Scandella, detto per l'appunto Menocchio, il primo nel 1584 e il secondo nel 1599, dopo il quale fu arso sul rogo. In bilico fra documentario e finzione, la pellicola si avvale della straordinaria interpretazione di attori in gran parte non professionisti scovati in loco, tra Val Cellina (dove Menocchio nacque e visse) e Val Pesarina, dal regista sanvitese, che li fa esprimere in un misto di italiano dialettale del tempo, friulano e latino, ed è giocata soprattutto sui primissimi piani dei personaggi, in particolare quello principale, e sul contrasto fra luci e ombre infondendo una dimensione fortemente pittorica a un cinema che per scelta è estremamente realista. Due sono gli aspetti che rendono Menocchio una figura simbolica e quanto mai attuale: la sua cosmogonia, che riflette una visione profondamente legata alla natura (e condivisa sostanzialmente dall'ambiente contadino in cui viveva; dio è dappertutto, non nelle invenzioni dogmatiche della chiesa) e del tutto umanistica, inaccettabile per la chiesa cattolica, in particolare quella controriformista, ma anche per qualsiasi altro potere, statale o religioso che sia, il quale, per detenerlo, si basa su una dottrina elaborata da una casta di eletti e a uso e consumo di un ceto che la perpetua prevaricando ed esercitando un dominio assoluto sugli altri che gli sottostanno; il costo, in termini di libertà, di nutrire il dubbio, che è il fondamento di qualsiasi pensiero che possa definirsi tale, ossia critico, e questo vale anche, e soprattutto oggi, per quello scientifico (e che nulla ha a che vedere con LaScienza, ossia l'accozzaglia tecnologista fatta passare comune unica e vera: un dogma equivalente alle panzane su cui si reggono le varie fedi e ideologie). Superfluo dire che per uno che come me nutre come me un timore ancestrale, rima ancora che diffidenza, nei confronti di qualsivoglia ideologia, la visione di Menocchio sia stata di conforto e come un "ritorno a casa" e la conferma che il nocciolo di qualsiasi questione, oggi come sempre, sia sempre la natura del potere e dei mezzi che questi usa per autogiustificarsi e quindi perpetrarsi. Quindi: grazie!

mercoledì 7 novembre 2018

Italoargentinità - 2


"... quando apparve un signore anziano, che portava a spasso tre piccoli pechinesi chiamati Fede, Speranza e Carità. Mi salutò gentilmente, ma con un'aria triste, dicendomi che 'questo paese, cara signora, è nato sotto una cattiva stella. Dovevamo essere ispanici, come Messico, Cuba o Perú e invece ci siamo ridotti a essere una maldestra mescola di italiani emigrati con una frustrata vocazione britannica e ingredienti ebrei, arabi, francesi ed est europei'.
"Così disse e proprio così fu il mio dispiacere: il verbo ridursi era intollerabile, un insulto, ma lui fece un gesto con la mano e disse: 'Stia in silenzio e ascolti, perché questo è un sogno, non una discussione. E' stato colpa degli italiani se siamo diventato un popolo ibrido e nervoso, fatuo e pedante, intelligente ma dalla dignità precaria, poco prolisso ma allo stesso tempo casinista e sordo'
"Subito dopo se la prese con gli spagnoli, gli ebrei, gli arabi, i gallesi e gli irlandesi (britannici di seconda classe, li chiamò) e sentenziò: 'qui il problema è l'immigrazione. Questo popolo, cara signora, è come una mula, che nasce dall'incrocio tra un cavallo e un'asina, o tra un'asino e una giumenta. Cresce ma è sterile. Consuma ma non produce'. Io, naturalmente, ero indignata, ma lui non mi lasciava parlare. Mi ripugnava vedere che si trattava di uno spirito oligarchico. Era un fascio, si vedeva lontano un miglio; un razzista, lo Spirito dell'Argentinità. Ma anche così aveva qualcosa di commovente, e se devo dire la verità le gente sconcertata mi provoca sempre tenerezza". (Sogno riportato dallo Scemo di buona memoria, figlio di Pedro Domeniconelle e Laura Sanchez)

Da Sant'Uffizio della memoria di Mempo Giardinelli, 1991. Prima edizione italiana febbraio 2016, Eliot - Lit edizioni

martedì 6 novembre 2018

Italoargentinità -1


"Mi ci metto anch'io, se vuoi, ma qui siamo tutti degli irresponsabili. Prendiamo a calci la scacchiera, ci facciamo lo sgambetto da soli, ci lamentiamo troppo, ci crediamo importanti e disprezziamo coloro che ci criticano. Siamo un paese Giardini d'Infanzia come ci definì Maria Elena Walsh, te lo ricordi? 
"Qui siamo agnostici ma cattolici mariani; siamo liberi pensatori ma censurati e con vocazione di censori; siamo democratici ma autoritari; qui i liberali sono conservatori; i radicali sono moderati; i rivoluzionari sono deliranti; ci sono socialisti di destra; i comunisti hanno appoggiato Videla; i partiti popolari dono stati contro il peronismo... Qui soltanto i fascisti sono coerenti, perché sono razzisti, assassini e figli di puttana, ma sono sempre uguali e non hanno mai dubbi.
"Che brutta cosa essere argentino! Che lavoro difficile!"  (Paola Domeniconelle, una nipote di Angela Stracciattivaglini

Da Sant'Uffizio della Memoria di Mempo Giardinelli, 1991. Prima edizione italiana febbraio 2016, Eliot - Lit edizioni.

Suona familiare?

domenica 4 novembre 2018

Disobedience

"Disobedience" di Sebastián Lelio. Con Rachel Weisz, Rachel McAdams, Alessandro Nivola, Cara Horgan, Mark Stobbart e altri. USA 2017 ★★★-
Si era già capito dai suoi film precedenti, Gloria e Una donna fantastica, che con Sebastián Lelio si va sul sicuro, e il giovane regista cileno si ripete con Disobedience, ambientato questa volta non nella natìa Santiago bensì a Londra, sempre comunque in un ambiente chiuso ai limiti della claustrofobia: quello della locale borghesia benestante nei primi due film e quello della comunità ebraica in questo ultimo lavoro; e oltre a confezionare un prodotto formalmente ineccepibile, conferma anche la capacità di azzeccare la scelta dei protagonisti, specie di quelli femminili: in questo caso le due Rachel, la Weisz anche co-produttrice del film, e la McAdams. La prima è Ronit, figlia del rabbino capo, da anni trasferitasi e New York dove lavora come fotografa rinomata, a cui giunge la notizia dell'improvvisa morte del padre, con cui aveva rotto i rapporti dopo che questi aveva scoperto il suo legame sentimentale con Esti (McAdams), l'amica dl cuore che, una volta sbarcata a Londra, scopre essersi sposata con Dovid, l'allievo prediletto del padre, di cui è successore in pectore. Viene ospitata proprio dalla coppia, e tra la veglia, le cene di famiglia, la visita della casa natale, che il padre di Ronit ha lasciato alla sinagoga anziché all'unica figlia, la preparazione alla celebrazione dell'addio, assistiamo al viaggio che la donna fa nella relazione con il padre, la famiglia e la comunità in cui viveva da emarginata per la sua diversità, alla disperata ricerca di tracce della consapevolezza da parte del padre che lei l'aveva amato, mentre al contempo la passione tra lei ed Esti cova sotto la cenere, mettendo in crisi d'identità entrambe, finché quest'ultima non scopre di essere incinta di Dovid, in seguito a uno dei rituali e penosi accoppiamenti a cui si sottopone malvolentieri ogni venerdì sera, come stabilito, alla vigilia dello shabbat. A questo punto si verificano due episodi che deviano la vicenda dalla piega che inesorabilmente sembrava destinata a prendere, e tornano alla mente le parole che il padre di Ronit aveva pronunciato nell'omelia durante la quale si schiantò a terra, colpito dal valore e che riguardava il libero arbitrio che lo distingue dalle altre creature, e che vengono rievocate da Dovid. E' proprio la libertà di scelta, che ha come corollario sia la responsabilità sia l'accettazione di questa stessa libertà, il tema vero del film, e non tanto (e non solo) una denuncia dell'ortodossia religiosa (in questo caso ebraica, ossia la capostipite delle tre religioni monoteiste). Ecco, semmai sono i suoi rituali, i suoi riflessi sui personaggi, la sua natura tetra e respingente a conferire alla pellicola degli aspetti che la rendono in parte sgradevole, lugubre e a tratti lenta, ma fanno parte del racconto e hanno una funzione che li rende necessari. In ogni caso, un film che merita di essere visto.

venerdì 2 novembre 2018

Esercizi di memoria - Dimenticare è uccidere


"Come disse una volta Buñuel, l'umanità fa cacare. Semmai, a valere, sono alcuni esseri umani. Per questo sono pericolosi coloro che si riempiono la bocca di amore per l'umanità. Quelli che preconizzano l'amore per l'umanità e per l'arte, capisce? Io vorrei sapere se questi stessi soggetti sono capaci di amare una persona in carne e ossa, un essere umano con una faccia, un nome e un cognome. Bisognerebbe chiedergli come fanno l'amore, con che inventiva e con che immaginazione. Ammesso che lo facciano.
Se non ci rendiamo conto di questo, vede, io dico che il potere è destinato a corromperci tutti. Il successo dei poteri mondiali consiste nel far sì che la gente ormai non pensi, non faccia l'amore, non metta in discussione niente e si limiti a guardare la televisione per non pensare alla propria imbecillità, per giunta con l'illusione che l'unica imbecillità sia rinchiusa lì dentro, in quella scatola idiota. Anche per questo servono gli psicanalisti, che diventano le vere guide della condotta umana e non ti dicono mai che sei fottuto, ma semmai ti definiscono 'disadattato' o 'destrutturato', e così ti incitano a integrarti alle diverse forme di espressione della stupidità". (Franca Domeniconelle, una figlia)

da Sant'Uffizio della Memoria di Mempo Giardinelli, 1991. Prima edizione italiana febbraio 2016, Eliot - Lit edizioni.